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I bambini di Qayyara che vivono tra i pozzi di petrolio incendiati dall’Isis

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Il reportage di Francesca Mannocchi per TPI da Qayyara, in Iraq, dove i miliziani dell’Isis, per rallentare l’avanzata delle forze irachene, hanno bruciato 12 giacimenti

Qayyara, Iraq – Un gruppo di bambini gioca a pallone, alcuni di loro sono seduti su lunghi tubi, ridono e lanciano bulloni facendo a gara a chi tira più lontano. Sembrerebbe una scena di ritrovata vita quotidiana nella città che l’esercito iracheno ha riconquistato tre mesi fa. Invece i bambini hanno le mani e i piedi neri, i volti sporchi di fuliggine. Stanno respirando fumo e zolfo. Perché giocano a pallone ma di fronte ai pozzi di petrolio dati alle fiamme dall’Isis tre mesi fa. Pozzi che stanno bruciando ancora.

S&D

All’inizio dell’estate i miliziani dell’Isis, nel tentativo di rallentare l’avanzata dell’esercito iracheno hanno bruciato i pozzi della città (almeno una dozzina secondo le Nazioni Unite) e tra settembre e ottobre hanno lanciato almeno tre attacchi chimici, dando fuoco allo stabilimento chimico Mishraq a sud di Mosul. Hanno lasciato dietro di loro due anni di terrore e violenza e l’eredità di un disastro ambientale che sta provocando danni alla salute di tutta la popolazione.

Zyad è un addetto allo spegnimento dei pozzi: “Oggi a Qayyara manca tutto – dice- nella clinica della città mancano persine le bombole di ossigeno per curare chi ha difficoltà respiratorie. L’aria è completamente contaminata. Arrivano anziani e bambini con lenzuola bagnate in faccia che non riescono a respirare e non abbiamo neppure medicine a sufficienza. Non solo, la gente continua a mangiare verdura coltivata in questa zona, nei pochi orti che hanno resistito al fuoco, al fumo, allo zolfo, chi non si ammala oggi, si ammalerà nei prossimi mesi”.

In un rapporto pubblicato l’undici novembre scorso, Human Right Watch (Hrw) riferisce di bruciature riscontrate in almeno sette persone compatibili con l’esposizione a bassi livelli di un agente chimico “vescicante”. Lama Fakih, vicedirettore Hrw per il Medio oriente, ha detto che “gli attacchi dell’Isis con agenti tossici dimostrano il brutale disprezzo per la vita umana e le norme belliche. Durante la fuga, i combattenti Isis hanno attaccato e messo a rischio la vita dei civili rimasti indietro”.

I due anni di terrore sono negli occhi dei più piccoli, nella lentezza – vuota – delle loro giornate trascorse a guardare le fiamme alte metri di fronte alle loro case. Makhmoud lavorava per l’esercito iracheno prima del 2014, ha circa 30 anni, passeggia davanti alle fiamme scuotendo la testa, chiama intorno a sé i bambini: “Quant’è che non andate a scuola?”. “Due anni” dicono in coro i bambini.

“Due anni senza istruzione – spiega Makhmoud – questo è il danno più grave lasciato da quegli uomini. Più delle fiamme, che prima o poi spegneremo, più dei problemi respiratori, perché di qualcosa dobbiamo tutti morire. La mancanza di educazione è il danno più pericoloso. Qui vicino c’erano i campi di addestramento. Hanno fatto arrivare giovani dalla Siria, dalla Turchia. Volevano trascinare anche i nostri bambini nei campi di addestramento per insegnare loro a uccidere. Con qualcuno ci sono riusciti. Quei bambini sono perduti per sempre”.

Makhmoud nella mano sinistra ha una sigaretta, la fa ruotare con il dito indice e il medio, nervosamente, poi la mostra con fierezza. “Vedi, la prima volta che mi hanno sorpreso a fumare mi hanno fatto una multa di 300 mila dinari, mi hanno detto che era solo un avvertimento, che la volta successiva mi avrebbero tagliato la testa. Gli stessi che ci vietavano di fumare hanno bruciato la nostra principale ricchezza, il petrolio”.

Makhmoud ricorda le esecuzioni pubbliche, i funzionari degli uffici impiccati e lasciati appesi su un ponte per tre giorni, a monito per tutta la popolazione, le frustate nella piazza del mercato. Ricorda i negozi tassati e quelli costretti a chiudere. Ricorda tutti i suoi conoscenti che hanno sostenuto i miliziani “perché pensavano che avrebbero garantito loro una vita dignitosa, invece quella vita dignitosa non è arrivata mai e ora rischiamo di perdere una generazione se non poniamo rimedio al vuoto di conoscenza di questi ultimi due anni. Se non li liberiamo, con pazienza, delle informazioni corrotte e distorte che hanno ricevuto, sulla vita, sulla morte e sulla religione”.

Le scuole a Qayyara sono chiuse, le case cosparse di fumo. Che a guardarle da lontano sembra l’apocalisse. Sembra il Kuwait della Guerra del Golfo, sembra una piroetta della storia. Allora l’ex rais Saddam Hussein usò la stessa strategia prima di ritirarsi: dare alle fiamme i pozzi di petrolio per contrastare l’avanzata delle forze alleate. Era il 1991, i pozzi in fiamme furono più di 700, per spegnerli ci volle più di un anno.

Qayyara, città a prevalenza sunnita, ricchissima di pozzi oggi vive un destino analogo. E sotto il cielo annerito dal petrolio la distruzione appare più evidente. I due principali campi petroliferi della regione di Qayyarah, Qayyara e Najma, prima della conquista dello Stato islamico, nel 2014, producevano fino a 30 mila barili di petrolio al giorno e, secondo gli esperti, l’Isis avrebbe continuato a sfruttare il petrolio, spedendo fino a 50 camion cisterna al giorno in Siria.

“Finché hanno avuto la certezza di controllare questa città – conclude Makhmoud – hanno sfruttato tutto il nostro petrolio. Lo vendevano al mercato nero. Oggi siamo rimasti senza niente, senza casa, senza lavoro, senza neppure la ricchezza del paese”. Gli adolescenti sono riuniti intono a quello che resta di un’automobile, osservano orgogliosi un video sul cellulare di uno di loro. È il cadavere di un miliziano dell’Isis. Un uomo passa un coltello ad un ragazzo e gli ordina di decapitarlo. Il corpo è nudo viene legato ad una macchina, trascinato per le strade di Qayyara tra le urla festanti della gente.

E tra le urla festanti dei bambini. La liberazione di Mosul e dei villaggi circostanti rischia di diventare anche questo, una forma di brutalizzazione del nemico. Gli stessi bambini che a piedi scalzi giocano a pallone di fronte alle fiamme, cercando di ritrovare l’ingenuità negata, gli stessi bambini cui si vuole restituire la purezza dell’infanzia sono invitati dagli adulti a scagliarsi con ferocia sul corpo dei nemici. Sugli adulti questo si traduce in delazione e vendetta. La sconfitta dell’Isis a Mosul è già scritta, ma la resistenza sarà dura, lunga e sanguinosa. Intanto in Iraq, i vincitori – oggi alleati – preparano le guerre di domani. 

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