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Viaggio nel C.A.R.A. di Bari-Palese. Tra le miserie e le difficoltà di una comunità misconosciuta

Quando iniziai a interessarmi alla realtà dei Centri di accoglienza, quella dei profughi non costituiva ancora una situazione allarmante. In poche settimane, complice una straordinaria inflazione delle rotte via terra, le agende europee sono state quasi monopolizzate dal caso migranti. Frontiere da oltrepassare, governi impreparati, l’atteggiamento di Bruxelles, i bambini senza vita in prima pagina: le migliaia di profughi che arrivavano (e arrivano) in Europa attraverso i paesi dell’Est e i Balcani hanno reso la situazione sempre più urgente, fino a farla diventare “la questione”. Le circostanze hanno poi dimostrato le difficoltà che presenta il Vecchio Continente nell’apertura di un dibattito approfondito sul confronto tra culture.

S&D

Non immaginavo che nell’arco di un paio di mesi – necessari per ottenere un visto dalla Prefettura in qualità di giornalista – i propositi di raccontare il Centro di accoglienza di Bari-Palese in un periodo di relativa quiete dei flussi, avrebbero lasciato spazio alla narrazione della vita di una campionario umano le cui sofferenze sono quotidianamente rilanciate su televisioni e social network. 

In Puglia ci sono tre dei dieci Centri di accoglienza per richiedenti asilo operativi sul territorio nazionale. Quello di Bari sorge sulle ceneri della vecchia “roulottopoli”, nei pressi della vecchia pista dell’aeroporto militare, all’interno della base dell’aeronautica. Per accedervi sono costretto, assieme alla fotografa che mi accompagna, a lasciare i documenti a un inserviente della base. Al box dove rilasciano i pass, un cartello recita “Nessuno può entrare al C.A.R.A. tranne gli operatori di Auxilium e il maresciallo”. 

La struttura è gestita dalla cooperativa potentina Auxilium, un gigante dell’accoglienza, ed è finita nel ciclone di Mafia Capitale per una presunta telefonata tra Luca Oldevaine e Salvatore Buzzi, braccio destro di Massimo Carminati. Uno dei crocevia dell’affaire immigrati nell’ambito dell’inchiesta sarebbe stato il C.A.R.A. di Bari. 

Al mio arrivo, un gruppo di eritrei è in coda di fronte a una delle baracche adibite a ufficio amministrativo. Sono stanchi, lo sguardo basso, indossano tutti la stessa tuta. “Sono arrivati questa notte – mi spiega il direttore del Centro – stanno ritirando il kit di prima accoglienza”. A ogni nuovo arrivato il Centro dà dei vestiti, qualche cambio di biancheria, prodotti per l’igiene intima. 

Pochi, però, indossano la tuta d’ordinanza: gli ospiti preferiscono, dopo aver racimolato qualche soldo, comprare nuovi vestiti o indossare quelli donati dalle associazioni. La struttura è in grado di garantire tutti i bisogni primari. Ogni giorno vengono serviti tre pasti caldi, è attivo uno sportello di consulto psicologico, c’è un punto di primo intervento – “da qui passa di tutto, dal semplice raffreddore sino a patologie come AIDS e tubercolosi”. 

Una macchina che coinvolge oltre 170 dipendenti. “Siamo un Centro modello – assicura il direttore – riusciamo a garantire per ogni ospite un pocket money (una sorta di paghetta per l’acquisto di beni, ndr) di 3,50 euro. Negli altri campi è di 2,50 euro”. Mentre mi accompagnano, alcuni operatori salutano un ospite di colore, “Ciao bello”. “No bello, noi negri tutti brutti”. 

Quel che sorprende è la grande varietà di ospiti. I 1.227 profughi (i dati sono aggiornati al 7 ottobre 2015) sono di 34 nazionalità diverse. Un melting pot da far invidia alle principali città dell’Occidente. Peccato che si concentri in un’area di circa otto campi da calcio. Se si considera che in Libia e in Mali la densità di popolazione si aggira tra i tre e i nove abitanti per chilometro quadro, è facile capire le criticità legate alla convivenza dei tanti sottogruppi che abitano il C.A.R.A. 

Nonostante la massiccia presenza di militari, al C.A.R.A. il rischio sommossa è costantemente dietro l’angolo. Ad aprile, un diverbio per l’utilizzo di un fornetto si è trasformato in una rissa con diversi feriti; nel 2013 un ragazzo curdo è stato accoltellato dopo un violento confronto con alcuni pakistani e afghani. Senza contare la grande rivolta del 2011, che mise sotto assedio Bari per una mattinata. La rabbia, la disperazione. Nessuno può fare nulla. Si può solo stare a guardare. 

Al Centro regna un clima di grande sospetto reciproco, complice un senso di reclusione, solo in parte mitigato dalla possibilità di uscire durante le ore diurne. I pochi ospiti presenti negli spazi aperti (“gli altri sono usciti, o stanno riposando”) sono diffidenti. Alcuni nigeriani, alla vista di taccuini e macchine fotografiche, ci dicono qualcosa. Non riusciamo a capirli. La sensazione è che non gradiscano l’intrusione. 

Dopo una visita di rito a tutti i principali luoghi del Centro, riesco a parlare con Umar Farooq, un pakistano. Ha poco più di trent’anni ed è a Bari da febbraio. In Pakistan era un giornalista. “I talebani non mi davano tregua”. Umar ha raccontato su alcune testate locali l’organizzazione dei Taliban nel nord del suo paese. Il passo verso la condanna a morte è stato breve: “Mi hanno prima mandato delle lettere, poi mi hanno fermato per strada”. Ha lavorato per Jazba, Insaf e Des Pardes. Nessun altro giornale è stato disposto ad accoglierlo quindi è fuggito in Grecia, prima dell’esodo in Italia. 

Nel suo paese i talebani erano guidati da un autista pakistano, “la religione non c’entra niente, sono i soldi a muovere la macchina”. “Voglio scrivere, sto male”. Ho visto colleghi occidentali senza lavoro chiedere un’occupazione. Mai implorare di poter scrivere. 

L’incontro con Umar mi permette di sciogliere il ghiaccio con gli altri ospiti, che adesso sono incuriositi. Il giornalista pakistano mi accompagna nel girone degli ultimi tra gli ultimi. Piccoli, esili, taciturni, gli eritrei costituiscono uno dei gruppi più cospicui all’interno del C.A.R.A. barese. 

Grazie all’aiuto di un’interprete riesco a parlare con Musie – “nella mia lingua significa Mosè” -, che capisce solo il tigrino. Ha 40 anni, ma ne dimostra 60: Musie ha combattuto da partigiano tra le fila del Fronte di Liberazione del Popolo Eritreo. Una guerra dura, primitiva, che nei primi anni Novanta ha sancito la definitiva cacciata degli etiopi dall’Eritrea. Ma ha portato la dittatura di Isaias Afewerki. “Amavo il mio paese, ma sono stato costretto a fuggire”. Dai primi anni Novanta ad oggi, Musie è stato in Sudan, Ruanda, Uganda, Egitto e nove anni in Israele. Poi è tornato in Africa per ripartire dalle coste libiche con un gommone. “Ci hanno picchiato sin da quando siamo saliti sull’imbarcazione, è stato un inferno. In tanti non ce l’hanno fatta”.

Con 4.500 dollari Musie si è garantito, assieme ad altre 600 persone, la traversata del Mediterraneo. Si inginocchia e cinge le gambe con le braccia, “Sono stato così, per tre giorni”. ”Quando sono arrivato ho ringraziato il Signore. Non mi avevano tagliato la gola”. E adesso? “Voglio lavorare, studiare, lavorare”. 

Voglio ascoltare un nigeriano, ma è un’impresa. Sono guardinghi e ci scrutano con atteggiamenti da gangster. Una recinzione è in grado di trasformare molte persone. La fotografa che mi accompagna riesce a legare con un bimbo, così chiedo alla madre (ha la mia stessa età, ndr) di scambiare due chiacchiere. Accetta, ma siamo costretti a spostarci in un ufficio: i nigeriani hanno capito e non sembrano vedere la cosa di buon grado. Per di più Anita è una donna. Qui le donne sono un oggetto ma anche qualcosa di sacro. È difficile stabilirne il confine. Su 1.227 ospiti, solo dieci sono donne. La protezione che le circonda ha qualcosa a che fare con la carica erotica. I rapporti sessuali con sconosciute sì, ma le donne della comunità non si toccano. Mi rendo conto che il sesso tra i migranti rimane un tabù ben più ostico del problema xenofobo. 

Anita ha 22 anni, e non sembra tanto contenta di parlare con un suo coetaneo. Vengo a sapere che è scappata da una condizione di miseria, niente guerra. Dopo la morte della madre, il padre non è riuscito a prendersi cura della sua famiglia. Così Anita è scappata, suo marito è in Libia, presto arriverà. Intanto deve badare ai suoi due bambini. Ha gli occhi provati. Chiedo a una delle psicologhe del Centro se le poche donne presenti sono coinvolte nel racket della prostituzione. “Non lo sappiamo, ma ci informiamo continuamente e cerchiamo di capire dove vanno quando escono dal Centro”. Sono consapevoli del pericolo, ma l’impotenza quando si parla di immigrati regna sovrana. 

Come Anita, sono in tanti quelli che scappano da una condizione di miseria. Se non hanno vissuto gli orrori della guerra difficilmente vedranno riconosciuti i diritti del rifugiato. Circa l’80 per cento degli ospiti si vede negare lo status. Così, ottenuto un permesso di soggiorno temporaneo, cominciano una seconda odissea che spesso li porta nell’Europa del nord: Germania, Danimarca, paesi scandinavi. 

Nel Centro ci sono due luoghi di culto, una moschea e una chiesa cristiana, entrambe ricavate in un nucleo prefabbricato. La prima, però, è molto più frequentata, alcuni dicono che il venerdì la fila scalza in preghiera arrivi sino ai cancelli. Vogliamo scattare una foto, siamo costretti a farlo di nascosto. “L’imam e i fedeli sono molto rigidi al riguardo” ci ammoniscono. La piccola chiesa, invece, è liberamente accessibile. 

Generalmente è frequentata dai nigeriani e la maggioranza di questi è pentecostale. 

Mamadou è un ragazzo maliano che gli operatori del Centro mi presentano. Il golpe del 2012 prima, lo scontro tra tuareg e gruppi fondamentalisti poi, hanno portato al crollo del suo paese. Adesso è inserito in alcuni programmi realizzati con la Chiesa. Gli chiedo se sia disponibile a svolgere lavori socialmente utili per integrarsi con la comunità locale, come proposto dal sindaco di Bari Antonio Decaro. “Solo con i bambini, avremmo tanto da imparare”. Le speranze rivolte verso questa generazione sono poche. Posso farti una foto? “Ci devo pensare”. 

Alla fine rifiuta. 

Si fa tardi. Solo Umar riesce a evitare che la mia visita diventi infruttuosa. 

Mi avvicina Siddiq, un ventiduenne afghano. “Potresti fare il modello” ci scherzo su. In effetti Siddiq ha dei bei tratti, molto europei. A tradirlo la tunica e uno sguardo intimidito sempre rivolto verso il basso. Nel suo paese non ha avuto la possibilità di studiare a causa del governo del terrore imposto dai talebani. Un anno e mezzo fa è scappato da solo, lasciando la famiglia in Afghanistan. Sembra deciso a rimanere a Bari, ma non del tutto. A un giovane immigrato non è concesso il beneficio del dubbio. A 22 anni sei uomo e devi avere le idee chiare. 

Nella zona mensa incontro Hashim, forse l’ospite più singolare all’interno del Centro. Alla mia vista saluta un gruppo di connazionali intunicati e mi raggiunge, zaino in spalla. In Afghanistan studiava ingegneria, “ma non c’erano più le condizioni per studiare serenamente”. Nessuna minaccia, più la volontà di non sottostare a dettami teocratici che inevitabilmente avevano investito anche il settore culturale. A 27 anni, Hashim vuole iscriversi al Politecnico e conta di ricevere un permesso di soggiorno riservato agli studenti. 

La calura di mezzogiorno dà nuova vita al C.A.R.A. Gli spazi si sono riempiti di gente e cominciano ad arrivare i primi pullman con gli ospiti che rientrano per il pranzo. Da qualche baracca si sentono gli echi di un brano reggae. La musica della liberazione, un inno al dolore per chi ha sopportato le brutture di Selassiè. 

Nella sala mensa pochi ritirano il pranzo. Molti di più quelli che giocano a ping-pong e biliardo. Al centro della struttura c’è una tettoia di legno con numerose cabine telefoniche, Tutte occupate. Più in là una seggiola e uno specchio: Il parrucchiere “chez Roland”. Ha poco più di vent’anni e si diletta con l’arte delle acconciature. Il campo ha già un proprio barbiere, ma in tantissimi si rivolgono a lui perché sa fare le creste, come quella di Balotelli. Quanto ti pagano? Non sa rispondermi. Pochi euro, un pacco di sigarette? “No amico, quanto vogliono darmi”. Quello del parrucchiere è solo un modo per sfuggire alla noia. 

Da noi torna Kamba. Ha 18 anni, viene dal Gambia e ci ha seguito per lunga parte della visita. È di colore, molto minuto, nel suo paese sono tutti così. Sembra felice di avere la compagnia di alcuni coetanei. “Sto cercando di imparare l’italiano, ma nonostante mi sforzi la strada è ancora lunga” confessa alla fotografa. Prima di chiederci se avessimo Facebook. 

Tutti, o quasi, hanno uno smartphone, sono ossessionati dal web. È un bene primario, serve per comunicare, anche per cazzeggiare. O lazing, come dicono qui. 

Nel frattempo molti ospiti hanno scaricato della merce sulle banchine, la stessa che probabilmente vendono in centro la mattina o sulle spiagge d’estate. Molti dei profughi cercano guadagni sicuri con la vendita ambulante. Qualcuno, però, finisce tra le maglie della criminalità, buttato nelle piazze dello spaccio dai signori della droga. Piazza Cesare Battisti, a due passi dell’Ateneo barese, la sera si trasforma in un drug store a cielo aperto. Durante un recente intervento dei Carabinieri, un richiedente asilo della Guinea Bissau è stato messo in stato di fermo perché trovato in possesso di oltre 150 grammi di marijuana e hashish. 

L’ora di pranzo trasforma il campo in una zona accogliente. Gli operatori di Auxilium si affrettano ad accompagnarci al varco. La visita deve terminare. 

Evidentemente vogliono evitare di turbare la vita del Centro, che nel frattempo si è colorato.

All’uscita ho solo il tempo di osservare una composizione di barchette di carta. L’hanno fatta gli ospiti per ricordare il naufragio del 3 Ottobre 2013 al largo delle coste di Lampedusa.

“Ogni anno commemoriamo quei morti con delle barchette”. Simbolo di viaggio, sì, ma soprattutto emblema di un’Italia ancora incapace di comprendere a livello sociale il fenomeno delle migrazioni. Nell’inconsapevole speranza che la situazione, un giorno, possa cambiare.

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