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Al Maxxi di Roma la mostra sulle torture nelle carceri siriane

Immagine di copertina

Tra il 2011 e il 2013, un ex colonnello di medicina legale di Damasco realizzò diverse foto in due ospedali siriani per documentare le torture nelle carceri governative

La tortura nelle carceri governative siriane è un crimine commesso da decenni, più volte denunciato e in parte documentato. Le foto “Caesar” offrono adesso un sostegno documentario senza precedenti. E indicano quanto una pratica già diffusa nel passato sia stata applicata negli ultimi cinque anni su scala assai maggiore.

Appena sei giorni fa si è appreso che Jihad Qassab, 41 anni, di Homs, ex difensore della nazionale di calcio siriana e del club Karama, è morto sotto tortura nella prigione di Saydnaya, vicino Damasco. La notizia è stata confermata dai familiari.

Qassab è un altro delle decine di migliaia di Giulio Regeni siriani morti sotto tortura in Siria. Secondo il rapporto di Amnesty International dell’agosto scorso, sono 17.723 le persone uccise sotto tortura nelle carceri governative siriane dal marzo 2011 al dicembre 2015. Dal 2011 a oggi sono stati inoltre documentati in maniera certa 64.990 casi di siriani arrestati per ragioni politiche (Vdc). Si tratta di cifre al ribasso per la difficoltà di documentare tutti gli altri casi.

Il governo siriano e lo stesso presidente Bashar al-Assad hanno più volte smentito il ricorso alla tortura nelle carceri del regime, affermando che si tratta di denunce sollevate a fini politici e che non vi sono prove sufficienti. Nel dicembre 2011 Asad ha in parte ammesso le violazioni ma ha accusato forze governative fuori dal suo controllo (Intervista ad Abc News).

Già nel 2008 Asad aveva promulgato il decreto n.69, che emendava il codice penale e che, ancora in vigore, assicura l’immunità ai membri delle forze di repressione durante lo svolgimento del loro lavoro.

La struttura repressiva siriana è divisa in quattro principali agenzie, due dipendenti formalmente dal ministero degli Interni e due da quello della difesa. Anche note come Mukhabarat (servizi di intelligence), queste agenzie sono suddivise in dipartimenti.

Ciascun dipartimento ha i suoi centri di detenzione e di tortura. Spesso identificati con numeri o con le località dove si trovano le loro sedi. Come testimoniato dalle foto “Caesar”, nel contesto della repressione delle proteste popolari del 2011, la macchina degli arresti indiscriminati e della tortura in Siria aumenta in maniera esponenziale l’intensità e l’ampiezza del suo lavoro.

Si aprono nuove prigioni, si ampliano centri di detenzione già esistenti, si convertono strutture civili in militari, si aprono nuovi cimiteri e inceneritori per cremare i corpi. Una vera e propria industria della tortura. 

— 

La mostra Nome in codice: Caesar. Detenuti siriani vittime di tortura si tiene da mercoledì 5 ottobre 2016 a domenica 9 ottobre 2016 al Maxxi di Roma e “documenta i crimini contro l’umanità commessi nelle carceri siriane”.

…. 

Caesar in pillole 

– “Caesar” è lo pseudonimo di un ex colonnello del Dipartimento di medicina legale di Damasco autore di alcune delle 53.275 fotografie realizzate dal maggio 2011 all’estate 2013. Ceasar ha realizzato le foto con il suo telefono cellulare in due ospedali militari della capitale siriana dal maggio al settembre 2011. Da settembre 2011 al luglio 2013 ha continuato a raccogliere foto scattate da suoi colleghi.

– Prima del 2011 Caesar lavorava come fotografo in scene di crimini collegati a personale dell’esercito. Con lo scoppio delle inedite proteste popolari in Siria nella primavera del 2011 e con l’avvio della conseguente repressione poliziesca e militare governativa, Caesar viene incaricato di documentare con le foto i corpi senza vita di persone morte in alcune prigioni del regime e nei due ospedali militari di Damasco: l’ospedale “601” di Mezze e l’ospedale Tishrin.

– Nel settembre 2011 smette di fotografare ma altri suoi colleghi continuano l’opera. Assieme a un suo collega, un tecnico informatico identificato con lo pseudonimo di “Sami”, comincia a salvare di nascosto le fotografie su numerosi CD. Ciascuna foto ha una risoluzione (1.2 MB) sufficiente per i medici legali di analizzare le condizioni del corpo, prima e dopo il decesso.

– Nell’agosto del 2013 Caesar diserta dall’esercito e lascia di nascosto la Siria portando con sé il materiale fotografico.

– Nel gennaio 2014 i media internazionali pubblicano le prime foto di Caesar. In seguito vengono pubblicate altre immagini. Le principali organizzazioni umanitarie internazionali riconoscono la legittimità delle foto di Caesar e conducono indagini a partire da questa inedita banca dati.

– Oltre ai corpi, le foto mostrano documenti di accompagnamento delle salme, ordini impartiti dalle forze di sicurezza di stilare certificati di morte falsi e di cremare i corpi, indicazioni di cancellare dall’anagrafe i dati riguardanti le vittime. 

…. 

Le foto mostrano chiari segni di tortura come mutilazioni genitali, dita troncate, bruciature, fori con oggetti appuntiti tra cui trapani, rimozione dei globi oculari, percosse, strangolamento, tracce di uso di corde e cavi, abrasioni dovute al contatto con acidi. Molti corpi mostrano anche segni di prolungata malnutrizione, una delle più ricorrenti pratiche di tortura.

Il regime ha bisogno di fotografare i corpi per documentare l’intero processo di detenzione e uccisione dei prigionieri. Per evitare, come avvenuto di frequente in passato, che un detenuto possa essere liberato da membri delle forze di sicurezza in cambio di somme di danaro.

La burocrazia post-tortura prevede che le foto scattate da Caesar e dai suoi colleghi – circa nove immagini per corpo – siano allegate al rapporto stilato dall’ufficiale responsabile della detenzione del prigioniero e inviate alla Corte militare di riferimento. Questo tribunale provvede quindi a rilasciare un certificato di morte falso, controfirmato dai responsabili dell’ospedale militare, in cui si afferma che il detenuto è morto per “arresto cardiaco” o “insufficienza respiratoria”.

Le famiglie sono informate da un responsabile dell’ospedale o dei servizi di sicurezza dell’avvenuta morte del loro parente. Ma questo non avviene sempre. E spesso non ricevono né gli effetti personali del defunto né, soprattutto, il suo corpo. Nel timore di subire arresti o di perdere il proprio lavoro, i familiari delle vittime in molti casi non osano nemmeno chiedere di poter avere indietro il corpo del loro caro.

Le storie dietro a un volto sfigurato. Human Rights Watch e la Rete siriana per i diritti umani hanno condotto inchieste sulla base delle foto di Caesar: identificando centinaia di uccisi, informando le famiglie, raccogliendo testimonianze di sopravvissuti e di personale addetto ai centri di tortura. Sono stati identificati anche alcuni torturatori ed è stata ricostruita la catena di comando dell’ospedale “601” e in quello Tishrin. Sono state ricostruite le vicende di alcune vittime: insegnanti, attivisti non violenti, studenti universitari, liberi professionisti.

Tra loro c’è anche una giovane donna, Rana Bahlawi, studentessa di ingegneria e arrestata nel gennaio 2013 per il suo impegno civile. Era nata vicino a Dayr az Zawr, che proprio dal 2013 è diventata una delle roccaforti del sedicente Stato islamico. 

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