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    Il virologo Tarro a TPI: “Il lockdown non ha senso, il caldo e il plasma dei guariti possono fermare il Covid”

    Intervista all'esperto di fama internazionale: "Il Coronavirus per diffondersi ha bisogno di spazi chiusi, scarsa ventilazione o sistemi di aria condizionata, temperature basse o umide. Il mare e la spiaggia sono l’esatto contrario di questo microclima propizio. Burioni? Mi diverte chi vuole dare lezioni dopo aver fatto errori come e più degli altri"

    Di Luca Telese
    Pubblicato il 20 Apr. 2020 alle 18:59 Aggiornato il 20 Apr. 2020 alle 19:22

    TPI intervista il professor Giulio Tarro, 82 anni, virologo di fama internazionale, allievo di Albert Sabin (il padre del vaccino contro la poliomielite).

    Professor Tarro, lei dice che si può riaprire.
    Assolutamente sí, e se vuole le spiego perché.
    Pensa che non dovremo rinunciare alle vacanze?
    Al contrario, dovremo usarle per combattere il Covid.
    Per questo motivo lei da due giorni è in polemica con Burioni, però.
    Io? No.
    Come no? Battaglia su Twitter.
    Ah ah ah. È lui che è in polemica non me. Io non lo sono con lui, non lo conosco.

    Burioni ha detto che lei è più papabile come aspirante Miss Italia che come un premio Nobel.
    È libero di pensare quello che vuole. Io mi sono semplicemente fatto una domanda.
    Quale?
    Questo Burioni brillante polemista è forse lo stesso famoso virologo Burioni che il 2 febbraio disse: “In Italia non ci sarà nemmeno un caso di Covid?”.
    Battuta perfida.
    No, semplice constatazione. Io tendo a non dare lezioni agli altri. E mi diverte molto chi vuole dare lezioni dopo aver fatto errori come e più degli altri.
    Di più?
    Io non ho mai pensato né detto che non avremmo avuto vittime, anzi. Ero molto preoccupato.

    Ma è vero che secondo lei il contenimento dovrebbe finire?
    Ne sono convinto.
    Parlava di vacanze. È vero che pensa che la stagione estiva al mare non dovrebbe saltare?
    Noi dobbiamo usare le armi di questo paese, il sole e il mare, per aiutarci a guarire.
    Ovvero?
    Invece di stare chiusi a casa ad ammalarci con il contagio familiare, usiamo il mare come una terapia.
    Con le barriere di plexiglass tra gli ombrelloni?
    Per l’amor di Dio no! Questa è follia pura.
    Spieghi perché, secondo lei.
    Perché più che camere di protezione quelle diventerebbero camere di cottura. E non solo.
    Cosa?
    Il virus per diffondersi ha bisogno di spazi chiusi, scarsa ventilazione o sistemi di aria condizionata, temperature basse o umide. Il mare e la spiaggia sono l’esatto contrario di questo microclima propizio.

    E pensa che questo passo si possa fare anche prima che arrivi il vaccino?
    Va fatto subito. Anche qui c’è un grave problema di analisi. Noi accademici in questo momento siamo tutti in attesa di questo benedetto vaccino.
    E non è giusto?
    Bisogna farsi un’altra domanda. Ma il vaccino che cos’è? È un anticorpo. E noi abbiamo già un vaccino naturale negli anticorpi di chi non si è ammalato, malgrado il virus, e di chi ha contratto il virus, ma è guarito.
    Lei sta dicendo anche come cura?
    Certo! Tutti a chiedersi quando arriveranno i vaccini, ma gli anticorpi dei guariti già ci sono! Bisogna usare il plasma dei guariti.
    Con chi sta male?
    L’infusione di 200 millilitri di plasma è un aiuto enorme per qualsiasi malato. Si chiama plasmaferesi, e non l’ho certo inventata io.

     

     

    Quindi quella è la prima terapia?
    I guariti andrebbero salassati, perché diventino donatori di anticorpi. Non trattati come appestati.
    È una eresia?
    Ma per chi? Ho sentito dire che in via sperimentale questo tipo di cure sono già in applicazione a Pavia, a Mantova, a Salerno.
    Non solo ventilazione, dunque.
    Ma ovvio. Tutti i medici stanno sperimentando. Non è normale – ad esempio – che si usi l’Eparina? A me pare una cosa scontata. È perfetto accompagnare queste terapie farmacologiche nelle terapie intensive.

    Giulio Tarro, infettivologo di fama: napoletano, allievo prediletto di Albert Sabin (il padre del vaccino contro la poliomielite), virologo e primario emerito dell’ospedale Cotugno di Napoli. I suoi interventi in questi giorni sono diventati controcorrente rispetto alla linea scelta dal comitato medico-scientifico.
    Cosa ha capito di questa malattia?
    Ho capito che una malattia relativamente grave controllabile è fuggita dalla stalla.

    Chi ha affrontato meglio di tutti il Covid?
    Non mi piace dare giudizi frettolosi con una epidemia in corso. Ma non c’è dubbio che senza troppa enfasi, il modello isreaeliano abbia prodotto ottimi risultati.
    Ovvero?
    Tracciare il più possibili gli infetti, isolare gli anziani e far circolare il virus tra i più giovani.
    Ma i britannici e i danesi avevano provato qualcosa di simile, però non lo hanno portato fino in fondo.
    Lì credo che ci sia stato un grande errore di comunicazione: è una linea che si può sostenere senza enfasi e senza cinismo. Dire “preparatevi a salutare i vostri cari” non ha portato fortuna a Boris Johnson, ma soprattutto era un messaggio del tutto sbagliato.
    Lei cosa avrebbe detto?
    “Preparatevi a difendere i vostri cari. Soprattutto gli anziani”.

    Quale è secondo lei la prima misura per fermare il contagio?
    Lavarsi le mani. Indossare mascherine e guanti: quando sono venuti in Lombardia i cinesi sono rimasti stupiti che così pochi cittadini indossassero le mascherine. Si presta poca attenzione ai guanti. Ed è sbagliatissimo: il Coronavirus ha la sua porta di ingresso nella nostra bocca e nelle parti inferiori delle vie respiratorie.
    Quindi?
    Quindi tenere le mani protette. Disinfettare la bocca con un collutorio ma anche con ingredienti naturali come il bergamotto e i chiodi di garofano.
    E poi?
    Vedo che in tutto il mondo – a partire dalla Cina – si provvede a igienizzare gli spazi pubblici. Da noi non si fa.

    I numeri del contagio la spaventano?
    Io guardo con molta attenzione i numeri e cerco di interpretarli alla luce degli studi che sono già disponibili.
    Ad esempio?
    L’Istituto Superiore di Sanità ha studiato 909 casi di decesso, stabilendo che solo 19 morti sono ascrivibili unicamente al Covid. Quindi il primo problema sono le patologie concorrenti.
    E i dati cinesi?
    Sono stati controllati anche da Fauci, il superesperto della sanità americana.
    E questa percentuale torna?
    Su 1.092 pazienti, l’1 per cento è morto“solo” per il Covid. Questo non significa che dobbiamo ignorare le tantissime vittime italiane, ma che molti dei nostri dati devono essere letti meglio per circoscrivere le reali proporzioni dell’epidemia.
    Ad esempio?
    Nelle statistiche cinesi il 14 per cento dei deceduti avevamo malattie cardiovascolari, il 7 per cento erano diabetici, eccetera…

    La colpisce la differenza con altri paesi?
    Non è possibile che in Germania siamo al 3 per cento di mortalità e in Lombardia al 18,7 per cento. È matematicamente impossibile.
    E quale spiegazione immagina?
    Da noi i contagiati reali sono molti di più di quello che non dicano i tamponi. Solo che non li monitoriamo, per via del modo in cui facciamo i tamponi.
    È un dato falsato?
    È un dato parziale: bisognerebbe parlare di numero di contagiati per tamponi effettuati.
    Lo dice in modo induttivo?
    No, esiste uno studio su un caso particolare che però può essere preso a misura. Sul Corriere della Sera due ricercatori, Foresti e Cancelli, hanno usato come modello la Diamond Princess, la nave da crociera dove lo screening ha investito il 100 per cento della popolazione censibile.

    La Diamond, infatti figura come un paese nella classifica mondiale dei contagi.
    Quello è l’unico luogo al mondo dove le percentuali di contagio sono “giuste” perché tutti sono stati monitorati uno ad uno con i tamponi. Il classico caso di scuola.
    E cosa ne esce fuori?
    Se si proiettasse quel dato, a marzo nel periodo coevo, avremmo già in Italia 11 milioni e 200mila contagiati. Una enormità. Questo dato “reale” farebbe calare la percentuale di mortalità italiana. Perché se questa è la proporzione significa che il tasso di reale mortalità è più basso di quello apparente.

     

     

    Quindi lei dice: fine del lockdown subito?
    Il virus può essere controllato con le normali misure igieniche e con la diffusione degli anticorpi: la dimensione del contagio verrà abbattuta dal cambio di clima indotto dalla stagione estiva, anche al nord.
    Lo dice in via ipotetica?
    Il fattore climatico è senza dubbio fortissimo nella diffusione di questa epidemia.
    Lo spieghi.
    Come si fa a non vedere che i numeri del contagio scendono drasticamente al sud? Il mare, il sole hanno difeso una parte d’Italia dal contagio. Ma non solo dai noi, anche all’estero. L’Africa – tocchiamo ferro – per ora risulta pressoché indenne. Poi ci sono gli altri fattori.
    Quali?
    Il Coronavirus sembra aver colpito di più quelli che avevano fatto il vaccino anti-influenzale.
    Lei ha posizioni No-vax?
    Ma si figuri. Io ho scritto un libro sui vaccini! Io ho combattuto il colera, e ho vaccinato migliaia di persone, come le racconterò. Parlo di un vaccino, non dei vaccini.

    Da cosa trae la connessione?
    Questo che le cito è un dato che si reperisce facilmente in rete, non perché lo dica qualche complottista, ma uno studio dell’esercito americano.
    E come lo interpreta?
    La scienza deve essere basata sul metodo scientifico sperimentale: se un dato documentato emerge, deve essere considerato un valore per i dati che lo sostengono, non per i problemi che eventualmente crea.
    Perché secondo lei il mare avrebbe un effetto positivo?
    Lei hai mai visto gente con la sciarpa e il fazzoletto in spiaggia?
    No.
    Ecco: questo perché i virus influenzali con il mare soffrono. Il Covid, pur con la sua specificità e la sua virulenza appartiene a quella famiglia. E soffre. Perché fatica a diffondersi. Il virus si replica a temperature basse e umide. Accade per il rinovirus, e spero che accada anche per il Coronavirus.

    Lei crede all’idea di vaccinare per poter dare un accesso alle spiagge?
    Mi pare una follia. Ma non avendo il vaccino in tempi così brevi il tema non si potrà porre.
    Cosa ci insegnò l’epidemia di colera?
    L’errore di valutazione, anche lì. Inizialmente i pazienti non venivano idratati a sufficienza e morivano disidratati.
    E poi?
    Poi iniziammo a farlo, per fortuna, e la percentuale di mortalità crollò.
    E poi?
    La popolazione si mise in fila per le vaccinazioni, che furono effettuate, prevalentemente, con le pistole a siringa. Noi non le avevamo, ce le diedero gli americani.

    Ci sono altre analogie?
    All’inizio non avevamo il vaccino per tutti. Poi arrivarono e il contagio finì.
    Il contenimento funzionò?
    Dal 430 avanti Cristo con la peste di Atene, è il primo rimedio. Ma, come dice la parola stessa, è una misura contenitiva, che non può essere scambiata come una formula risolutiva di una epidemia.
    Come si trovò in quell’emergenza?
    Ero primario di virologia in America, lessi la notizia sul Corriere della Sera. Presi il primo aereo utile per tornare ad aiutare.

    Sapeva di rischiare?
    Arrivai a Fiumicino e chiesi di essere vaccinato appena messo piede a terra.
    E lo fecero?
    Sì, come avrebbero dovuto fare d’ufficio con tutti. Invece accettarono perché ero medico e mi raccomandarono: “Non lo dica a nessuno!”. Buffo no?
    E a Napoli?
    Ero l’unico che poteva entrare ed uscire dall’ospedale perché non ero nei registri al momento in cui l’epidemia esplose.
    E il paziente zero?
    Scoprimmo che il colera era sbarcato a Napoli con una partita di cozze tunisine. Ma quando si ritrovò il vibrione il paziente zero era già uno dei tanti morti nei nostri reparti.

    Era il 1973: riusciste a domare l’epidemia e diventaste eroi nazionali.
    Fecero mettere la mascherina al presidente Leone che ci venne a visitare al Cotugno. Una scelta grottesca, perché tutto il mondo sapeva che il colera non si trasmette per via respiratoria.
    Ma lei voleva fare il virologo da bambino?
    Io sono figlio di un anatomopatologo. Volevo fare il medico ma sono finito in laboratorio perché avevo un professore che aveva il pallino dei virus.
    E cosa fece?
    Fu lui che mi mandò da Sabin, cambiando, per fortuna, la mia vita. Ma ho fatto tante altre cose, compreso il medico di guardia in neurochirurgia.

    Quale è stata la prima lezione che ha imparato dal suo maestro, Albert Sabin?
    Massimo rigore in quello che si fa. Scrivere tutto. Soprattutto quello che ci pare irrilevante.
    E cosa si imparava?
    Che quando rileggi le note scritte, sistematicamente, trovi sempre qualcosa che nell’immediato non avevi capito. Non è facile.
    Perché?
    È una lezione di umiltà e sarà utile con il Coronavirus: non possiamo farci inibire dalle nostre convinzioni di partenza.
    Traduciamola in una massima.
    Da quello che scrivi, con il senno del poi, spesso capisci quello che hai fatto, e magari non avevi capito.

    Ha paura delle stroncature dell’Accademia?
    Ah ah ah. Francamente non me ne frega nulla. Mi hanno chiamato a curare Giovanni Paolo II, non mi posso certo far spaventare per i custodi del verbo.
    Quindi Fase 2?
    Bisogna aprire. Ma con intelligenza, con attenzione. Con buonsenso. Ma aprire.
    Cosa è cambiato rispetto a due mesi fa?
    Tutto. Prima non avevamo le mascherine: ma ormai siamo diventati produttori di mascherine.
    Anche in Lombardia?
    Con più vincoli, più limitazioni, più accortezze: ad esempio con l’avvertenza di non saturare i mezzi pubblici. Il problema non è il virus, ma le opportunità di contatto, che vanno abbattute con protezioni e sanificazioni.

     

     

    Servono regole eccezionali?
    Bisogna introdurre l’obbligo di guanti e mascherine, potremmo aprire anche lì.
    E poi?
    Bisogna stare all’aperto e non negli spazi chiusi. Questa potrebbe essere una soluzione vitale, ad esempio per la scuola. Sanificare le aule, ma non chiudere le scuole.
    E i suoi colleghi secondo cui sarebbe un rischio drammatico perché allentando il lockdown aumentano i contagi?
    Non so che dire di loro. Lo stanno facendo in tutto il mondo. Non chiedetevi perché da noi si faccia. Chiedetevi perché noi non lo facciamo mentre in tutto il resto del mondo si fa.

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