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La notte in cui Londra ha tradito l’Europa

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Il commento di Davide Lerner in seguito alla vittoria del fronte a favore dell'uscita del Regno Unito dall'Unione europea

La chiave migliore per interpretare lo storico voto inglese sull’uscita dall’Unione europea sta in un sondaggio fatto circolare da Yougov qualche giorno prima del voto. Rivelava come il 70 per cento degli elettori di Brexit fosse convinto che il paese avrebbe sofferto economicamente in seguito all’uscita dall’Ue.

E non poteva importargliene di meno. Gli elementi decisivi erano altri, quello un po’ romantico della sovranità popolare e quello dell’immigrazione.

Cameron e i pro remain hanno invece orientato la campagna nella direzione del dibattito sull’economia, dove era facile avere la meglio sventolando i vantaggi del mercato unico e dei trattati commerciali dell’Unione europea. Non era però quello il terreno di gioco su cui serviva vincere. 

Ciò non toglie che ora i danni all’economia potrebbero essere importanti. Nella giornata del voto TPI ha intervistato diversi impiegati della City finanziaria di Londra – tutti convinti sostenitori del remain a differenza dei muratori e degli spazzini che si aggiravano fra i grattacieli scintillanti dove hanno sede i loro uffici. 

“Sono mesi che le banche lavorano a piani d’emergenza per spostarsi sul continente, a Francoforte, Parigi, o persino Varsavia che è l’ipotesi per noi meno esaltante”, raccontavano, “viene da chiedersi se davvero il paese possa fare a meno di noi”. Già, perché servizi finanziari e correlati rappresentano il 12 per cento del Pil inglese, oltre che l’11 per cento delle entrate fiscali. È da tempo che il paese della rivoluzione industriale ha smesso di essere un hub del manifatturiero. 

Non è dunque bastato spaventare gli inglesi sull’economia, e non è bastato nemmeno l’omicidio politico di Jo Cox che inizialmente era sembrato sollevare le sorti dei remain. “L’assassinio della Cox rimane una macchia indelebile sul referendum”, dice Sarah, che insieme ad altre centinaia di persone aveva inscenato una veglia per lei il giorno prima del voto, “perché è stato il frutto naturale di un dibattito divenuto aggressivo e scorretto negli ultimi mesi”.

Mentre David Cameron la sparava grossa sostenendo che una Brexit avrebbe riportato la guerra in Europa – un punto di vista che aveva fatto breccia in occasione del referendum del 1975, quando la memoria dei grandi conflitti era ancora vivida – i pro leave si inventavano che la Turchia stesse per entrare nell’Unione Europea, scaricandoci milioni di rifugiati.

La bomba mediatica della similitudine con Hitler l’ha utilizzata però soltanto Boris Johnson – come lui anche la Ue vuole creare un super stato in Europa, ha detto – mentre Farage esibiva poster con le colonne di rifugiati siriani e la scritta “Breaking Point”. 

Proprio Johnson e Farage divengono ora i personaggi chiave del futuro politico inglese. Il primo, che ha da poco ceduto la posizione di sindaco di Londra al laburista di origini pakistane Sadiq Khan, ha vinto la scommessa di farsi uomo-immagine della campagna pro-leave per poi cavalcare l’onda della Brexit verso Downing street. È molto probabile che sarà lui il prossimo primo ministro inglese, anche se la sua enorme popolarità fra la gente non è tale all’interno del partito conservatore.

Quanto a Farage, duole ammetterlo ma il trionfo del leave nel referendum ne fa uno dei politici più di successo della storia inglese. È stato lui, facendo volare il suo Ukip, a mettere pressione sui conservatori di Cameron rafforzando i membri più euroscettici del partito. E costringendo il primo ministro a promettere, e infine attuare, il referendum che corona la sua battaglia politica di 25 anni per l’uscita del Regno Unito dall’Unione europea. Ha detto che si vedrebbe bene come ministro, in un eventuale governo Johnson. 

E dire che le elezioni del maggio 2015 avevano relegato Farage al ruolo di leader di un partito extraparlamentare, visto che l’uninominale gli aveva impedito di ottenere un seggio che fosse uno. E qui si arriva a un altro fattore chiave della vittoria dei Brexit al referendum sull’Unione: l’affluenza e la natura dell’astensione.

Non sono stati certo i pro leave a farsi scoraggiare dalle forti piogge e rimanere a casa nella giornata del voto, ma casomai i pro remain, meno determinati e rassicurati dai sondaggi ingannevoli che li davano in vantaggio. D’altronde era accaduto già nelle elezioni europee del maggio 2014 che gli antieuropeisti volassero relegando al campo avverso il fenomeno dell’astensione. 

Si conclude dunque così la decennale storia dell’euroscetticismo inglese, iniziata con il rifiuto del governo laburista di Attlee a prendere parte ai negoziati sulla Comunità del carbone e dell’acciaio nel 1950. Quando avrebbe ancora potuto plasmare le nascenti istituzioni europee in modo che garbassero all’Inghilterra, commentava al tempo un conservatore di nome Churchill. Il primo referendum aveva poi seguito a ruota l’ingresso britannico nella Comunità economica europea nel 1973, portando però a una conferma della membership nel 1975.

Altri momenti chiave sono stati il discorso di Fontainebleau della Thatcher nel 1984 – “I want my money back”, aveva scandito la Lady di ferro per poi ottenere uno sconto di un terzo nei contributi inglesi al budget europeo. Poi il rifiuto di entrare a far parte dell’euro e dello spazio Schengen.

Adesso resta da vedere in che modo si trasformeranno i rapporti con l’Ue: secondo Tony Travers, professore alla London School of Economics, potrebbero divenire così stretti da rendere puramente formale la presa di distanza inglese da Bruxelles. Oppure no. Staremo a vedere. 

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