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“La montagna che mangia uomini vivi”: la miniera d’argento più grande del mondo in Bolivia

Immagine di copertina

Il fotografo Giacomo Bruno ha trascorso tre giorni nella miniera di argento di Cerro Rico, a Potosì, in Bolivia dove ha realizzato il reportage "2018, odissea nell'Inferno"

Il fotografo Giacomo Bruno ha trascorso tre giorni nella miniera di argento di Cerro Rico, nella città di  Potosì, in Bolivia dove ha realizzato il reportage “2018, odissea nell’Inferno“.

S&D

Giacomo Bruno con questo fotoreportage ha voluto mostrare le condizioni in cui versano ancora oggi le persone che lavorano nella realtà dell’estrazione dei minerali, il cui prezzo è stabilito dalle borse e dal mercato di paesi del primo mondo, lontani, da cui forzatamente dipende la qualità della vita di migliaia di persone.

Il Cerro Rico, letteralmente “montagna ricca”, con suoi 4800 metri di altitudine, svetta oltre 700 metri sulla città andina di Potosì, in Bolivia.

Fu considerata la miniera di argento più grande e ricca del mondo. Al suo interno, da quasi 500 anni, si svolge l’attivita mineraria più precaria, malferma e fatale che si conosca.

Le grandi vene di argento, un tempo abbondanti, non sono più così facili da estrarre, ma la presenza di rame, piombo, zinco e stagno, rappresenta ancora una grande motivazione per gli oltre 25mila minatori che quotidianamente si recano a lavorare nelle cooperative minerarie del Cerro Rico.

Questi giovani minatori fanno i conti ogni giorno con le tremende e insalubri condizioni del lavoro in miniera.

Le cooperative non provvedono in nessun modo alla sicurezza dei lavoratori. Numerosi sono gli incidenti che si verificano praticamente ogni giorno: la media è di 15 morti al mese. Per questo tra i minatori il Cerro Rico è detto “la montagna che mangia uomini vivi”.

Ai minatori vengono forniti solo gli strumenti indispensabili di lavoro e per un minimo di sicurezza: stivali, elmetto con relativa torcia. Tutto il resto è a loro carico: guanti, maschere e anche la dinamite extra per aumentare la produttività ma soprattutto le foglie di coca, indispensabili per essere in grado di trascorre 12 /13 ore di lavoro ininterrotto dentro la miniera, senza accusare fame, sete e stanchezza.

L’aspettativa di vita di questi minatori è 40 anni, dovuta ai frequenti incidenti e al presentarsi quasi sistematico della silicosi, diffusissima tra i minatori, a causa della continua e prolungata esposizione alle polveri, che accumulandosi nei polmoni, portano ad una morte lenta e dolorosa per insufficienza respiratoria.

Ogni minatore prima di iniziare il suo turno di lavoro, si dedica a un tetro rituale propiziatorio: la visita al Tìo della Mina, il diavolo della miniera.

Al diavolo si chiede protezione, prima di procedere più in profondità nei meandri bui della miniera. La protezione di Dio infatti trova limite e confine nelle bocche di ingresso alla montagna e sotto terra non si può più contare sulla sua intercessione.

Si fa quindi una sorta di preghiera e si offre al Diavolo, re e sovrano del sotto terra, tutto ciò che per il minatore è più importante. Gli si posa una sigaretta accesa nella bocca perché la fumi, gli si versa birra e il famoso alcol puro a 98 gradi, così necessario durante il lavoro per tonificare i muscoli e il corpo e dimenticare freddo e fatica, e naturalmente le sacre foglie di coca.

Marco, accendendosi una sigaretta per offrirla al Tio, spiega: “ Fuori siamo tutti cattolici, ma quando siamo qui sotto, siamo con il Diavolo”.

Passando più in profondità tutto diventa immediatamente silezioso e calmo, quasi a presagire qualcosa di terribile e imminente.

Le rocce assorbono e ovattano qualsiasi rumore e l’unica sorgente luminosa è la lampadina posta sul proprio elmetto.

Dopo diversi minuti di camminata rannicchiati nei cunicoli di roccia viva, ci si imbatte in qualche squadra di lavoro.

I minatori sono generalmente silenziosi, le loro guance stracolme di foglie di coca. Non parlano. Le loro espressioni sono desolanti, vuote. I loro occhi sono inespressivi, sembrano persi, lontani. Non traspare nulla e sembra che tutta la loro umanità sia rimasta fuori da quei buchi polverosi, o l’abbiano lasciata fuori, apposta, nel mondo esterno, insieme a qualche vestito ancora pulito.

Come in uno stato di trance lavorano ininterrottamente e senza distrarsi, sebbene siano ben addestrati e in grado di riconoscere ogni minimo rumore, anche impercettibile nella distanza, come una perforazione, che potrebbe provenire da un tunnel vicino dove una dinamite potrebbe essere stata piazzata e pronta a esplodere, o a una vibrazione che potrebbe corrispondere a un vagone in arrivo, carico di una tonnellata di minerali, in velocità sui binari e pronto a travolgere qualsiasi cosa sia sulla sua traiettoria.

All’imporvviso dei boati. La terra vibra sotto i piedi, un’onda d’urto si avverte nelle orecchie e in tutto il corpo. Il tonfo sordo delle esplosioni di dinamite rimbalza sulla roccia nella apparente indifferenza dei minatori, che in gruppo, per la prima volta a voce alta, in coro, contano il numero delle esplosioni di boato in boato. È fondamentale contare le detonazioni. Gli incidenti più frequenti capitano per non aver contato. Se i boati non corrispondono al numero di cariche piazzate, qualcuna potrebbe essere inesplosa e potenzialmente mortale sotto un colpo di martello.

Questi giovani sembrano ormai assuefatti e rassegnati alla consapevolezza dei rischi di questo mestiere, sono abituati ormai a scendere e risalire dall’inferno una volta al giorno, sei giorni alla settimana.

Sanno che un giorno potrebbero scivolare e cadere in uno dei tanti buzones (tunnel verticali), dove scaricano il minerale perché raggiunga ,40 o 60 metri più sotto, la rotaia dei vagoni che lo portreranno all’esterno.

Sanno che il compenso non è fisso, che le cooperative pagano in proporzione alla qualità e alla quantità di minerale estratto settimanalmente da ogni squadra, e soprattutto che il compenso sarà in funzione della borsa che stabilisce il valore sul mercato di ogni minerale. Certo lo stipendio è appena superiore alla media, ma comunque irrisorio considerando che nelle condizioni più favorevoli si può arrivare a guadagnare in un mese circa 2500 bolivianos, che corrispondono a 295 euro.

Hanno la certezza, e glielo si legge negli occhi, che per quei pochi soldi necessari a mantenere la famiglia, lasceranno prima o dopo una vedova e degli orfani.

E lì, la tragedia nella tragedia, perché di quegli stessi orfani e vedove è affollata la montagna.

Rimasti improvvisamente senza una fonte di reddito, sono inevitabilmente condannati a rimanere legati alla montagna per sopravvivere, lavorando a loro volta nel mondo insalubre e logorante della miniera.
Sacrificare la scuola e l’istruzione in virtù di una più prioritaria sopravvivenza economica significa predestinarsi a un futuro all’interno della miniera.

Le madri, vedove, racimolano qualche soldo sorvegliando gli spogliatoi e custodendo gli effetti personali dei minatori, cucinando per loro o caricando, a badile ,cariole di minerali da vuotare nei grandi camion per il trasporto alla raffineria.

I figli sono lì, davanti alle boca minas (ingressi della miniera), coi loro vestiti impolverati e le loro gote arrossate dal sole dei 4mila metri e quegli occhi che hanno già visto molto più di quanto spetterebbe loro a quell’età. Si muovono con naturalezza tra i vagoni arrugginiti, dimostrando una certa dimestichezza ed esperienza nel manovrarli, e sugli stessi si rincorrono e scherzano con fare giocoso. Quando parlano però, quella leggerezza infantile si dissolve in una raggelante serietà.

Hanno voci decise. Ti incalzano con domande esperte riguardanti l’unica realtà che conoscono, quella della miniera. Ti fanno raccomandazioni, ti danno accorgimenti, ti spiegano come contenere i pericoli là dentro, come già sapessero tutto. Usano parole forti, frasi che non possono appartenere ad un bambino di 8 anni o a un adolescente. Sono parole di uomini adulti, disillusi, che non hanno già più tempo per le fantasie e le frivolezze di un’infanzia spensierata. Parlano di dinamite, parlano di ladroni che si aggirano la notte per sottrarre minerali e che vanno tenuti lontano.

Parlano di mantenere la famiglia. Conoscono bene il valore dei soldi. Sanno quanto costi guadagnarli e sanno che spetta anche a loro provvedere, perché la vita è cara e tutto costa, compresi il taglio di capelli e la divisa, obbligatori per frequentare la scuola.

Quella scuola che è l’unica opportunità per trovare un futuro lontano dalla miniera, un futuro a cui tutti auspicano e che tutti desidererebbero. “Siamo fieri perché siamo minatori, ma se avessimo un’alternativa non lavoreremmo più nella miniera. Vorrei un lavoro in città e non preoccuparmi più per la salute mia e dei miei compagni.”

Reportage a cura di Giacomo Bruno

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