Come vivono i profughi in Grecia dopo la chiusura dei confini
Carlotta Ludovica Passerini ha raccontato per TPI com'è la vita nei campi governativi per i profughi rimasti bloccati in Grecia
Oltre 50mila profughi sono bloccati in Grecia a causa della chiusura dei confini. Vivono in campi militari gestiti dal governo greco in collaborazione con Unhcr, l’Alto commissariato delle Nazioni Unite per i rifugiati, oppure negli squat, i palazzi occupati da giovani anarchici e volontari indipendenti.
I campi sono supervisionati dalla forza pubblica, insieme agli operatori di Unhcr e altre Ong, e non vi si può accedere senza l’autorizzazione del ministero.
Il campo di Vasilika, nella zona est di Salonicco, rappresenta un’eccezione fra le strutture di accoglienza in Grecia. Lì vengono implementati programmi pilota che, se funzionano, sono poi replicati negli altri campi governativi sul territorio.
Vasilika sorge su un’ex area industriale. Un vecchio magazzino costituito da sette hangar ospita 307 tende in cui sono accampati circa 1.250 profughi, prevalentemente siriani. Nessuno di loro vuole far domanda di asilo politico in Grecia, tutti aspettano la riapertura dei confini per poter proseguire il viaggio.
La maggior parte viene da Idomeni ed è stata trasferita nei pressi di Salonicco dopo la chiusura del campo. Sono a Vasilika dal giugno 2016, quando il campo è stato aperto, ma vivono in Grecia ormai da molti mesi.
All’esterno del campo ci sono un parco giochi per i bambini, piccole costruzioni in legno e container usati come uffici dalle associazioni che operano nel campo o come spazi dove svolgere attività.
Una tenda vicino ai bagni ospita una piccola nursery, dove le mamme possono cambiare i neonati in condizioni igieniche migliori rispetto a quelle del resto del campo.
Questo spazio è gestito dall’associazione italiana MAM Beyond Borders, che coordina vari progetti in Europa. La nursery, il “baby hammam”, permette alle mamme di entrare in una sorta di oasi di pace, dove ricevono pannolini, vestitini e prodotti per l’igiene personale dei neonati.
Entrando negli ex capannoni si vedono file di tende verdi e bianche fornite da Unhcr che ospitano famiglie di grandi dimensioni in spazi molto ridotti.
A Vasilika è stato aperto anche un piccolo laboratorio di falegnameria nel quale un signore che in Siria lavorava il legno insegna agli altri uomini del campo a fabbricare oggetti. Molti padri costruiscono altalene di legno per i propri figli.
All’esterno del campo vi sono anche due strutture in legno costruite da alcuni ragazzi curdi iracheni. Una è aperta, e vi è uno stereo da cui diffondono musica nel campo. L’altra è chiusa, all’interno si sono divani e graffiti, una sorta di spazio culturale e sociale.
Di fronte a queste alcuni ragazzi siedono attorno a un piccolo fuoco, per scaldarsi e per ricreare quell’atmosfera comunitaria che vogliono conservare anche nel campo.
Uno dei costruttori delle casette è un ex peshmerga che ha combattuto in Iraq insieme ai soldati americani contro il sedicente Stato islamico. Spiega che ha dovuto uccidere molte persone, ma che quella non era la sua vita. Traumatizzato dalla guerra, adesso è sottoposto a una terapia con calmanti.
Nel campo sono presenti alcune attività commerciali, aperte grazie al microcredito. Vi sono banchetti che vendono cibo e tabacchi, piccoli baracchini in cui cuochi improvvisati preparano shawarma, falafel, té e caffé.
A Vasilika svolge un ruolo importante l’associazione svizzera Firdaus che si occupa di assicurare prima assistenza ai profughi fornendo beni di prima necessità, come cibo e vestiti. Durante l’estate, quando il caldo è diventato torrido, i volontari di Firdaus hanno messo a disposizione un ventilatore per ogni tenda, ma hanno distribuito anche bollitori per preparare té e caffé e per sterilizzare i biberon dei più piccoli.
Le condizioni di vita del campo sono difficili. Quando piove gli spazi esterni si allagano e si formano grandi pozze. I profughi possiedono pochi vestiti, a volte solo un cambio di abito e non hanno dove lavarli e farli asciugare.
D’inverno le temperature sono molto rigide, ma non c’è riscaldamento. La polvere è ovunque. I profughi si occupano di tenere pulite le proprie tende, ma gli spazi comuni non sono altrettanto curati e fra le tende non mancano topi, insetti e serpenti.
Diversi bambini soffrono di asma a causa delle condizioni più che precarie e molti non ricevono cure adeguate. L’ospedale, infatti, non è facilmente raggiungibile e il viaggio in taxi ha un costo troppo elevato per chi ha pochi euro in tasca.
Alcuni dei profughi soffrono di diabete. Altri si portano dietro i traumi della guerra, che siano cicatrici sulla pelle o disturbi psico-emotivi, come la depressione. Tanti soffrono di ansia.
Al di fuori del campo di Vasilika sorge Eko Camp, uno spazio gestito da volontari indipendenti catalani che organizzano attività ludiche per i bambini: ci sono un campo di pallavolo, tappeti elastici e locali dove vengono svolte attività manuali per i più piccoli.
I ragazzi spagnoli, inoltre, hanno costruito una scuola dove tengono lezioni di lingua anche per adulti. Ma da quando è stata aperta la scuola all’interno del campo le classi di Eko sono meno frequentate.
Inoltre, il governo greco ha avviato un programma che permette ai bambini profughi di frequentare le scuole nazionali, volto a reinserirli nell’ambiente scolastico.
Quando si entra in contatto con i profughi bloccati in Grecia, si legge sul loro viso la paura di non riuscire a portare a termine il viaggio cominciato ormai da molti mesi.
La maggior parte di loro sembra rassegnata. Molti dicono che non sarebbero partiti se avessero saputo di dover vivere in queste condizioni. Sono partiti per cercare un futuro migliore per i loro figli, ma non li avrebbero mai voluti sottoporre a una vita simile.
“Non ce l’abbiamo con la gente, ce l’abbiamo con l’Europa, con la politica”, spiega un ragazzo curdo, quando gli chiedo di una scritta contro i politici europei. “Prima fanno passare tutti, ora chiudono i confini”, prosegue. “Noi valiamo meno degli altri? Siamo diversi?”.
“Tornerei in Siria, se potessi”, interviene un signore. “Io qui non ho niente”.