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Home » Esteri

I bambini indiani che sniffano colla

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Lo fanno per sopravvivere al freddo e alla fame. Vivono, divisi in gang, nelle stazioni di Delhi insieme ad altri 50mila ragazzini

Li vedi ciondolare in giro, con lo sguardo annebbiato perso nel nulla, dalla mattina fino a tarda notte.

Nessuno li nota e si confondono nella folla brulicante di Nuova Delhi. Sono i bambini invisibili delle stazioni, dimenticati dalle metropoli indiane.

Saddam dice di avere 14 anni, ma ne dimostra molti di più. Sniffa sei tubetti di colla al giorno. È del Rajastan, ma vive a Nuova Delhi da diversi anni, non ricorda quanti. Vicino a lui c’è Mushraf, un ragazzino minuto di non più di 10 anni con un sorriso sempre ironico stampato sul viso.

Saddam e Mushraf non sono bambini indiani nati e vissuti in strada con le proprie famiglie, e nemmeno quelli che in strada ci lavorano soltanto. I ragazzini delle stazioni sono diversi. Nella maggior parte dei casi sono scappati da casa, lasciandosi alle spalle situazioni di violenza, abuso o povertà estrema.

Alcuni sono orfani, altri sono stati abbandonati. Saltano sul primo treno, si nascosdono nella toilette, diretti verso una grande città, carichi di speranze e illusioni. Il più delle volte finiscono a vivere in strada, una vita di solitudine e dipendenza ai margini della società.

L’Unicef parla di oltre 10 milioni di bambini di strada in India, una cifra che comprende tutte e tre le categorie di street children, così come definite dalle Nazioni Unite. In metropoli come Bombay, Calcutta, Bangalore, Madras e Hyderabad, si stima che i soli bambini delle stazioni siano 300mila. Delhi da sola ne conta oltre 50mila.

Le statistiche però, in questo caso, sono aleatorie: è impossibile monitorare bambini non registrati e per lo più girovaghi. Ma sono stime che aiutano a capire la vastità di un problema che ha preso i contorni di una tragedia ignorata dall’India della crescita e di Bollywood.

Come Saddam, molti dei bambini di strada sono dipendenti da colla e solventi a base di toluene, una sostanza volatile tossica i cui effetti sono simili a una droga. Un tubetto di colla costa poche decine di rupie e li aiuta a superare il freddo e la fame, ovattandoli dalla realtà in cui vivono. Ne inalano i fumi da una pezzetta intrisa di solvente che portano alla bocca, stretta nel pugno, a intervalli regolari. Le loro giornate ruotano intorno all’uso di colla e agli orari dei film di Bollywood.

Fuori dal cinema, la loro vita è fatta di lavoretti per tirare avanti, litigi, amicizia, sogni, paure e una libertà difficile da capire. Vivono insieme, divisi in piccole gang che gravitano attorno alle principali stazioni ferroviarie, dormendo nello spazio che separa le pensiline dei binari dal sovrapassaggio, o nei vicoletti cupi e polverosi della capitale che di notte diventano spettrali. Non dormono mai da soli: la gang diventa la loro famiglia, il loro unico riferimento, una piccola comunità con regole e gerarchie ben definite.

Spogliati dei propri diritti e privati della loro infanzia, i glue kids – così come vengono chiamati – diventano facile preda per poliziotti corrotti o adulti senza scrupoli. A differenza di quanto si possa immaginare, la maggior parte dei ragazzini lavora: rubare è troppo rischioso per loro, già così vulnerabili. Tanti fanno i rag pickers: rovistano nella spazzatura e raccolgono in giro plastica, cartone e alluminio da riciclare e rivendere a peso. Molti muoiono prima di raggiungere i vent’anni.

Da uno studio dell’ufficio delle Nazioni Unite per il controllo della droga e del crimine (Unodc) emerge che l’abuso di sostanze volatili (Vsa) – ovvero quelle che tendono a evaporare – è un fenomeno transitorio in età adolescenziale, che generalmente sfocia nell’abuso di alcool o droghe pesanti. Come il primo passo verso una strada già segnata.

Esistono diverse Ong locali e internazionali che si occupano con successo del recupero dei bambini dipendenti dalla colla. Ma la vastità del problema non fa del loro lavoro che una goccia nel mare. Il loro target, infatti, sono i bambini più piccoli, quelli che sono in giro al massimo da un paio d’anni. Quelli che la dipendenza e la vita di strada non hanno reso irrecuperabili.

Il reportage è a cura di Maria Tavernini. Le foto sono di Andrea De Franciscis. Qui le immagini

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