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La vita di tre famiglie palestinesi senz’acqua in Cisgiordania

Immagine di copertina

Israele limita la costruzione di infrastrutture necessarie per assicurare l’acqua ai palestinesi, e molte famiglie rischiano di dover lasciare le loro case

L’acqua è essenziale per ogni essere umano. Per i
palestinesi che vivono nelle zone della Cisgiordania occupata designate come
Area C (ovvero sotto totale controllo militare e civile israeliano), essa rappresenta inoltre uno strumento indispensabile per restare sulla propria
terra e portare avanti lo stile di vita tramandato di generazione in
generazione.

Queste fotografie raccontano la storia di tre famiglie
provenienti da diverse aree geografiche della Cisgiordania (Valle del Giordano
al nord; area di Betlemme al centro; Susiya al sud) e hanno come filo
conduttore il tema dell’acqua.

Tutte e tre queste famiglie, infatti, hanno almeno una cosa
in comune: la loro esistenza sulla propria terra dipende fortemente dal loro
accesso a questa risorsa fondamentale.

Procurarsi l’acqua (ad esempio, farla arrivare alle zone
remote di Al Rashayda tramite costose autocisterne o gestire con il contagocce
l’acqua piovana raccolta durante l’inverno a Susiya) è al centro della loro
routine quotidiana.

In assenza di tale seppur limitato accesso all’acqua, queste
famiglie non avrebbero altra scelta che lasciare le loro terre e la loro casa
alla ricerca di un nuovo posto dove stabilirsi. Ma nessuna di esse vuole andarsene.

Giorno dopo giorno, tuttavia, il loro accesso all’acqua
viene ulteriormente limitato in quanto le autorità occupanti israeliane
controllano e limitano lo sviluppo da parte dei palestinesi di infrastrutture
idriche nell’Area C della Cisgiordania.

Gli Accordi di Oslo II, inoltre, attribuiscono ai
palestinesi solo una piccolissima porzione di quelle risorse idriche che
dovrebbero invece essere equamente condivise. Di conseguenza, i campi già secchi di
melanzane a Hamsa diventano ogni giorno più aridi, e c’è poca speranza che la
situazione migliori a breve.

Al Rashayda: una
comunità privata dell’accesso all’acqua

La giovane famiglia di Farhan vive a Al Rashayda, un remoto
villaggio beduino situato nella zona di Betlemme, in Cisgiordania. La famiglia
estesa include Farhan, sua moglie incinta di gemelli, due figli, i genitori
anziani e la famiglia di suo fratello (in totale trenta persone).

Il nucleo familiare condivide un grande gregge di pecore, capre e
cammelli che nel suo complesso richiede elevate quantità d’acqua.

Poiché le autorità israeliane limitano la costruzione di infrastrutture
necessarie per l’approvvigionamento idrico necessario a soddisfare le esigenze primarie, la
famiglia di Farhan ripiega sull’acqua piovana raccolta durante l’inverno (la
cui disponibilità dipende fortemente dalle condizioni climatiche) e dall’acqua
comprata da venditori privati presso i villaggi vicini, che la portano a Farhan
con trattori o autocisterne.

Ogni metro quadrato d’acqua può
costare fino a 40 nis (9,60 euro), specialmente d’estate quando la domanda è
più elevata. Il consumo mensile totale della famiglia – incluso quello del
bestiame – si aggira attorno ai 120 metri cubi.

Due volte al giorno le oltre 120 pecore della famiglia di
Farhan devono essere portate al pozzo, a circa 3 chilometri di distanza da dove vive,
in quella che Israele ha dichiarato essere una firing zone, ovvero una zona militare chiusa per addestramenti.

Il gregge rappresenta la principale fonte di reddito per la
comunità, ma la sua gestione sta diventando sempre più difficile a causa delle restrizioni
imposte dalle autorità israeliane all’accesso alla terra e all’acqua.

Ogni giorno, vari membri della famiglia portano acqua alle
diverse tende di parenti sparse nella zona.

L’amministrazione civile israeliana nega sistematicamente ai
palestinesi residenti nell’Area C il diritto di costruire qualsiasi tipo di
struttura permanente (ad esempio, cisterne per la raccolta di acqua piovana o
strutture per garantire l’accesso all’acqua corrente, l’elettricità,
l’istruzione, le cure mediche).

La pioggia porta
l’acqua a Susiya

La famiglia di Khaled vive in una capanna beduina a Susiya.
In tutto Khaled ha otto figli, ma alcuni di loro hanno già messo su famiglia e
vivono nel vicino villaggio di Yatta. La vendita di latte e di altri prodotti
ovini rappresenta la loro principale fonte di reddito.

Dato che Israele non permette alla comunità di sviluppare
adeguate ed essenziali infrastrutture per il WASH (Water Sanitation and Hygiene
– ovvero acqua, servizi igienici e igiene), la famiglia utilizza l’acqua
piovana raccolta d’inverno per allevare le pecore.

Per le esigenze domestiche, invece, Khaled acquista acqua da
fornitori privati. Grazie alle sovvenzioni di un’organizzazione internazionale,
la famiglia paga solo un terzo del prezzo intero applicato dai fornitori per
metro cubo d’acqua, ovvero 10 nis (2,40 euro) invece che i proibitivi 30 nis (7,20 euro).

In media, gli abitanti di Susiya consumano 28 litri d’acqua
al giorno per persona. Per avere un termine di paragone, il consumo medio
giornaliero in Israele ammonta a 300 litri per persona.

Oltre alle difficoltà riscontrate in termini di accesso
all’acqua, l’intera comunità di Susiya è a rischo immediato di trasferimento
forzato.

Il 5 maggio 2015, infatti, l’Alta Corte di Giustizia
israeliana ha emesso un decreto che consente all’esercito di demolire l’intero
villaggio di Susiya e di espellere i suoi residenti, circa 340 persone tra
uomini, donne e bambini. 

Coltivare senz’acqua
a Hamsa

Fayez Ebsharat vive con la moglie, due figlie disabili e la
famiglia del figlio Mahmoud, composta da Mahmoud, sua moglie e due figlie
piccole, nella Valle del Giordano settentrionale, nel villaggio beduino di
Hamsa. La famiglia usa complessivamente 40 metri cubi d’acqua al mese per
coprire le proprie esigenze domestiche e agricole.

La famiglia di Fayez non è connessa alla rete idrica, in
quanto vive nell’Area C dove il diritto dei palestinesi di pianificare e
costruire è molto limitato. Pertanto, l’acqua viene portata alla famiglia con
autobotti e trattori a un prezzo di 18 nis (4,30 euro) al metro cubo.

“Lavoriamo duramente per comprare quest’acqua, e usiamo
l’acqua per svolgere il nostro faticoso lavoro”, 
racconta Fayez. Nonostante l’esercito israeliano abbia distrutto varie
volte la casa di Fayez, la sua famiglia continua a vivere sulla propria terra
in una tenda beduina.

Fayez  ha ricevuto un ordine
di demolizione della sua casa dalle autorità israeliane. La sua abitazione,
come ogni singola struttura costruita senza permesso nell’Area C, può essere
demolita in qualsiasi momento.

I permessi per costruire nell’Area C vengono regolarmente
negati ai palestinesi: negli ultimi anni, il 97 per cento delle domande presentate dai palestinesi per costruire o riabilitare qualsiasi tipo di
struttura è stato negato dalle autorità israeliane. 

* Testo di Camilla Corradin. Foto di Arturas Morozovas

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