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A pranzo con la storia

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Una conversazione con l'autore del libro “Gli arabi e l’Olocausto, la guerra arabo-israeliana delle narrazioni”

Che cosa c’entra Hitler con il conflitto in Medio Oriente?

È vero quello che si dice sui rapporti tra il mondo arabo e il terzo Reich, cioè che fu luna di miele in virtù del nemico comune ebraico-sionista? Perché ancora oggi Israele e i suoi nemici si accusano a vicenda di essere “come i nazisti”?

Nel suo saggio storico “Gli arabi e la Shoah, la guerra arabo-israeliana delle narrazioni” il sessantaduenne intellettuale libanese Gilbert Achcar cerca di fare chiarezza.

Alla rigorosa analisi storica delle relazioni tra Germania nazista e mondo arabo affianca un resoconto attento delle strumentalizzazioni della Shoah nel discorso politico mediorientale.

Gilbert Achcar mi riceve nel suo ufficio della “School of Oriental and African Studies” di Londra, dove è approdato dopo aver insegnato a Parigi e aver lavorato come ricercatore associato a Berlino. Sui muri campeggiano foto della primavera araba: mentre lo intervisto ho davanti agli occhi la folla di piazza Tahrir.

Nel libro lei parla del “problema della soggettività” nell’analisi storica, a maggior ragione nella trattazione di temi sensibili come Shoah e Nakba (per i palestinesi, la “catastrofe” della nascita di Israele nel 1948). Lei, da arabo, come ha cercato di superarlo?

Chiunque può sostenere di essere neutrale. Io non sono neutrale né sostengo di esserlo. Al contrario, penso che la consapevolezza di avere una posizione permetta maggiore trasparenza. Per me oggettività significa cercare di essere onesti, dare resoconti dei fatti senza nascondere nulla che potrebbe essere scomodo o contraddittorio per la tesi che si vuole sostenere.

In questo libro non voglio dipingere gli arabi come angeli, con la stessa faziosità nella selezione e distorsione delle fonti praticata da quelli che li dipingono come demoni. Io non sono l’avvocato di nessuno: ogni qual volta mi trovo di fronte a posizioni che devono essere condannate, le condanno molto duramente. Però allo stesso tempo ho confutato una serie di distorsioni, calunnie, e accuse strumentali che mancavano del tutto di prove fattuali.

Il suo libro comincia con una citazione dal Vangelo di Matteo: “Perché guardi la pagliuzza che è nell’occhio del tuo fratello, e non ti accorgi della trave che è nel tuo occhio?”

Penso che sia un precetto fondamentale, prima di criticare gli altri devi essere consapevole delle tue mancanze. Molti di quelli che hanno accusato gli arabi per i loro rapporti con la Germania Nazista, o che ancora oggi usano criticarli e talvolta paragonarli ad essa, dovrebbero prima farsi un esame di coscienza. Prima di attaccarli dovrebbero riconoscere la tragedia della Nakba, “la trave che hanno nell’occhio”.

In un’intervista al Guardian (26 giugno 2010) Tariq Ali ha detto che il principio secondo cui “il nemico del tuo nemico è tuo amico” spiegherebbe tutto. Lei invece rifiuta di fare di tutta l’erba un fascio.

Certamente, il mio libro è una decostruzione e confutazione della propaganda che dipinge gli arabi come pro-nazisti. La narrativa che descrive gli anni 30 e i primi anni 40 come anni di luna di miele tra Hitler e i principali movimenti politici nel mondo arabo compie l’errore, involontario o più probabilmente premeditato, di generalizzare quello che fu effettivamente un rapporto di collaborazione tra Amin al Husseini (Gran Muftì di Gerusalemme tra il 1921 e il 1937 ndr) e il Fuhrer estendendolo a tutto il mondo arabo. Sarà pure andato a Berlino e Roma, e tutto il resto, ma non certo da rappresentante di tutti gli arabi. La stessa narrativa continua additando i vari leader arabi dopo la Seconda Guerra Mondiale come nazisti.

Allo stesso modo, però, lei riconosce i contatti e le relazioni che ci furono tra alcuni movimenti e la Germania nazista. Riconosce per esempio il legame che ci fu con le falangi libanesi, che in seguito si resero responsabili del massacro di Sabra e Chatila durante la guerra civile libanese.

È indubbio che Pierre Gemayel, il leader delle falangi, trovò la sua ispirazione per la fondazione del suo movimento durante i trentaseiesimi Giochi Olimpici di Berlino ai quali assistette nel 1936. Ma allo stesso tempo faccio capire molto chiaramente nel mio libro che le falangi non possono essere additate in alcun modo come partito nazista: il movimento era più vicino al “fascismo clericale” di modello franchista.

È dalla Spagna, infatti, che trae origine il nome, non dalla Germania. I falangisti erano certamente di estrema destra, ma né nazisti né antisemiti, e in seguito diventarono molto duramente antipalestinesi. L’unico gruppo che era davvero un clone del movimento nazista tedesco nel mondo arabo è stato il partito socialnazionalista Siriano che, nato in Libano, era una copia carbone del partito del Fuhrer. In tutto, compreso il simbolo che è una chiara imitazione della svastica.

In più, lei non mette per nulla in dubbio lo stretto rapporto che legò il leader palestinese Amin al-Husseini e l’élite nazista. Allo stesso modo però, ne denuncia la strumentalizzazione nel discorso politico: se i palestinesi hanno avuto un ruolo di complici nella Shoah, allora non è più vero che con la Nakba hanno pagato colpe che erano solo degli europei.

Sì, esattamente, la dinamica funziona esattamente in questo modo. Lo scopo della “nazificazione degli arabi” è quello di giustificare la Nakba. Di fronte alla Nakba ci sono due diverse strategie sioniste. Una è quella di negarla, sostenendo che in realtà tutti i palestinesi che abbandonarono la loro terra nel 1948 lo fecero incoraggiati dai loro leader e convinti che vi sarebbero ritornati a breve dopo che gli Stati arabi avessero sconfitto e distrutto il neonato Stato di Israele.

Questa tesi è sempre più difficile da sostenere, in particolare dopo che storici israeliani, lavorando su archivi dello stesso Stato di Israele, hanno dimostrato che c’è stata una gigantesca espulsione di palestinesi tra il 1947 e il 1948. Si tratta dei cosiddetti “nuovi storici”, dei quali la prima fu Simha Flapan, che hanno fondato l’ideologia “post-sionista”.

L’altra risposta sionista, che si fa avanti tanto più la prima diventa indifendibile, ammette che c’è stata la Nakba ma sostiene che fosse meritata, perché i nemici palestinesi erano dei “nazisti”. Così funziona il “discorso”. C’è un personaggio in particolare che ha giocato un ruolo fondamentale nel superamento della negazione della Nakba, dimostrando che c’è stata una gigantesca espulsione forzata, ma che poi ha sposato questa seconda prospettiva sionista: lo storico israeliano Benny Morris.

Dopo aver portato a termine preziose ricerche storiche che hanno provato inoppugnabilmente i fatti della Nakba, all’inizio del terzo millennio Benny Morris è scivolato su posizioni di estrema destra e, seppur non rinnegando le sue precedenti ricerche e riconoscendo il fatto che avvenne una vera e propria pulizia etnica, dai primi anni duemila ha cominciato a sostenere che l’espulsione di massa fosse giustificata perché i palestinesi erano barbari, nazisti e perché l’alternativa per gli israeliani era un secondo genocidio.

A parte la questione dei suoi rapporti con i tedeschi, lei definisce Amin al-Husseini “il primo di una lunga serie di leader calamitosi per i palestinesi”.

Sì, io penso che il popolo palestinese sia vittima del sionismo, dei regimi arabi, ma anche della sua stessa leadership. I leader palestinesi, da Amin al Husseini fino ad Abu Mazen passando per Arafat, hanno condotto il loro popolo da una sconfitta all’altra con scelte politiche ingenue e spesso autodistruttive.

Lei dice anche che Amin al Husseini fu stupido a non capire che l’antisemitismo era la “forza propellente più potente del sionismo”.

No, nel caso di Amin al-Husseini non si trattò di stupidità. Lui era proprio antisemita, ed è per questo che io rifiuto qualunque tentativo di difenderlo o scusarlo. Ebbe un rapporto profondo col nazismo, non uno banalmente basato sul principio secondo il quale il nemico del tuo nemico è tuo amico. Ha sposato l’ideologia nazista e si è impegnato a diffondere la propaganda antisemita in lingua araba. Lungi dal limitarsi a lottare contro l’immigrazione ebraica in Palestina, era a conoscenza della “soluzione finale” e si dava da fare per promuoverla. In alcune lettere ad un ministro ungherese lo invitava a spedire gli ebrei in Polonia, dove sarebbero stati “sotto controllo”.

Lei ci tiene a distinguere tra quelli che si legarono a Hitler per convenienza e quelli che lo fecero per affinità.

Sì, molti movimenti nel sud del mondo hanno avuto rapporti con la Germania nazista negli anni trenta e durante la guerra. Bisogna distinguere fra i soggetti politici che lo fecero per opportunismo, cioè semplicemente seguendo il principio secondo cui “il nemico del mio nemico è mio amico”, e quelli che invece ne condividevano in una qualche misura l’ideologia, come per esempio Amin al-Husseini.

L’altra questione affrontata dal libro è quella della strumentalizzazione politica della Shoah. Lei sostiene che, da parte israeliana, essa cresca proporzionalmente al deterioramento dell’immagine di Israele in campo internazionale.

Sì, assolutamente, funziona esattamente così. Più Israele si trova a dover fare i conti con la riprovazione internazionale, e con il crescente deterioramento della sua immagine nell’opinione pubblica occidentale, più fa ricorso alla Shoah come scialuppa di salvataggio. E la vicinanza dell’opinione pubblica occidentale a Israele è molto calata negli ultimi anni.

Consideri per esempio la grossa differenza tra il modo in cui fu accolta la guerra del 1967, in occasione della quale l’Occidente fu molto emotivamente vicino a Israele, e l’invasione del Libano nel 1982, arrivata in seguito allo storico trionfo del Likud nel 1977. Dalla guerra in Libano, in particolare dall’episodio di Sabra e Chatila, la critica a livello mondiale del comportamento israeliano ha fatto sì che Israele ricorresse sempre di più alla Shoah come anacronistico mezzo di difesa, che ricorresse sempre di più alla strumentalizzazione dell’Olocausto per sviare l’attenzione dalle sue malefatte contemporanee.

La “guerra delle narrazioni” è infatti anche una guerra in cui tutti vogliono dipingersi come Davide, e nessuno vuole essere Golia.

Israele non è mai stato Davide, se non nella propaganda. Persino nel 1948, come tra gli altri lo stesso Benny Morris riconosce, la forza militare del movimento sionista era di gran lunga superiore a quella di tutti i Paesi arabi circostanti. Israele è sempre stato Golia. Il modo migliore di utilizzare l’analogia “Davide-Golia” è in relazione con la prima intifada, la cosiddetta “rivoluzione delle pietre”: i giovani palestinesi che tiravano pietre all’esercito israeliano erano la più lampante incarnazione di Davide davanti a Golia.

Tuttavia, nella guerra delle narrazioni legate a Davide e Golia l’invasione del Libano del 1982 è stato un passaggio importante. L’invasione del Libano nel 1982 fu la prima guerra che non poteva in nessun modo essere definita “difensiva” in modo convincente dal governo israeliano. Il tentativo che fece di presentarla come tale fu davvero di scarso successo, molto più che per il 1948, per il 1967, e persino per il 1956 quando l’attacco poteva essere descritto come una reazione alla minaccia strategica causata dalla nazionalizzazione del canale di Suez. Ma nel 1982 Israele ha invaso il più debole dei suoi vicini con la falsa scusa dei razzi dell’Organizzazione per la Liberazione della Palestina (OLP) sulla Galilea e sfruttando il pretesto di un attacco al suo ambasciatore in Inghilterra.

Invasione che lei visse in prima persona visto che si trovava a Beirut fino al 1983.

Non è cosa da poco vedere il proprio Paese invaso. Fino a quel momento cose del genere le avevo viste soltanto nei film, per esempio ne ricordavo alcuni sull’invasione tedesca della Francia. E poi, all’improvviso, un giorno ti svegli e ti ritrovi dei carri armati nella tua città, ti trovi soldati che parlano un’altra lingua nelle strade sotto la tua casa. Questa è senza dubbio un’esperienza che traumatizza: una cosa è parlare di un’occupazione e un’altra è farne esperienza. Questa è stata probabilmente la sensazione più forte che mi ha lasciato quel periodo, vedere il mio Paese invaso.

Perché l’intellettuale gauchista francese Roger Garaudy fu accolto da eroe in tutto il mondo arabo dopo la pubblicazione di “Les Mythes fondateurs de la politique israélienne” (I miti fondatori della politica israeliana), libro negazionista?

L’affaire Garaudy è avvenuto in un periodo in cui il Medio Oriente era elettrico, le passioni accese e le tensioni esacerbate dal fallimento degli accordi di Oslo che era sempre più evidente. Ed ecco che arriva quest’uomo, con il suo libro semplicemente stupido, e viene punito dalla legge contro la negazione dell’Olocausto.

Nel mondo arabo tutti l’hanno presa come se fosse stato attaccato per le sue critiche a Israele, e per questo motivo fu fatto martire ed eroe. Alcuni governi poi amano sfruttare questo tipo di controversie per deviare l’attenzione dai veri problemi, e giustificare la loro collusione e cooperazione con Israele. L’importanza che fu data all’accoglienza di Garaudy fu in questo senso anche strumentale, e questo è un aspetto della questione; l’altro è che c’è un impressionante livello di ignoranza nel mondo arabo riguardo all’Olocausto perché i governi impediscono ogni tipo di insegnamento della Shoah nelle scuole.

Questa scelta è figlia dell’idea infondata che se tu riconosci che l’Olocausto è avvenuto, allora riconosci la legittimità dell’esistenza dello Stato d’Israele. Riconoscere l’orrore della Shoah non significa approvare l’idea sionista che essa giustifica Israele. Infine, esiste anche una forma di “negazionismo di reazione” nel mondo arabo. Persone piene di risentimento per Israele e per quello che Israele fa ai palestinesi sfogano la loro rabbia negando l’Olocausto come se questo in qualche modo possa danneggiare il nemico. È un atteggiamento che io chiamo “l’antisionismo degli scemi”.

Nella risposta a Garaudy Said riconosce che non si può trattare il sionismo come tutte le altre esperienze coloniali. Invece lei, all’inizio del libro, definisce quella palestinese come “l’ultima lotta anti-coloniale”.

Israele è in modo indiscutibile uno Stato frutto di insediamenti di tipo coloniale: lo stesso Herzl usava il termine “colonia” e pensava il proprio movimento come un movimento coloniale. Con la peculiarità, certo, che non è la proiezione di un altro centro di potere ma un movimento nato in Europa come forma di reazione all’antisemitismo.

Questo è il carattere complesso del sionismo, la sua doppia faccia: da una parte è una reazione all’oppressione razzista, dall’altra ha esso stesso commesso il peccato storico di oppressione. Questa ambivalenza peculiare del movimento sionista è dovuta al carattere etnicista del suo progetto. Il progetto di costruire uno Stato ebraico, in più basato sull’appropriazione di una terra che appartiene ad un altro popolo.

Lei dice che l’errore più grande dei palestinesi non fu quello di rifiutare il piano di partizione dell’ONU del 1947 ma piuttosto fu il rifiuto del libro bianco del 17 maggio 1939.

Quel libro bianco stilato dagli inglesi era contro la partizione, mirava a fare della Palestina uno Stato unico trovando una formula di coesistenza tra arabi ed ebrei basata sulla limitazione dell’immigrazione ebraica. Questo soddisfaceva in buona parte le aspirazioni arabo-palestinesi, e nonostante questo fu rifiutato, di nuovo a causa di Amin al-Husseini che al tempo comandava senza rivali.

Per quanto riguarda invece la partizione del 1947, quella non poteva in nessun modo essere accettata, da nessun popolo. Quella risoluzione dava a un terzo della popolazione della Palestina mandataria, terzo perlopiù composto da nuovi immigrati arrivati nel corso dei 15 anni precedenti, il 55% del territorio del Paese. Non c’è popolo sulla terra che avrebbe accettato. Secondo qualunque metro di giudizio quella partizione era profondamente ingiusta.

L’espulsione forzata dei palestinesi nel 1948 lei l’ha descritta con un’espressione italiana, espulsione “ma non troppo”.

Esattamente. Quando i sionisti hanno fatto ciò che hanno fatto avrebbero facilmente potuto spazzare via ogni presenza araba nel territorio che hanno conquistato…

E secondo Benny Morris avrebbero fatto bene.

Si, esatto, quando è passato a posizioni oltranziste di destra ha detto che Ben Gurion avrebbe dovuto farlo. Ma Benny Morris non capiva che Ben Gurion voleva mantenere una minoranza di arabi che gli permettesse di presentarsi come leader di uno Stato democratico.

Non voleva dare l’impressione di voler costituire uno Stato “arabenrein” come Hitler voleva rendere la sua Germania “Judenrein” (“ripulita da arabi” e “ripulita da ebrei” ndr). Gli serviva una minoranza, a condizione che fosse e che restasse tale. Finché fosse restata sotto controllo, poteva funzionare da emblema del preteso carattere democratico dello Stato di Israele.

Alla fine del libro lei prende Avraham Burg con il suo “Sconfiggere Hitler” (Neri Pozza) insieme ad Edward Said come due esempi positivi di come la “guerra delle narrazioni” potrebbe essere superata attraverso il riconoscimento delle reciproche tragedie storiche. Tuttavia lei dice che Burg non è andato abbastanza a fondo.

A causa del suo background sionista Burg non si è occupato abbastanza dei palestinesi. Ha fatto molta autocritica israeliana, per cui va lodato, ma ha scritto troppo poco riguardo alla Nakba e all’oppressione dei palestinesi. E chiaramente, dato ciò che Israele è, avrebbe dovuto dare molto più peso a questa seconda parte.

Ma nonostante questo, la sua riflessione autocritica mette le basi necessarie per fare dei passi in avanti, per una discussione e un dialogo. Io potrei dialogare con Burg senza problemi, io e lui potremmo avere una discussione civile ed essere d’accordo su vari punti, persino muoverci in avanti verso una concezione di coesistenza basata su giustizia e pace nella regione. Ma, per l’appunto, bisogna che prima si passi attraverso quel lavoro di severa auto-analisi che lui ha fatto per arrivare a questo punto di partenza.

Dall’altra parte, dalla parte araba, c’è bisogno di persone come Edward Said, che possano riconoscere l’importanza dell’Olocausto e capire che non è attraverso la negazione dell’Olocausto che si combatte Israele. Questo atteggiamento è a tutti gli effetti contraddittorio con una vera comprensione della causa palestinese; se capisci a fondo l’Olocausto e la sua essenza, e le sue lezioni contro ogni forma di discriminazione razziale, etnica, contro l’oppressione e l’occupazione, allora capisci che quelli che devono invocare le lezioni dell’Olocausto sono i palestinesi, perché i palestinesi sono le vittime.

E così rieccoci al punto di partenza, alla citazione del Vangelo di Matteo. Said e Burg sono riusciti ad accorgersi della trave nel proprio occhio prima di avvedersi della pagliuzza nell’occhio del fratello.

Esattamente! Riconoscendo le reciproche tragedie, e ammettendo il ruolo giocato dai propri popoli nel concorrere a causarli, i due pensatori hanno visto la trave nel proprio occhio. Solo ora possono discutere della pagliuzza nell’occhio del vicino.

“Gli arabi e l’Olocausto, la guerra arabo-israeliana delle narrazioni” è stato pubblicato nel 2009 dalla casa editrice francese Actes Sud. È stato tradotto in inglese, tedesco ed arabo. Presto uscirà anche in spagnolo. Nonostante lo scrittore abbia avuto numerosi contatti con case editrici italiane, nessuna si è ancora detta disponibile a pubblicarlo.

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