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Pakistan proibito: dentro le feste clandestine della comunità transgender tra droga, lussuria e misticismo

Immagine di copertina
Hijra Credit: Arindam Shivaani/ NurPhoto

In Pakistan la comunità transgender comprende dalle 350mila alle 500mila persone e i transessuali, in apparenza, godono di maggiori diritti rispetto a molti altri paesi al mondo. Ma la realtà, nei fatti, non sempre corrisponde a quanto dicono le carte

Il nome della Repubblica Islamica del Pakistan é associato in modo quasi sistematico al rigorismo islamico e al fanatismo jihadista. È in questo paese, nato dalla Partizione dell’India nel 1947, che i talebani infatti hanno trovato nascondigli, campi d’addestramento e terreno fertile per compiere attentati.

E la fermezza dottrinale non è prerogativa soltanto dei gruppi qaedisti, ma la si riscontra anche tra le alte sfere dell’amministrazione statale. La legge sulla blasfemia, introdotta nel 1986, che condanna alla sentenza capitale chi è accusato di aver offeso Allah ed il Profeta, è una spada di Damocle che pende sulle minoranze religiose cristiana e induista, costrette a vivere discriminate e subordinate rispetto al resto della società.

E chi negli anni ha provato ad opporsi a questo furore religioso statuale, come la premier Benazir Bhutto e l’ex ministro delle minoranze Shahbaz Bhatti, è stato assassinato.

Ma se questa è l’immagine comune del Pakistan, in realtà, c’è anche un mondo nascosto fatto di misticismo, lussuria e droghe e per conoscerlo occorre spingersi nell’emisfero peccaminoso della ”Terra degli uomini puri”.

Campi di frumento e fabbriche di mattoni punteggiano la campagna del Punjab all’ora del tramonto e intanto una musica salmodiata e ritmata si alza dall’interno di una piccola casa nel villaggio di Pattoki.

Varcata la soglia dell’abitazione, come in una piece teatrale dove è in scena l’imprevedibile, ecco un gruppo di transessuali che danza senza sosta, mentre alcuni uomini cantano e suonano. A fare gli onori di casa è Diba Lal che invita nella sua comune di transgender.

”Io sono una guru, ovvero una trans con esperienza, che insegna alle sue adepte a danzare, a comportarsi in modo femminile e che trova per le proprie allieve opportunità di lavoro e garantisce protezione”.

Mentre alcune hijra, termine con cui vengono chiamati i lady boy in Pakistan, preparano la cena e altre continuano a ballare, la guru mostra le immagini sul cellulare di una sua conoscente uccisa da un fondamentalista islamico: ”Molti ci odiano per chi siamo, come i fanatici religiosi. Ma molti uomini ci cercano proprio per chi siamo. Basta spingersi in una nostra festa per scoprire quanto siamo desiderate in questo paese”.

La notte è calata a Lahore e taxi e richò, in successione si dirigono in periferia dove è in corso una delle feste clandestine organizzata dalla comunità transgender. É il compleanno della trans Lady Roma: la sala dov’è ospitato l’evento è affollata di gente e decine di lady boy ballano in modo provocatorio difronte a un centinaio di uomini.

I presenti assistono ebbri di desiderio, non smettono di far foto e filmati e mentre alcuni si appartano con le hijra per accordarsi sul prosieguo della serata, gli altri ricoprono con una pioggia di banconote le danzanti ogni qual volta le movenze di queste diventano levatrici del recondito e del proibito.

Getha Babi, una guru intenta ad osservare le sue allieve spiega: ”Noi siamo l’anelito inconfessabile, la fantasia trasgressiva; tutto ciò che non possono soddisfare per pudore e morale religiosa con le donne, gli uomini, lo ricercano in noi”.

In Pakistan la comunità transgender comprende dalle 350mila alle 500mila persone e i transessuali, in apparenza, godono di maggiori diritti rispetto a molti altri paesi al mondo.

La Corte suprema di Islamabad, infatti, ha riconosciuto il ”terzo genere” nel 2009 e poco tempo prima era stato garantito il diritto di voto ai membri della comunità Lgbt e a maggio di quest’anno il Parlamento ha promulgato una nuova legge che condanna la discriminazione nei confronti delle hijra.

Ma la realtà, nei fatti, non sempre corrisponde a quanto dicono le carte. A spiegarlo è Moon Alì, direttrice dell’ong Khawaja Sira Society, in prima linea nella lotta per i diritti della comunità LGBT: ”Non basta essere riconosciuti come terzo genere per avere diritti sociali.

La stragrande maggioranza dei trans che vivono in Pakistan non ha altre possibilità che prostituirsi o fare dell’intrattenimento alle feste per sopravvivere. Siamo emarginati”.

Proseguendo, Moon Ali ha spiegato come anche la stessa comunità transgender debba mutare dall’interno: ”È inaccettabile che negli anni 2000 le hijra vivano ancora in una comune, sotto l’ala di una trans che, in cambio di una parte dei guadagni, garantisce protezione e insegna a civettare con gli uomini. Questo tipologia di realtà è un freno alle battaglie progressiste” .

E infine ha sottolineato il rapporto con la religione: ”Alcuni imam, pochi, si sono rivelati aperti con noi, ma per la maggior parte del clero siamo invece delle figure deviate e devianti che vanno allontanate dal mondo islamico. E poi ci sono gli estremisti, i quali vogliono ucciderci. E spesso lo fanno”.

Quella delle hijra non è la sola comunità ad essere perseguitata in Pakistan dai gruppi islamisti. Nel mirino dei talebani e dei terroristi ci sono anche i sufi.

Il sufismo, il ramo mistico dell’Islam che contempla l’armonia tra gli uomini e fa della cultura, delle arti e della musica gli strumenti per raggiungere il divino, è considerata una branca eretica dell’Islam dai jihadisti, che hanno iniziato a compiere attentati nei templi sufi come dimostra quello avvenuto nel febbraio 2017 a Shewan che ha provocato la morte di oltre 100 persone.

Oggi, quindi, gli adepti del sufismo pakistano sono costretti a celebrare le funzioni di nascosto e in clandestinità.

É notte e centinaia di fedeli, all’interno di un cimitero di Lahore, attendono nell’oscurità l’inizio delle celebrazioni.

”Da quando i Talebani e Daesh ci hanno dichiarato guerra, noi sufi dobbiamo nasconderci e così ci rechiamo sulle tombe dei nostri maestri la notte. Il pericolo che qualche fanatico faccia irruzione e compia una strage però c’è sempre”. A parlare è Mithu Sain, un percussionista di musica qawwali, ma si interrompe appena i  fedeli gridano per tre volte il nome di Alì e quello di Maometto.

La cerimonia ha inizio, subito i musicisti incominciano a scandire il tempo, i dervisci volteggiano su se stessi sino a raggiungere l’estasi e i presenti ringraziano Allah e non smettono di cantare e fumare cyloom di terracotta saturi di hashish che esplodono in nuvole di fumo azzurro.

La funzione si conclude con il grido ”Allah u Akbar” che, a certe latitudini, dove paradosso e contraddizione sono connaturati nell’ordinario e mescono sacro e profano, è l’invocazione sia di chi ha fatto dell’eresia una fede di morte, ma pure di chi è costretto a nascondersi per pregare un Dio che invita a essere inebriati di bellezza e riconoscenti per la vita.

A cura di Daniele Bellocchio

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