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    Il prof Zangrillo a TPI: “Il Cts sbaglia e i virologi non capiscono, per le riaperture serve buonsenso, così è assurdo”

    Illustrazione di Emanuele Fucecchi

    Intervista al primario di Anestesia e Rianimazione al San Raffaele di Milano: "Non tollero il protagonismo mediatico degli esperti che in questa partita non sono scesi per un solo minuto in campo. Parlano per sentito dire. Il Coronavirus si sta indebolendo, è il momento del coraggio e del buonsenso: per la Fase 2 serve l'acronimo POST. Bisogna salvare il paese dalla morte sociale e civile"

    Di Luca Telese
    Pubblicato il 15 Mag. 2020 alle 17:42 Aggiornato il 18 Mag. 2020 alle 12:07

    Partiamo da questo dato di fatto, semplice, chiaro, inoppugnabile? Noi da tre giorni, al San Raffaele, non vediamo più un malato grave di Covid.
    È importante, ma basta ad attenuare l’emergenza?
    La stessa evidenza la riferiscono anche i nostri colleghi di tutti gli altri ospedali lombardi, i più colpiti.
    Che conseguenza ne trae?
    Tutti coloro che hanno guardato questa malattia negli occhi, trovandosi faccia a faccia con lei, osservano “clinicamente” l’abbattimento della forza del virus.
    Quindi la Fase 2 può allentare la sua morsa?
    Io ne sono convinto. Altrimenti i pazienti salvati dalla malattia moriranno di fame.

    Ma perché questo non accade?
    (Sospiro). Bella domanda. Io credo, lo dico con il massimo rispetto, che nel comitato scientifico che prende tutte le decisioni oggi ci sia un problema.
    Di che tipo?
    Devono cambiare, aprirsi.
    Ad esempio come?
    O accolgono tra di loro qualcuno che il Covid lo ha incontrato, o ascoltano le sue idee. Sono tutti ottimi professionisti, sia chiaro, che però hanno una conoscenza astratta della clinica del virus.

    E questo cosa produce?
    Molti vincoli e molti timori. Ma i commercianti devono poter riaprire. Devono poterlo fare con regole sensate. Devono recuperare il diritto alla speranza.
    Mi faccia un esempio di regola sensata.
    Nel bar tipo, largo quattro metri, come fai a prescrivere che entri solo un cliente alla volta? O che tenga una distanza di sicurezza di quattro metri? Non bisogna essere ipocriti.
    Cioè?
    Se in un locale così dici: “Riapri solo con un cliente alla volta e quattro metri di distanza” in realtà  è come dire “chiudi”.
    Oppure?
    In un ristorante con dei tavolini, come si fa a stare a quattro metri di distanza?

    Lei che cosa proporrebbe?
    Quando ho pensato all’acronimo della seconda fase ho immaginato a quattro sostantivi significativi, legato da un filo concettuale comune.
    Quale acronimo?
    La parola è: “Post”.
    Che sta per?
    Primo: “Prudenza”. Secondo: “Organizzazione”. Terzo: “Sorveglianza”. Quarto: “Tempestività”.

    Partiamo da tempestività.
    In primo luogo identificare il soggetto malato. Poi Tempestività nel curarlo.
    E come si fa?
    Triangolando in modo virtuoso ospedale territorio. Perché qui c’è un tema decisivo.
    Quale?
    Il malato di Covid arrivava troppo tardi in ospedale. E questo – non lo dico certo per cercare colpevoli, ma per spiegare cosa è accaduto – ha sicuramente fatto salire i tassi di mortalità.
    E adesso siamo più preparati?
    Oh si! Ora che il sistema sanitario ha fatto esperienza del virus non subiremmo l’onda d’urto del contagio come è accaduto a febbraio.

    Malgrado questo, lei da un giudizio non negativo della nostra Fase uno.
    È indubbio che se fosse accaduto in un altro paese quello che è accaduto in Italia avremmo avuto una strage. E poi i numeri di America, Francia e Inghilterra, se li vai a studiare sono tutti peggiori dei nostri.
    Cosa ci assicura che il rischio tracollo non si ripeterebbe?
    C’è stata una concatenazione  di eventi drammatici che hanno portato a mantenere a domicilio quelli che avrebbero dovuto essere curati prima. E non avevamo ancora elaborato una strategia farmacologica adeguata. Adesso questi elementi lì abbiamo messi in fila. Posso usare una immagine figurata per spiegare?
    Certo.
    Abbiamo preso una sberla in ospedale e un cazzotto sul territorio Il medico territoriale si è sentito solo. Anche noi abbiamo delle colpe. Quei morti ci devono insegnare gli errori che non vanno ripetuti. E noi abbiamo imparato.

    Alberto Zangrillo, primario di Anestesia e Rianimazione Generale e Cardio-Toraco-Vascolare al San Raffaele di Milano, è prorettore per le attività cliniche e professore ordinario di Anestesiologia e Rianimazione all’Università del San Raffaele. È uno degli “intensivisti” più noti d’Italia. Si laurea  in Medicina e Chirurgia all’Università degli Studi di Milano. Gira mezzo mondo, lavorando per il Queen Charlotte Hospital di Londra, l’Hospital de la Santa Creu Pau do Barcellona, il Cardio-thoracic Centre di Monaco di Montecarlo, l’Hetzer Deutsches Herzzentrum di Berlino. Poi torna in Italia, al San Raffaele, che in questi mesi – dice – “è stato la mia trincea”.

    C’è una grande polemica e difformità di idee nel mondo medico su come gestire il Covid e la Fase 2.
    Anche più del dovuto, a mio modesto avviso.
    Esiste un primato dei virologi nella comprensione di questa pandemia?
    Il problema è il punto di vista. Noi abbiamo visto troppi malati morire in ospedale. Faccio un esempio: Vespignani, che pure è un grande scienziato, ci dà indicazioni teoriche partendo da modelli matematici, e può spingersi a dire che se non vi organizzate avrete bisogno di 150mila posto in terapia intensiva.
    E non è vero?
    È una questione mal posta. Io, che nelle terapie intensive ci vivo, posso dire, per tutto quello che ho appena spiegato,  che nella fase finale di questa  malattia il paziente ha già perso la sua partita.

    Lo dice proprio lei?
    (Sorriso amaro). Si, lo dice un intensivista con una qualche esperienza che però non racconta favole: quando un malato di Covid arriva da noi in terapia intensiva, ha spesso esaurito la capacità di rispondere alle terapie.
    È come quando si trova un malato nella fase terminale?
    Esatto. E in questo caso la terapia o la sostituzione temporanea della funzione d’organo non funziona.
    Quindi proprio un intensivista dice che creare cinque ospedali Covid con respiratori e terapie intensive non è la cosa più utile?
    Senza nessuna polemica. In terapia intensiva deve lavorare chi, tra infermieri e medici ha fatto un lungo percorso di apprendimento.

    Perché?
    Perché in terapia intensiva un infermiere esperto conta più di 100 ventilatori Quindi non servono più ospedali. Serve un piano pensato non in tempi di emergenza. Uno può edificare una terapia intensiva in una ex zona industriale della pianura padana o in un punto nel nulla tra Lodi Crema e Cremona, ma resterà deluso.
    Perché?
    Il segreto della terapia è che sia inserita in un contesto ospedaliero. Vede, noi al San Raffaele abbiamo tramutato un campo da calcetto e un campo di basket in due terapie intensive dove, ora, applichiamo le terapie più sofisticate, quali, la circolazione extra corporea!
    E ha funzionato perché quello spazio era inserito in un contesto.
    Esatto. Eravamo adiacenti ad un ospedale. Avevamo un flusso funzionale, un cordone ombelicale che non si è mai interrotto. Ovvio che quando il numero dei letti si moltiplica per cinque, devo formare nuove professionalità. Ma non si parte mai da zero se le inserisci in una squadra.

    Non funziona nemmeno se arruoli professionisti?
    In una terapia si decide in due minuti tra la vita e la morte. Si fanno valutazioni che cambiano il decorso del paziente per sempre. Se non hai un affiatamento pazzesco non lo puoi improvvisare. Quindi, anche se i medici sono bravi, non basta se non c’è la squadra. È come se io dicessi: facciamo giocare l’Inter di Conte, rodata da un intero campionato, contro una squadra di undici campioni che hanno la stessa maglia, ma non si sono mai allenati insieme. Secondo lei chi vince?
    Ovviamente l’Inter.
    Esatto. Io sono arrivato a non tollerare, per un senso di rispetto nei confronti di chi ci ascolta, il protagonismo mediatico, sia pure corroborato da un eloquio fluente, degli esperti che in questa partita non sono scesi per un solo minuto in campo.

    Nomi?
    Non ne faccio, ma basta accendere la televisione.
    Nega che si possa studiare la pandemia anche sui dati statistici?
    Chi ha conosciuto i malati di Covid sa che questo non ti consente di essere superficiale. Invece ho assisto a dibattiti surreali da parte di soloni che parlano per sentito dire.
    Si spieghi meglio.
    Se non conosci come ti comporti? Cerchi di essere prudente. Ma gli inviti alla prudenza, seppur legittimi, vanno spiegati dando una prospettiva realistica.

    Ovvero?
    “Stiamo chiusi! Restiamo a casa! Fermiamoci tutti!”.
    E lei non condivide.
    Se applichi la prigionia anche nei confronti di chi si è comportato bene, produci danni. Non hai a che fare con dei bambini indisciplinati, ma con dei cittadini.
    La sento arrabbiato.
    Preoccupato. Bisogna stare molto attenti ai messaggi che arrivano alle persone. Se vado a comprare il giornale e mi dimentico la mascherina, non può accadere che io sia guardato storto da un edicolante in buonissima fede, come se fossi un pericoloso nemico sociale.

    E poi?
    Io sono un medico e non posso limitarmi alla cura del corpo. Avverto nelle parole degli altri, del barista, del giornalaio o del parrucchiere la rassegnazione.
    E questo lei lo direbbe agli esperti che stanno pianificando la Fase 2.
    Ripeto. Il famoso comitato tecnico scientifico deve necessariamente ascoltare la voce di chi sta conoscendo l’espressione clinica della malattia.
    Finora come hanno lavorato?
    Due mesi fa aveva molto senso ascoltare i virologi che chiedevano il lockdown. Mi metto nei panni del povero premier o del ministro che li interroga per avere risposte.

    Ma adesso, lei dice, la situazione è cambiata.
    Non tengono conto della realtà. Adesso il futuro del nostro paese è nelle mani di chi pretende di prescindere dai fatti. La prudenza è una cosa molto diversa dalla mancanza di una prospettiva.
    È sicuro di questa sua impressione?
    Vede, negli occhi dei malati della terapia intensiva, quando ne escono, avverto sempre disorientamento e segnali depressivi. Per me riconoscere e combattere quei segnali conta come e più del prescrivere una terapia o un farmaco. Oggi negli occhi dei cittadini leggo disperazione e disorientamento.

    Però vi dicono: non avete ancora degli studi scientifici su cui fondare le vostre affermazioni.
    Come no?! Abbiamo pubblicato dati, curve, esiti ma, soprattutto, stiamo fotografando la realtà clinica attuale, che è completamente diversa da quella della prima fase.
    Il virus è mutato, come supponete voi?
    Capisco cosa intende. Noi non possiamo ancora dimostrare scientificamente che il virus sia mutato: ma non si può nemmeno provare il contrario! E c’è un problema più grande.
    Quale?
    Siamo certi che tutti i decessi catalogati per Covid in Italia siano da valutare così?

    È l’annoso tema: morti “per il Covid” o morti “con il Covid”.
    Ormai la presenza di una copatologia nella stragrande maggioranza dei casi è già provata. Siamo sicuri che sia il Covid?
    In Germania usano un altro parametro.
    Ma certo! Crediamo davvero  che la Germania  possa contare su cifre dieci volte meno gravi di noi?
    Lei cosa crede?
    Io posso pensare soltanto che abbiano modificato il denominatore. Allargando la base dei tamponati cala la percentuale di mortalità. È matematico.
    Una gestione “furba”?
    Io non dico assolutamente che abbiano barato! Al contrario. Credo che in questo modo abbiano dei numeri più aderenti alla realtà di noi.

    Quindi in Italia ci sono più contagi.
    Esatto. Ma attenzione. Il problema nasce qui: questo numero, letto senza la capacità di ponderarlo, spaventa ancora di più i virologi teorici che guardano “solo” il numero.
    Quindi bisognerebbe cambiare strategia, ma come?
    Io rispondo a due domande. Quelli che adesso tutti stanno stressando le cosiddette “tre T”, tamponare, tracciare e trattare, dicano cosa si deve fare una volta che hai identificato le categorie a rischio?

    Mi faccia un esempio.
    Impedire ai ragazzi di trovarsi in un contesto ludico per festeggiare la fine del lockdown le sembra saggio è giusto, vero?
    Ci hanno spiegato questo.
    Ma se quel ragazzo resta in casa, viene contagiato da un padre che esce per lavorare regolarmente autorizzato e poi contagia il nonno da asintomatico è peggio!
    Mi dica cosa farebbe lei.
    Io, in questa fase, devo fare quello che prima non potevo fare, perché – come abbiamo raccontato – la linea difensiva del fronte era schiacciata sugli ospedali.

    E quindi?
    Devo proteggere gli anziani, le persone ipertese e cardiopatiche. E tutti quelli che hanno una patologia. E magari devo far tornare quei ragazzi a scuola.
    Avrà un fondamento per sostenere questa rottura del dogma.
    Oh, quanti ne vuole. Vede, noi al San Raffale abbiamo valutato più di 1.100 malati, di cui abbiamo tutto: i markers, la biologia, la scheda anagrafica, gli esami. Abbiamo fatto uno studio di… polizia investigativa. Quindi le categorie a rischio da proteggere gliele posso definire per nome e per cognome.

    Quindi prudenza, ma anche audacia nel “Post”.
    Buonsenso! Se tu sei prudente non puoi impedire all’esercente di avere due persone nel suo bar. E di nuovo parlo del barista, del parrucchiere, di quelli che hanno la lavanderia e che moriranno! Moriranno se non si cambia.
    Moriranno ma non di virus.
    Ma se io sono un medico che deve salvare vite, cosa mi cambia? Sono tutte persone che così rischiano il fallimento e la morte sociale. Che dovranno  interrompere il sogno della loro vita. Pensiamo che questo sia senza conseguenze. Quindi rovescerei radicalmente l’assunto che ha governato il comitato tecnico scientifico fino ad oggi.
    Ridurre il rischio contagio a qualsiasi costo.
    Esatto. Noi abbiamo il dovere di dare allo Stato gli elementi utili per riavviare il paese esponendo tutti ad un minimo rischio. Dobbiamo evitare la morte sociale e civile di un paese, esattamente quanto il contagio.

    E questo lo dice lei, che quei malati lì ha visto negli occhi.
    Certo. Io non posso guardare un solo dettaglio, anche quando è drammatico e devastante per il mio lavoro. Io sono stato molto spaventato per me stesso e per i miei collaboratori. Sono morto dei miei colleghi. Dei miei amici personali.
    Lo dice per spiegare che non sottovaluta il rischi?
    Non vado leggero. Non sono superficiale, non sono spensierato. Do il mio contributo alla conoscenza, posso essere smentito.
    Lei non è un virologo.
    Non sono un virologo. Non sono un Infettivologo. Non sono un indovino. Sono quasi certo – lo scriva – che il virus si dissolverà prima dell’arrivo del vaccino. Ma se così non fosse nulla cambierebbe nel mio ragionamento.

    Perché?
    Perché la certezza deriva dalla consapevolezza che noi non possiamo vivere in attesa di un vaccino che arriverà in tempi lontani.
    Ma perché potrebbe verificarsi questo miracolo?
    È sempre stato così. È accaduto così per la Sars, l’H1N1. Certo, ci hanno lasciato delle code. Più facili da capire, ma non per questo meno letali. Potrei dire ai virologi: come mai non vi preoccupate più dell’H1N1.
    Loro direbbero: perché non comporta più un rischio rilevante.
    Esatto! Esatto! Ma allora vede che è lo stesso ragionamento che io provo a fare, e che evidentemente  loro non capiscono?
    Cioè?
    Quelle malattie che oggi ci fanno molto meno paura, e che sono quasi irrilevanti sul piano statistico, non sono scomparse!
    Non del tutto.
    Ma figurarsi. Ogni anno ricoveriamo malati in terapia intensiva per N1H1, ma li controlliamo tranquillamente. Non ci spaventano. Non diventano un focolaio. Aspetto con ansia il giorno in cui potremo dire lo stesso del Covid.

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