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La strana corrispondenza tra la classifica delle città più inquinate e i focolai del Coronavirus

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Credit: Ansa

Una delle tesi più suggestive e controverse sulla diffusione massiccia del Coronavirus in Lombardia tira in ballo l’inquinamento atmosferico e, in maniera più specifica, le emissioni di particolato da traffico automobilistico. Se ne è parlato molto nei giorni passati e il professor Lopalco ha commentato su Twitter: “L’inquinamento fa male, ma con Covid-19 ho paura che c’entri poco. Non pensate che l’aria fresca possa fermareil contagio: il virus corre con le nostre gambe, non con iPM10”. Ma ha davvero senso ipotizzare un legame tr apolveri sottili, tra concentrazioni di PM10 e la diffusionedel Covid?

S&D

Va detto che la tesi è suggerita dal Sima (Società italiana di medicina ambientale), non proprio da uno youtuber che gira per le vie di Tokyo spiegando al mondo che lì stanno tutti bene perché l’aria profuma di eucalipto. Però, come sottolineato dal Sole 24 ore, quella del Sima non è una pubblicazione scientifica perché non ne possiede tutti i parametri, bensì un accurato studio sulla letteratura scientifica relativa alla diffusione di altri virus, tra cui quello della Sars. Secondo questo studio, il particolato sospeso in aria non precipita al suolo e i virus vi si attaccano con un processo di coagulazione, rimanendo vitali per un tempo indefinito (si arriva a ipotizzare anche per giorni).

Dunque, qual era il livello di inquinamento nelle zone focolaio a febbraio, periodo di maggiore incubazione del virus? In effetti, il superamento dei limiti di legge delle concentrazioni di PM10 tra il 10 e il 29 febbraio, è stato piuttosto preoccupante (così come a Wuhan, sebbene il tasso di inquinamento in molte altre metropoli cinesi sia elevato). Anche il meteo, in quella zone, avrebbe una sua rilevanza: le temperature umide e la scarsità di pioggia favoriscono l’inquinamento, e sicuramente nella pianur apadana c’è un elevato tasso di umidità. C’è poi una sinistra coincidenza tra gli ultimi dati di Legambiente sulle città italiane più inquinate e la diffusione del Coronavirus. Le città più inquinate risultano essere, nell’ordine: Brescia, Lodi, Monza, Venezia, Alessandria, Milano, Torino, Padova, Bergamo, Cremona, Rovigo, Modena e Treviso.

Ad eccezione di Torino e Rovigo, tutte queste province e comuni limitrofi sono stati considerati tra i più importanti focolai del Coronavirus nel nord (anche Modena, Alessandria, Venezia e Treviso che non sono in Lombardia, furono chiuse nel decreto provvisorio che rendeva zone rosse 14 province d’Italia). Potrebbe essere una coincidenza, certo, ma è sicuramente un dato interessante. Città come Brescia e Lodi sono anche quelle con i più alti tassi di incidenza di malattie tumorali di tutta Italia e, nel bergamasco, le zone in cui le persone si ammalano di più di tumore sono proprio i comuni della Val Seriana (pcb e diossine avrebbero un ruolo decisivo).

Il dottor Giuseppe Imbalzano, ex direttore delle Asl lombarde, nel libro “La fiera delle sanità “ di Daniela Minerva, racconta di aver riflettuto a lungo sul perché a Lodi ci sia un così alto tasso di tumori da farle guadagnare la maglia nera d’Italia. E cita un tema scomodato da molti commentatori, nell’ultimo mese, anche sulla famosa “indole stakanovista” dei lavoratori di queste zone di Italia: “I dati della nostra provincia sono la chiave per capire lo svantaggio di tutto il Nordovest. Un’ampia fascia agricola che ha il peggiore dei climi possibili: nebbia nove mesi l’anno, umidità e conseguente ristagno degli inquinanti che precipitano al suolo. Una popolazione che si alza alle 4 del mattino per andare in campagna. Spreme la terra e gli animali senza l’attenzione alla propria salute che ha la gente di città. Piccoli imprenditori di provincia che, come i contadini, lavorano prevalentemente in modo autonomo e non perdono facilmente giornate di lavoro per un esame o un controllo”.

Certo, qui si parlava dell’incidenza dell’inquinamento, del clima e dello stile di vita sui tumori nel lodigiano e province limitrofe, ma alla luce di queste considerazioni, vale la pena citare un recente articolo del Washington Post secondo il quale le polveri inquinanti finiscono nei “macrofagi alveolari”, non riuscendo più a“lavorare bene” soprattutto quando insorgono malattie. Dunque, che l’inquinamento possa essere stato un“vettore” per la diffusione del Coronavirus è opinabile, ma che nelle zone della Lombardia più inquinate possa rappresentare un fattore di indebolimento delle vie respiratorie, è un’amara certezza. Non determinante, forse,  ma di sicuro incidente.

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