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Non c’è fretta di salvare la diga di Mosul

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I funzionari americani avvertono che il crollo della diga più pericolosa al mondo è inevitabile senza riparazioni urgenti, ma i lavori procedono lentamente

Il 19 maggio 2016 è stata una buona giornata per Mohsen Hassan, vice direttore della diga di Mosul, in Iraq. Il sole splendeva, il livello dell’acqua nel bacino artificiale era sceso a 310 metri e gli operai stavano riparando il cancello di sinistra della diga, che ha smesso di funzionare nel 2013.

Anche la situazione relativa alla sicurezza si era stabilizzata, dato che l’Isis – che in precedenza aveva occupato la diga – è stato respinto a 21 chilometri di distanza.

Contro tutti i pronostici, non c’era segno che la diga si stesse rompendo. “La diga non è in pericolo e non crollerà. Non c’è bisogno di preoccuparsi”, disse guardando attraverso le finestre del suo ufficio ad angolo nell’edificio governativo.

Qualche metro più in là, il fiume Tigri si riversa lentamente attraverso la diga lunga 3,2 chilometri che trattiene 11 chilometri cubici d’acqua. La diga si trova 42 chilometri a nord di Mosul e funge da impianto di produzione di energia per l’area circostante. È la più grande diga d’Iraq e la quarta del Medio Oriente.

Ma secondo il genio militare degli Stati Uniti, che ha cominciato a monitorare la diga di Mosul dopo l’invasione del 2013, è una delle dighe più pericolose al mondo a causa della sua lunga storia di problemi strutturali.

Se crollasse metterebbe in pericolo milioni di persone e alcuni eventi hanno contribuito a rendere questo scenario una possibilità concreta.

I guai della diga sono cominciati alla sua nascita

Già prima della guerra contro il sedicente Stato islamico, la diga di Mosul era nei guai. Durante l’occupazione degli Stati Uniti, la coalizione finanziò un progetto di riparazione da 24 milioni di euro specificatamente per la diga.

Nel 2007, l’Ispettore speciale generale per la ricostruzione dell’Iraq (Sigir) – un organismo di controllo istituito dal congresso americano – riferiva che “quasi 20 milioni di equipaggiamento e materiali” per il progetto non erano mai stati consegnati e che gli appaltatori non si erano adeguati agli standard di sicurezza. “Il progetto mostra segni di frode”, concludeva il rapporto del Sigir del 2013.

Il consorzio italo-tedesco Gimod costruì la diga di Mosul tra il 1981 e il 1986 grazie a un contratto da 1,3 miliardi di euro siglato da Saddam Hussein. Hassan ha cominciato a lavorare alla diga nel 1983.

Hassan insisteva che era tutto sotto controllo e che i media avevano ingigantito i problemi della diga. Disse che i lavori di manutenzione si erano temporaneamente interrotti nell’agosto del 2014 – quando l’Isis aveva preso il controllo della diga per 12 giorni – ma gli ingegneri erano tornati ai loro posti e tutto era tornato normale dopo che i jihadisti erano stati allontanati.

Lodava Trevi, la società italiana che ha vinto un contratto da quasi 265 milioni di euro per riparare la diga. Nessun’altra società ha partecipato alla gara d’appalto. I genieri americani hanno vinto un secondo contratto per supervisionare il lavoro, supervisionare quindi cosa sta facendo Trevi, pur essendo stati proprio loro a spingere perché la società ottenesse il contratto.

“Non conosco i dettagli del contratto, non l’ho letto, ma so che Trevi farà quello che già facciamo noi”, disse Hassan. Gli italiani “porteranno nuovi macchinari e attrezzature. Sono molto bravi, i migliori nel campo”.

Il compito principale della società sarà iniettare cemento nelle fondamenta della diga per prevenire la formazione di cavità che potrebbero comprometterne la stabilità. Niente cavità, niente problemi. Ma in realtà potrebbe non essere abbastanza per salvare la diga di Mosul.

Se la diga cedesse, persino Baghdad sarebbe sommersa

A circa 5.600 chilometri di distanza, Nadhir al-Ansari, un esperto di meccanica del terreno e professore presso l’Università della Tecnologia di Lulea, in Svezia, era indaffarato a formulare una proposta ufficiale da sottoporre al governo iracheno. Aveva recentemente organizzato un workshop con una dozzina dei migliori ingegneri civili del mondo per discutere della situazione della diga di Mosul e trovare una soluzione.

Sin da gennaio, al-Ansari ripete che la diga minaccia aree popolate ed è necessario puntellare la struttura della diga. “L’intervento di Trevi non è a lungo termine, la diga è seriamente in pericolo e sono in gioco le vite di milioni di persone”, sostiene al-Ansari.

Secondo lo studio più recente dell’Unione Europea, il collasso della diga di Mosul colpirebbe almeno sei milioni di persone. Fino a un milione e mezzo di loro potrebbero restare uccise. Le più importanti città irachene finirebbero sott’acqua nel giro di ore. Mosul sarebbe colpita da onde di 10 metri. Persino Baghdad, distante 300 chilometri, sarebbe sommersa.

Al-Ansari accusa il governo iracheno di aver minimizzato l’allarme, costringendo gli ingegneri a mentire sul vero stato della diga, e ha criticato gli italiani per non aver risposto all’emergenza in maniera tempestiva. “Cominceranno i lavori in settembre, quando l’acqua sarà bassa e l’intervento costerà meno”.

I funzionari americani sono sempre più in ansia. All’inizio dell’anno, il presidente Barack Obama ha ricevuto una nota che descriveva la rottura della diga come una minaccia più grande persino dell’Isis. E a peggiorare le cose, le condizioni della diga si sono deteriorate ulteriormente, in gran parte a causa della mancanza di ingegneri competenti.

I problemi più recenti sono cominciati il 7 agosto 2014, quando l’Isis ha messo in fuga le forze curde e irachene e ha preso il controllo della diga. La maggior parte dei 360 ingegneri e quasi tremila persone, inclusi gli operai della diga e le loro famiglie, sono fuggite. I lavori di consolidamento si sono quindi interrotti.

Ma la diga ha bisogno di manutenzione costante, sin da quando ha cominciato a funzionare nel 1986. Anche un’interruzione delle operazioni di soli dieci giorni può compromettere le fondamenta e aprire delle cavità sul lato a valle, verso il bacino e la sua enorme riserva d’acqua.

Le cavità sono sempre una cattiva notizia nel mondo dell’ingegneria delle dighe. La diga di Mosul è particolarmente vulnerabile a questo fenomeno a causa dell’alta concentrazione di gesso solubile nel terreno su cui poggiano le fondamenta. Quando l’acqua si infiltra nel gesso, il terreno si scioglie e si formano dei vuoti che possono infine portare al collasso totale.

I lavori di consolidamento sono incostanti

Meno di una settimana dopo l’attacco del sedicente Stato islamico e mentre la situazione diventava sempre più critica, i peshmerga – la forza militare della vicina Regione autonoma del Kurdistan – si sono assunti il compito di riconquistare la diga. Mentre l’esercito iracheno non era nemmeno all’orizzonte, i curdi hanno lanciato un’offensiva durata due giorni.

È stata una battaglia molto feroce”, ha detto Farhad Mohammed, un ufficiale della polizia militare curda che è di stanza presso la diga da quel giorno.

L’Isis ha minato il ponte, lanciato razzi e bloccato le strade, ma, secondo Mohammed, tutti – compresi i jihadisti – sono stati attenti a non colpire la struttura. Non appena i peshmerga hanno ottenuto il controllo della zona, ben 60 ingegneri sono tornati e hanno ripreso i lavori di consolidamento.

Ma essi sono ancora intermittenti – quando bisognerebbe fossero costanti – e il team di ingegneri è troppo ridotto. A complicare ulteriormente la situazione, la fabbrica nei pressi di Mosul che produceva il cemento da immettere nella diga è ancora nelle mani delllo Stato islamico, e da allora ha cessato la produzione. Per fortuna, gli ingegneri hanno trovato un nuovo fornitore, ma la sua malta è di una consistenza diversa.

Anche il genio militare degli Stati Uniti è stato coinvolto. Subito dopo che i peshmerga hanno espulso lo Stato islamico, i soldati americani sono arrivati e hanno collocato sulla diga più di 1.200 sensori, di cui 90 sono collegati a Internet, permettendo agli ingegneri di scaricare i dati in qualsiasi momento. Dopo un anno di monitoraggio, gli americani hanno concluso che la diga resta in grave pericolo.

“Tutte le informazioni raccolte nel corso dell’ultimo anno indicano che la diga di Mosul corre un pericolo significativamente più alto di quanto originariamente ritenuto ed è più a rischio di rottura oggi di quanto non fosse un anno fa”, si legge nel rapporto “per solo uso ufficiale” pubblicato nell’autunno del 2015.

Quando il documento fu diffuso, i governi sembravano ansiosi di trovare una soluzione. I militari americani hanno allora suggerito di affidare i lavori di manutenzione all’azienda italiana Trevi.

Trevi, l’azienda italiana che collabora con l’esercito americano da 15 anni

La società con sede a Cesena è stata fondata nel 1957 ed è un’azienda a conduzione familiare quotata in borsa. Nel 2014, ha fatto 1,2 miliardi di euro di fatturato. Il gruppo ha anche una filiale americana, Treviicos, dall’acquisizione di ICOS Boston nel 1997.

Dal 2001 in poi, la società ha vinto diverse gare di appalto per la manutenzione di alcune dighe negli Stati Uniti, l’ultima nel 2014 per la diga Bolivar vicino a Canton, in Ohio. Ha inoltre lavorato alla riedificazione del World Trade Center e nei lavori di ricostruzione dopo l’uragano Katrina. L’azienda italiana ha lavorato a stretto contatto con i genieri americani per più di 15 anni.

Il 16 dicembre 2015, il primo ministro italiano Matteo Renzi annunciò che Roma avrebbe inviato altri 450 soldati, oltre ai 700 già in Iraq, per proteggere la diga. Rese anche noto che Trevi aveva vinto l’appalto per i lavori di riparazione, anche se il governo non aveva ancora fatto alcun annuncio ufficiale.

Renzi aveva sottolineato come la missione fosse importante e molto vicina allo Stato islamico.

Subito dopo le dichiarazioni di Renzi, Trevi è scomparsa dalle dichiarazioni pubbliche relative al progetto della diga. Il 2 febbraio, il ministero iracheno delle Risorse idriche ha inoltrato un documento formale al parlamento iracheno che citava il rapporto del genio militiare degli Stati Uniti e in cui dichiarava che Trevi era stata l’unica azienda a partecipare alla gara d’appalto, perciò il parlamento avrebbe dovuto chiedere formalmente alla Banca mondiale di erogare il denaro per assumere l’impresa.

Dato che il processo arrancava, i funzionari degli Stati Uniti si sono messi in allerta. Notizie riguardo la potenziale rottura della diga hanno iniziato a trapelare sulla stampa. Nel gennaio 2016, il tenente generale Sean MacFarland, comandante della coalizione guidata dagli Stati Uniti contro lo Stato islamico in Iraq e Siria, disse che l’Iraq avrebbe dovuto prosciugare il lago.

L’ambasciata americana a Baghdad lancia l’allarme

Pochi giorni dopo, l’ambasciata americana a Baghdad diffuse un avviso circa il rischio che la diga di Mosul subisse una rottura catastrofica senza preavviso. Successivamente, Samantha Powers, l’ambasciatore degli Stati Uniti alle Nazioni Unite, rincarò la dose con una serie di Tweet in cui sottolineava la gravità del potenziale disastro.

Voleva essere un modo per spronare il governo iracheno a prendere provvedimenti per la salvaguardia della popolazione nel caso in cui qualcosa fosse andato storto. “Sarebbe da irresponsabili non preparare il pubblico nel caso in cui un tale disastro dovesse accadere,” commentò un funzionario del Dipartimento di Stato.

Nel mese di marzo, il dipartimento di Stato degli Stati Uniti assunse l’azienda MosCamp per la fornitura di mini-dighe mobili per proteggere l’ambasciata e l’aeroporto internazionale di Baghdad. “È stata condotta un’analisi esaustiva delle condizioni strutturali della diga”, si legge nel rapporto. “Si è concluso che senza riparazioni, si tratta di quando e non se avverrà la rottura”.

Baghdad ha iniziato, in cooperazione con le agenzie Onu, a informare le persone interessate su cosa fare in caso di crollo, come ad esempio lasciare l’area non appena sentono le sirene. L’allarme è stato diffuso sugli organi di stampa iracheni, e ha anche raggiunto Mosul, la seconda città dell’Iraq attualmente sotto il controllo dello Stato islamico.

Secondo fonti locali, il successivo sermone del venerdì di un religioso dell’Isis accusava la coalizione di tentare di spaventare la gente di Mosul perché abbandonasse la città, permettendo alle truppe irachene di riprendere la città con minor sforzo. Tuttavia, poche settimane dopo, il gruppo stesso ha evacuato al-‘arabi e al-Hadbaa, due quartieri sulla riva est della città, i più vicini al fiume Tigri.

I lavori procedono senza fretta

Mentre cresceva la pressione dell’opinione pubblica, il governo iracheno ha deciso di accelerare i lavori di riparazione. Il 2 marzo Trevi ha firmato il contratto. Ma per la fine del mese, il senso di urgenza era scomparso, le dichiarazioni del gruppo si erano arrestate e le menzioni della progressiva rottura della diga erano cessate.

“Certo che la situazione è critica, ma se fosse stata davvero drammatica avremmo iniziato subito”, ha detto un funzionario dell’impresa italiana che ha chiesto di rimanere anonimo.

Anche i funzionari del ministero della Difesa italiano hanno un atteggiamento rilassato, e sostengono che il vero rischio è che l’Isis si insinui nuovamente nell’area. La diga di Mosul è ora protetta dai zeravani, un’unità d’elite dei peshmerga, che resterà sul posto e lavorerà a stretto contatto con i militari italiani.

Trevi ha firmato un contratto di 18 mesi: i primi sei saranno dedicati alla costruzione di una caserma per ospitare le truppe italiane e gli ingegneri civili. Nel mese di maggio, alcuni tecnici e ingegneri hanno visitato la diga, ma nessuno di loro è rimasto, ha riferito Hassan.

I lavori inizieranno nel mese di settembre, quando sarà trascorso il momento più critico, che va da marzo a giugno, segnato dalla stagione delle piogge e dallo scioglimento della neve. Il contratto sarà esteso, hanno confermato diverse fonti. E per quanto riguarda i genieri americani, supervisioneranno il lavoro e metteranno a disposizioni esperti tecnici.

Non è ancora chiaro chi stia pagando i militari americani per questo progetto, dato che Baghdad è sull’orlo del fallimento. Anche se diverse fonti hanno confermato che il contratto è pagato dalla Banca Mondiale, l’istituzione ha negato qualsiasi finanziamento “diretto”.

La prossima crisi è dietro l’angolo

“Il governo iracheno vuole creare un comitato per monitorare sia il lavoro di Trevi che quello dei militari americani”, ha detto Nasrat Adamo, l’ex ingegnere capo della diga di Mosul che ora vive in Svezia. Il comitato includerà un gruppo di esperti e sarà anch’esso finanziato dalla Banca Mondiale.

Adamo ha contribuito a organizzare il recente workshop di ingegneria civile in Svezia. “Il workshop è stato strettamente tecnico, senza fini politici o promozionali tranne cercare di capire la natura tecnica del problema e aiutare a risolverlo”, ha detto.

Una riparazione provvisoria è più realistica. Una più a lungo termine è più difficile da digerire. Dal 1986 al 2014, 950mila tonnellate di cemento sono state pompate nelle fondamenta della diga, lasciando molti dubbi sulla possibilità di sopravvivenza a lungo termine della struttura. “È stata una società svizzera a consigliare il sito”, ha detto Al-Ansari. “Non capisco il motivo per cui all’epoca Saddam non abbia citato in giudizio l’azienda. Avrebbe dovuto farlo”.

Al-Ansari è consapevole del fatto che 265 milioni di euro non faranno altro che rattoppare le fondamenta. Questo è il motivo per cui è così ansioso di trovare soluzioni alternative. “Pensavamo che terminare la costruzione della diga di Badush [tra la città di Mosul e la diga] potesse essere un’alternativa”, ha detto.

“Oppure, si potrebbe costruire un diaframma per alleviare la pressione sulla diga, ma costerebbe fino 1,7 miliardi di euro”.

Ironia della sorte, Trevi faceva anche parte del consorzio che ha originariamente costruito la diga di Mosul negli anni Ottanta. Anche se il senso di urgenza è scomparso dal dibattito pubblico, al-Ansari sa che la prossima crisi è dietro l’angolo.

— L’articolo è stato pubblicato da War is Boring con il titolo There’s No Rush to Save the World’s Most Dangerous Dam e ripubblicato in accordo su TPI con il consenso dell’autrice.

*Benedetta Argentieri è una giornalista e documentarista italiana, ha lavorato per il Corriere della Sera e collabora da freelance con diversi media internazionali. È possibile seguire il suo lavoro sul suo sito personale e su Twitter @benargentieri

*Traduzione a cura di Paola Lepori

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