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Goodbye Utopia: viaggio nel degrado delle case popolari di Londra

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Il fotografo italiano Marco Sconocchia ha realizzato per TPI un reportage dai complessi residenziali inizialmente costruiti per i cittadini britannici meno abbienti

“Quand’ero ragazzino io, la situazione era diversa”, racconta Tom, “eravamo una famiglia, i ragazzini giocavano senza problemi e ci conoscevamo tutti. Ora arrivano questi qui”, dice indicando un bambino arabo, “si fermano un anno o due e, poi, avanti gli altri; noi siamo qua da quando siamo nati, a parte qualche gita al sole”.

Poi aggiunge, ridendo, “Loro non lavorano e lo Stato gli dà tutto, mentre noi dobbiamo faticarci ogni giornata”. “Tom, tu cosa fai per vivere?” gli chiedo. “Io faccio il lottatore. Hai presente quelli nella gabbia?” risponde. “Sì, visto alla televisione qualche volta” dico. L’uomo chiede il cellulare al suo amico esclamando: “Steven, passami questo cazzo di cellulare, ché gli devo far vedere il video dell’ultimo incontro”.

È eccitato e guardando lo schermo mima i colpi inferti al suo avversario, che non sembra passarsela molto bene. Per un momento mi sembra di essere nel film Bronson, dove il protagonista, appena uscito di prigione, si dà ai combattimenti clandestini. Sarà l’effetto della terza pinta, ma glielo faccio presente. Ride, lui: “Anch’io sono stato in prigione, sai? Sette anni. Ho avuto anch’io il mio posto al sole, ma ora sono tornato da mia madre. Anche voi in Italia avete delle shithole come queste?” mi domanda, alludendo alle case popolari.”Tom, da dove vengo io si dice che tutto il mondo è paese. All the word is town“. Non capisce la mia risposta e neanch’io capisco perché gli ho detto questa stronzata.

Thamesmead è un quartiere residenziale costruito nel 1960 dall’architetto Robert Riggs. Negli anni Sessanta, i council estates (i complessi di case popolari) vivevano la loro età dell’oro. Il complesso di Thamesmead, futuristica e ambiziosa costruzione sulle rive del Tamigi, era stato costruito per spostare migliaia famiglie del ceto medio-basso dal centro della città alla periferia, nell’area della vecchia base militare. Oggi, nel quartiere a sud est di Londra, abitano circa 60mila persone. Al momento della sua ideazione, in concomitanza con i lavori di costruzione, gli ingegneri avevano pensato di allungare la metro fino a lì, per rendere più semplici i collegamenti, ma la mancanza di fondi ha bloccato il progetto, e quei 16 chilometri che separano l’area dal centro sono diventati rappresentativi della distanza tra le aree più cool e una periferia arretrata.

“Sei venuto per vedere la feccia, eh? A chi può interessare la vita in queste shithole?”. E sono due. A me. Scruto l’uomo che si sta avvicinando, accompagnato da un cane che pare avere cent’anni. La sua faccia consumata, alla Bukowski, m’ispira simpatia. Richard, si chiama. Gli spiego che lavoro per un giornale italiano (non è vero, ma fa niente) e sono qui per un reportage sulle case popolari di Londra.

Dopo i primi minuti di diffidenza, lui e gli altri del posto sembrano ben disposti a parlare. Richard è un pittore psichedelico, oserei dire simile al Carmelo interpretato da Nino Manfredi nel film Trastevere, solo con molte più birre in corpo. Dallo schermo del cellulare, mi mostra i suoi quadri popolati da diavoli, satanassi avvinghiati e, perlopiù, giovani donne color latte, dicendo: “L’arte è una cosa personale che piace ad almeno una persona oltre a te stesso”.

Indicando il suo bastardino, aggiunge “Fai una foto a me e al mio cane, Chuck; è molto vecchio, non so quanti giorni passeremo ancora insieme. Lo sai che in questo comprensorio hanno girato A Clockwork Orange? Io ero qui quando hanno fatto le riprese, erano gli anni Ottanta”. In realtà, a voler essere precisi era il 1971, l’anno in cui i Led Zeppelin uscivano con Led Zeppelin IV e dominavano le classifiche con oltre 15 milioni di album venduti, Mina spopolava in Italia, Richard guardava le riprese di A Clockwork Orange (da noi conosciuto come Arancia Meccanica), Chuck non era nato e l’allora segretario di Stato per l’Educazione, Margaret Thatcher, riceveva il nomignolo di “scippatrice di latte”, ovvero milk snatcher.

L’era del thatcherismo era appena iniziata, e la Lady di Ferro aveva inaugurato la sua politica di austerity, avviando una serie di tagli, fra cui l’impopolare decisione di fermare le forniture gratuite di latte a scuole e ospedali. Dopo otto anni sarebbe arrivata una delle decisioni più importanti del suo governo: la privatizzazione delle case popolari.

Con l’Housing Act del 1980, chi poteva aveva il diritto di comprare la propria casa, inizialmente in comodato d’uso, a un prezzo inferiore di un terzo rispetto quello di mercato, una misura che mirava a creare un sistema egalitario che, nei fatti, si è rivelato prettamente retorico e poco sostenibile. Le madri di famiglia, le persone che vivevano sole, gli anziani e, in definitiva, i perdenti, gli sfavoriti dal sistema economico furono inevitabilmente tagliati fuori dal gioco.

Le case più confortevoli furono comprate dai privati, mentre ai meno abbienti rimasero i palazzi-dormitorio. Nel 1977, mentre in Italia Edoardo Bennato si piazzava con Burattino Senza Fili al numero uno dei dischi più venduti e gli Abba monopolizzavano le classifiche inglesi, un terzo della popolazione britannica viveva negli appartamenti popolari, i council flats. Nello stesso anno, per dare un’abitazione a 10mila persone, fu concepito l’Aylesbury Estate, un enorme complesso residenziale, oggi comunemente indicato come esempio di decadenza urbana.

A vederlo, il colpo d’occhio è impressionante: un labirinto di torrette, corridoi, ballatoi, spazzatura per terra, palloni bucati. Inoltre, inizio a capire, dopo un paio di estate visitati, che queste abitazioni non sono quasi mai vicine a una stazione della metro, e Aylesbury non fa eccezione. Nella mente balena l’idea di come sarebbe stato Arancia Meccanica se fosse stato girato in questo luogo. In questo complesso, la percentuale d’immigrati è molto alta: solo il 35 per cento degli inquilini è di razza caucasica, e non per forza inglesi, il 50 per cento è rappresentato da afrocaraibici e il restante 15 per cento dagli arabi.

Mentre leggo su internet che, dopo il documentario della BBC del 2011, l’associazione dei residenti ha dichiarato che negherà a chiunque il permesso di filmare o fotografare gli interni, i miei vicini di casa – un grosso e cazzuto caraibico ed una vecchietta inglese accompagnata da un cane obeso di nome Bobby – litigano per il casino provocato della musica alta e per l’odore di pollo fritto proveniente dal party del mio vicino.

Questa a scena idilliaca mi porta a pensare che la Londra multiculturale convive, ma non va propriamente d’accordo. Ben vive nell’Aylesbury Estate dal 2008, da quando è espatriato dagli Stati Uniti, dopo l’11 settembre 2001. È tornato a Londra senza un soldo né un amico al quale chiedere un divano per dormire. Dopo aver alloggiato in un ostello comunale, gli è stata proposta una stanza nell’estate per 200 pound al mese, prezzo molto inferiore ad un appartamento privato e senza dover corrispondere la caparra.

Ha 45 anni, Ben, è nigeriano con cittadinanza britannica, studia architettura grazie ad una borsa di studio e condivide la casa con altre sette persone. Mentre ci dirigiamo verso la cucina, ci tiene a precisare che, da architetto, apprezza molto il “carattere” dell’appartamento. Ascolto molto interessato le sue parole e penso al carattere della mia ragazza che minaccia un omicidio, il mio, al primo calzino fuori dal cassetto. La cucina è una discarica: pezzi di muro e pareti scrostate, una coltre di polvere e calcinacci, cibo decomposto, finestre offuscate da schizzi di unto, piume (!!!) e sporcizia non meglio identificata.

“Sì, c’è del carattere”, penso. Passiamo alla sua camera, mentre mi racconta di essere in procinto di sposarsi. “Vuoi una birra?” chiede. “È mezzogiorno”, penso, ma rispondo “ok”. “Nastro Azzurro, birra italiana” aggiunge, passandomi la lattina. La stanza dove alloggia è un loculo straripante di oggetti, tra i quali identifico fogli, stampe, scarpe, cibo dimenticato, vestiti accatastati in ogni angolo. Lo spazio calpestabile è pressoché nullo. Il “carattere” del luogo è sempre più pronunciato, guardando il caos intorno mi sento in pace con me stesso, pensando che l’espiazione dei miei “peccati” di fidanzato poco ordinato è ormai completa.

“Hai mai pensato di cambiare casa?” chiedo. “Sono uno studente, non ho la possibilità di pagare un affitto in una casa privata. Così sono vicino al centro e non devo pagare i trasporti. Quando ero in ostello, non avendo i soldi per pagare il bus, dovevo camminare circa tre miglia all’andata e altrettante al ritorno; qui sono a cinque minuti dall’università. In più, abitando in un council estate, ho un contratto di cinque anni, mentre in case private avrei un contratto annuale e nel caso non riuscissi a pagare l’affitto mi sfratterebbero, mentre qui la polizia cerca di entrare il meno possibile”.

“Quando ti sposi, Ben?” chiedo. “Devo mettere insieme i soldi per il corredo nuziale, comprare dieci lenzuola, quattro vestiti per mia moglie e due vestiti eleganti per me. Inoltre devo prendere un armadio per la nuova casa, una cassettiera e del tabacco da masticare per la festa. Tutto da spedire in Nigeria. Dalle miei parti siamo ancora molto legati alle tradizioni,” spiega. “In alternativa posso regalare otto mucche alla famiglia di mia moglie”, aggiunge lui. “Ben, ma hai idea di quanto ti costerebbe spedire otto mucche in Nigeria?” dico. Ridiamo per trenta secondi buoni, intanto mi rendo conto che è tempo di andare. “Ah, Ben, un’ultima cosa: mi daresti il contatto di quell’ostello in cui hai vissuto come abitazione temporanea?”.

Murene ha 84 anni, è nata nelle Barbados e vive in una stanza dell’ostello per senzatetto, lo stesso in cui Ben ha vissuto per qualche mese. Un terremoto ha distrutto la sua prima casa, nel sud dell’isola, così s’è trasferita a nord. Dopo quattro anni, un’eruzione vulcanica ha distrutto il paese in cui viveva e, poiché era rimasta senza nulla, un’associazione umanitaria le ha pagato il volo per raggiungere sua sorella che abitava a Londra.

Poco tempo dopo la sorella anziana è morta e, poiché la casa era un council flat, Murene s’è trovata senza un tetto a 78 anni. La sua nuova “casa” è una spoglia camera prefabbricata, in cui la cucina è condivisa con gli altri inquilini della struttura. La donna vorrebbe tornare nelle Barbados ma non ha soldi necessari per il viaggio, mentre a Londra percepisce un piccolo benefit dallo Stato, abbastanza per mangiare; in più, visto che sta diventando velocemente cieca, sarà presto spostata in un centro specializzato.

Ritorno a Thamesmead, dove, ormai, sono una star: il giornalista Italiano! Le barriere sono crollate, al Dashwood Social Club tutti mi offrono da bere e nessuno sembra più indispettito dalla macchina fotografica a tracolla. Faccio amicizia con la famiglia Harris. Quello che in Italia chiameremmo il capofamiglia, Richard, ha 28 anni e tre figli. La moglie Jessica è molto giovane, ha partorito la prima volta a 16 anni ed è quella che a Thamesmead chiamerebbero la capofamiglia, una che non perde mai di vista il marito e gli lancia sguardi sempre più feroci ad ogni pinta ordinata.

Alla terza pinta inizia il discorso sulla Brexit, il referendum per decidere sull’uscita dell’Inghilterra dall’Unione Europea. Nei discorsi percepisco, come in molte occasioni in passato, il non molto celato astio della classe operaia inglese nei confronti degli immigrati, soprattutto quando al discorso si uniscono altre quattro persone e tutti usano le stesse parole, come se recitassero una poesia imparata a scuola.

Se c’è una cosa che ho imparato, in questi anni di frequentazione di persone e di pub, è il non parlare mai di calcio, religione e politica con persone che non si conoscono e, soprattutto, mai mentre si sta bevendo, ma non riesco a trattenermi. Il problema è sempre lo stesso: lo straniero occupa spazio, prende i posti di lavoro, riceve i benefit dallo Stato, fa figli solo per avere il sussidio. Penso alle parole di Ben che mi diceva che in Aylesbury Estate il 70 per cento degli inglesi riceve un benefit, mentre il 90 per cento degli immigrati lavora.

Qui, a poche miglia di distanza, le statistiche sembrano invertirsi, ma non è la distanza fisica fra i due estate a cambiare la realtà. Se Ben e Richard fossero vicini di casa, esprimerebbero le stesse posizioni contrastanti. La realtà è dentro la loro testa, nel loro background sociale, simile ma molto diverso, nonostante le storie comuni con famiglie numerose, case popolari e ristrettezza economica, nonostante siano cittadini britannici entrambi, quei due avranno sempre posizioni inconciliabilmente opposte.

I council estate sono come città a sé stanti, e sono lo specchio del multiculturalismo estremo; a differenza dell’Italia, dove percepisco una certa omogeneità fra le persone che vivono nei grandi centri popolari, a Londra, le diverse tipologie di persone si respingono e, fondamentalmente, si odiano. Thamesmead è un luogo strano che, però, mi ha affascinato. È una città nella città, non pretende di essere figa, è felice di mettere in mostra la sua cafonaggine, dei suoi problemi di criminalità, delle persone che non arrivano a fine mese, dell’abitudine all’alcolismo fin da giovani, del fatalismo molto in voga, come in Italia. È un posto malfamato, ma con delle regole, e la gente, tutto sommato, non vorrebbe vivere altrove.

Richard mi chiede quanto pago di affitto. “760 pound al mese per una camera”, rispondo. Ride e chiama Jessica: “Sai quanto paga? 760 pound!”, e via a ridere, come se avessero vinto alla lotteria. A questo punto chiedo: “Quanto pagate voi?” sbotto. “170 per due camere e cucina”, mi dicono. “Beh, alla fine non ci va così bene a noi immigrati”, penso.

Tornando a casa, passo da Linzey, un mio amico giamaicano che vive, da sempre, in un council flat in concessione nella zona di Notting Hill, che da ghetto infrequentabile è diventata una delle zone più ricche di Londra. Tuttavia, con l’arricchimento e la gentrificazione della zona, ci sono diversi tentativi di spostare la storica comunità giamaicana altrove. La storia si ripete. Linzey è un musicista alcolizzato, non credo abbia mai lavorato in vita sua, e potendo dormirebbe dietro al bancone del pub locale; però, è un grande fumatore di marijuana e amante delle donne. “La vita è bella”, mi dice, raccontandomi degli amici, della musica, della passione per il whiskey e della comunità. “La vita è bella, Linzey. Forse, tu hai veramente trovato Utopia. Non sarà Milano 2, ma ci si accontenta”, mi dico camminando.

*Marco Sconocchia, autore del testo e delle foto di questo articolo, è nato a Torino nel 1988 e ha studiato fotografia all’istituto Franco Balbis di Torino. Dopo aver lavorato in vari studi fotografici si è appassionato a reportage e storie di comunità. Vive a Londra dal 2012, è freelance e fondatore di f/27, un collettivo di fotografi e giornalisti.

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