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Crisi alimentare, scontri etnici e transumanza: la “questione Fulani” preoccupa il Sahel

Immagine di copertina

Da mesi si verificano violenze etniche nella fascia che unisce il Sahara alle pianure meridionali africane, con migliaia di morti e centinaia di migliaia di sfollati. Quali sono le cause e gli effetti della "questione Fulani" nella regione?

In Africa centro-settentrionale esiste una comunità protagonista di scontri e violenze compiute su e subite da altri gruppi etnici dell’area, in particolare in Nigeria, Mali, Niger e Burkina Faso. Si tratta della comunità Fulani, in gran parte composta da fedeli musulmani sunniti dediti alla pastorizia, protagonisti degli scontri inter-comunitari che negli ultimi anni hanno provocato migliaia di vittime e di sfollati.

Questo popolo, conosciuto come Peul in Africa occidentale, è stanziato in gran parte della fascia che lega il deserto del Sahara alle pianure meridionali, dal Sudan a est fino al confine tra Mauritania e Senegal a ovest. Diverse aree di questa zona sono dedicate alla pastorizia, ma l’erosione e l’avanzamento del deserto, insieme all’insurrezione di gruppi terroristici come Boko Haram nella regione del lago Ciad, hanno diminuito la disponibilità di pascoli, obbligando i pastori a migrare a sud, provocando così dispute sulla terra con altre comunità composte prevalentemente da contadini. Gli scontri tra queste comunità hanno provocato migliaia di morti negli ultimi anni e continuano a moltiplicarsi, soprattutto in Africa occidentale.

Chi sono e dove si trovano i Fulani?

Conosciuti in tutto il continente come Fula, Fulani o Fulbe, dall’anglicizzazione della parola usata dalla comunità stessa per identificare i propri componenti, questo gruppo etnico è stanziato prevalentemente in Africa nord occidentale, ma anche nel centro del continente e in Sudan.

I paesi che vedono una presenza più o meno numerosa di questa comunità sono: Mauritania, Senegal, Guinea, Gambia, Mali, Nigeria, Sierra Leone, Benin, Burkina Faso, Ciad, Guinea-Bissau, Camerun, Costa d’Avorio, Niger, Togo, Repubblica Centrafricana, Ghana e Sudan.

Questo gruppo etnico parla in gran parte la stessa lingua, ma non è una comunità monolitica con usi e costumi unici e indipendenti dal resto delle popolazioni che abitano le aree in cui sono stanziati. Il nome stesso della comunità ne rivela l’ampia diffusione geografica e i contatti con popolazioni diverse. Esistono infatti diversi nomi e grafie per riferirsi a questo gruppo.

Il termine anglofono Fulani è preso in prestito dalla lingua Hausa, diffusa soprattutto in Nigeria del Nord e Niger, ma anche in Benin, Burkina Faso, Camerun, Ciad, Congo, Eritrea, Ghana, Sudan, Senegal e Togo. La parola Fula viene invece dal gruppo linguistico mandingo, diffuso in tutta l’Africa occidentale, ed è talvolta trascritto e pronunciato come Fulah o Foulah.

 

Distribuzione dei Fulani in Africa

Nella foto: la distribuzione della comunità Fulani in Africa (mappa elaborata sulla base dei dati raccolti da George Peter Murdoch)

Nei paesi francofoni la comunità è invece nota come Peul, dal termine Pël della lingua Wolof, parlata sopratutto in Senegal. Questo termine è trascritto in vari modi: Peul, Peulh e Peuhl. In portoghese ci si riferisce a questo gruppo etnico come Fula o Futafula.

La comunità identifica invece se stessa come Fulɓe (dove la lettera -b è pronunciata schioccando le labbra come in un bacio), forma maschile plurale del sostantivo Pullo, che indica una persona di etnia Fulani. La lingua della comunità è nota invece come Fulfulde o Pulaar. La varietà di questo gruppo etnico non si limita ai suoi nomi, ma è testimoniata anche dalla sua storia.

I Fulani erano originariamente un popolo nomade, una condizione testimoniata dall’ancora attuale prevalenza dell’attività agro-pastorale nei sottogruppi che compongono questa etnia. Per questo i bisogni della comunità sono sempre stati dominati da quelli delle loro mandrie, abituate a spostarsi verso i pascoli delle pianure. Questo ha porto all’interazione con altri gruppi che ha talvolta provocato “un considerevole livello di assorbimento culturale”.

E’ questo il caso nel nord della Nigeria, in particolare degli stati del Borno e di Sokoto, dove quasi metà della comunità ha adottato la lingua e la cultura Hausa e dove, come risultato di una serie di conflitti religiosi combattuti agli inizi del XIX secolo, le due etnie stabilirono un impero comune governato da un’aristocrazia dominante. Questa nuova classe sociale governava anche un altro stato, situato nell’area di Jukun, nell’attuale stato federato nigeriano del Benue.

Un altro fattore determinante nella varietà di questo gruppo sono le sue numerose ramificazioni. Questa comunità comprende infatti diversi sottogruppi, come i Tukolor, o Toucouleur in francese, stanziati al centro della valle attraversata dal fiume Senegal. Questo gruppo è conosciuto come Haalpulaar’en, un termine che significa letteralmente “coloro che parlano la lingua Pulaar”. In Mali sono poi presenti comunità miste i cui componenti non etnicamente Fula sono noti come yimɓe pulaaku, letteralmente “persone dalla cultura Fula”. Anche il popolo Wodaabe, composto da genti nomadi che vivono prevalentemente in Africa centrale, è un sottogruppo dei Fulani. Questa comunità è nota anche come Mbororo, un termine spregiativo della stessa lingua Pulaar che si traduce come “Bovini Fulani” o meglio “quelli che abitano nei campi di bestiame”.

La crisi ambientale e alimentare nel Sahel fomenta gli scontri etnici

Gli spostamenti dovuti alla transumanza e le conseguenti dispute e i contatti, non sempre violenti, con altre comunità hanno portato i Fulani in tutta l’Africa occidentale, un’area fortemente colpita da una drammatica crisi alimentare, dovuta in parte al cambiamento climatico, e che sta acuendo il livello dello scontro etnico.

A novembre, il Fondo per l’Infanzia delle Nazioni Unite (Unicef) ha denunciato la grave malnutrizione in cui vivono nel Sahel oltre un milione e 300 mila bambini al di sotto dei cinque anni di età. Si tratta del numero più alto mai registrato negli ultimi dieci anni in Burkina Faso, Ciad, Mali, Mauritania, Niger e Senegal, mentre queste cifre rappresentano un aumento del 50 per cento rispetto al 2017. Secondo l’Organizzazione delle Nazioni Unite per l’alimentazione e l’agricoltura (FAO), oltre sei milioni di persone hanno sofferto la fame in quest’area nel 2018.

Il direttore regionale del World Food Programme (WFP) per l’Africa occidentale e centrale, Abdou Dieng, ha denunciato la grave malnutrizione di 1,6 milioni di minori e di 2,5 milioni di pastori dell’area. Le zone dedicate all’allevamento nella Mauritania meridionale, nel nord del Senegal e in diverse aree del Burkina Faso, del Mali, del Niger e del Ciad hanno infatti registrato precipitazioni minime nel 2017, che hanno colpito gli allevamenti di bestiame e le colture locali. Secondo le Nazioni Unite, la siccità, l’aumento vertiginoso dei prezzi dei prodotti alimentari e il rischio di conflitti hanno fatto precipitare milioni di persone nella fame e nella malnutrizione in diverse parti del Sahel. La situazione appare molto più grave considerando che, secondo le stime del Fondo delle Nazioni Unite per la popolazione (UNFPA), gli abitanti dell’area sono destinati a raddoppiare entro il 2050.

L’organizzazione International Alert, che si occupa di prevenzione e risoluzione di conflitti, ha rilevato come l’origine delle dispute etniche in corso nel Sahel tra comunità di contadini e pastori, diffusesi negli ultimi anni in tutta la fascia che lega il deserto del Sahara alle pianure meridionali, trovi in primis la propria giustificazione nell’incapacità degli stati della regione di garantire la sicurezza, risolvere le dispute sulle terre e fornire servizi pubblici di base alle popolazioni locali.

Secondo un rapporto pubblicato a giugno dall’organizzazione, la radicalizzazione, anche religiosa, dello scontro è legata in gran parte ad “abusi da parte dello stato e alla corruzione diffusa”, che appaiono infatti “come i principali fattori scatenanti per l’insurrezione dei gruppi armati composti da giovani Fulani”.

A inizio novembre, tre dei maggiori comandanti di gruppi terroristici attivi nel Sahel si sono rivolti proprio a questa comunità in un filmato di propaganda pubblicato sui canali social frequentati dai jihadisti di tutta l’Africa occidentale. In questo video, un predicatore radicale ucciso lo scorso mese dalle truppe francesi in Mali invita i Fulani residenti nei paesi del Sahel e in Camerun a “unirsi alla jihad”, denunciando gli attacchi “ingiustificati” contro questa comunità.

I due paesi che registrano gli scontri più violenti restano però il Mali e la Nigeria, vittime entrambi della violenza dei gruppi terroristici armati che ne sconvolgono vaste aree, soprattutto al confine tra il deserto del Sahara e le pianure agricole.

Gli scontri in Mali vedono protagonisti i pastori Peul (Fulani), soprattutto come vittime

Nell’ultimo anno si sono contati più attacchi ai civili nel Mali centrale, dove si verificano spesso scontri etnici, rispetto alle cinque regioni settentrionali del paese africano messe insieme, dove la maggior parte delle violenze sono compiute dai gruppi jihadisti attivi nel Sahel. Tuttavia terrorismo e scontri inter-comunitari non sono fenomeni indipendenti l’uno dall’altro.

In queste regioni sono nati due gruppi armati “di autodifesa” quest’anno: il “Dana Amassagou”, composto da agricoltori di etnia Dogon, e la “Alleanza per la salvezza del Sahel”, composta da combattenti Fulani, attiva anche oltre il confine con il Burkina Faso. A fine agosto, i due gruppi avevano raggiunto un accordo nella zona di Koro, nella regione di Mopti, che aveva portato a una diminuzione degli scontri, che tuttavia sono ripresi nelle ultime settimane.

In un rapporto congiunto pubblicato a novembre, la Federazione internazionale dei diritti umani (FIDH) e l’Associazione maliana dei diritti umani (AMDH) hanno denunciato come negli ultimi due anni, oltre 1.200 civili siano stati uccisi, circa 50 villaggi siano stati bruciati e più di 30mila persone siano state costrette a fuggire dalle violenze in corso nel centro del paese. Quasi il 77 per cento di questi episodi violenti si è verificato nella sola regione di Mopti, teatro di scontri tra allevatori Fulani e contadini delle comunità Dogon e Dozo.

Secondo le Forze armate del Mali (FAMA), negli ultimi mesi gli scontri etnici “si sono moltiplicati” nel centro del paese. A dicembre, le autorità militari maliane hanno ammesso per la prima volta un attacco compiuto da miliziani armati Dogon contro un villaggio Fulani, mentre residenti e associazioni locali accusano il governo di sostenere queste milizie.

A giugno, le autorità di Bamako hanno rinvenuto tre fosse comuni contenenti 25 corpi, appartenenti a persone di etnia Fulani. Le vittime provenivano dalle città di Nantaka e Kobaka, non lontane da Mopti, oltre il fiume Niger. Diverse associazioni locali e internazionali hanno accusato l’esercito maliano di essere responsabile dell’eccidio, avvenuto il 13 giugno.

Secondo le Nazioni Unite, le popolazioni di questa parte del Mali vivono una drammatica crisi a causa della mancanza di cibo. Almeno 2,5 milioni di persone sono a rischio insicurezza alimentare nel paese africano, tra cui 185mila in vera e propria emergenza. Nelle regioni di Segou e Mopti, teatro degli ultimi scontri etnici, rispettivamente l’11,2 e l’8,9 per cento della popolazione soffre per la mancanza di cibo. Inoltre, 466 delle 706 scuole chiuse a causa degli scontri etnici e degli attentati si trovano in queste due aree.

Secondo uno studio dell’ong internazionale Armed Conflict Location & Event Data Project (ACLED), le violenze nel centro del paese si sono intensificate a seguito delle elezioni presidenziali vinte a luglio dal capo dello stato Ibrahim Boubacar Keita e contestate dall’opposizione. Mentre le violenze attribuite ai gruppi armati Fulani sono rimaste percentualmente stabili tra febbraio e ottobre, senza alcun attacco segnalato a luglio, gli scontri provocati dalle milizie di etnia Dogon e Dozo, composte prevalentemente da agricoltori, hanno visto un’impennata a partire da giugno. I gruppi armati più attivi sono quelli di etnia Dozo, che soltanto a ottobre si sono resi responsabili dell’80 per cento delle violenze provocate nel centro del Mali, la maggior parte delle quali hanno visto come vittime civili di etnia Fulani (Peul).

Le Nazioni Unite hanno rivelato che gli almeno 58 attacchi compiuti da cacciatori tradizionali di etnia Dozo ai danni della comunità Fulani (Peul) hanno provocato la morte di 195 persone dall’inizio dell’anno. Secondo un rapporto congiunto pubblicato dalla missione delle Nazioni Unite in Mali (Minusma) e dall’ufficio dell’Alto commissariato dell’Onu nel paese africano, un gruppo armato formato da cacciatori Dozo è responsabile del massacro di 24 civili Peul compiuto il 13 giugno presso il villaggio di Koumaga,  vicino a Djenné, nel centro del Mali. Alla fine del massacro, 24 civili furono uccisi e sepolti in una fossa comune, mentre il villaggio fu saccheggiato. Secondo il rapporto, i residenti allertarono le forze armate maliane, situate a 18 chilometri dal villaggio, ma queste non arrivarono prima di 10 ore.

Anche le forze di sicurezza del paese africano hanno subito perdite in questi scontri. Almeno tre soldati del Mali sono morti e altri cinque sono rimasti feriti a fine novembre a seguito di un’operazione condotta nel centro del paese africano contro una milizia di cacciatori di etnia Dogon nella località di Bankass, dove giovedì 13 dicembre i militari di Bamako hanno arrestato quattro miliziani responsabili di violenze ai danni di civili Fulani (Peul).

Gli scontri etnici coinvolgono anche il nord e il nord est del paese africano, teatro dal 2012 di un’insurrezione armata di gruppi jihadisti. La rivolta ha visto protagonista la comunità Tuareg, che sin dagli anni Novanta si oppone sistematicamente al governo centrale. Dopo essere entrati in possesso di numerose armi grazie al conflitto in Libia, nel 2011 alcuni gruppi armati Tuareg diedero il via a una ribellione nella parte settentrionale del paese, sostenuta anche da diverse milizie legate ad al-Qaeda.

Nel giugno del 2012 questa coalizione prese il controllo di alcune delle principali città del Mali, imponendovi la legge islamica, la Sharia. Nel 2013, quando la rivolta si stava avvicinando minacciosamente alla capitale Bamako, il governo chiese aiuto alla Francia che diede il via all’operazione Barkhane, tuttora in corso, che vede impegnati oltre 4.000 soldati transalpini. Circa 12mila caschi blu dell’Onu furono poi schierati in diverse aree del nord del paese. Tra maggio e giugno del 2015 i ribelli del nord del Mali, riuniti nel gruppo Coordinazione dei movimenti dell’Azawad (CMA), firmarono poi un accordo di pace con il governo, che però non ha posto fine alle violenze né alle dispute etniche.

Secondo un rapporto dell’International Crisis Group (ICG), durante l’insurrezione del 2012 centinaia di giovani Fulani si unirono a questi gruppi, “più per opportunismo che per affinità ideologiche” e soprattutto “per ottenere armi al fine di proteggere la propria comunità dalle altre”. Uno dei problemi affrontati da Mali e Niger per risolvere la crisi in corso da allora riguarda proprio il ruolo degli “autoproclamati rappresentanti delle comunità Fulani” a cavallo del confine con il Niger, che “competono per il ruolo di mediatori e non sono d’accordo su come smobilitare i giovani che hanno aderito ai gruppi armati”.

Intanto, centinaia di persone, in gran parte civili appartenenti alle comunità Fulani (Peul) e Tuareg,  sono state uccise nel nord est del Mali dall’inizio dell’anno. Tra settembre e ottobre furono decine i civili tuareg uccisi in questa zona, mentre almeno una quarantina di membri di questa comunità sono morti in un attacco condotto da gruppi jihadisti a dicembre.

Diversi gruppi di pastori Fulani stanziati in Niger hanno denunciato le incursioni e gli abusi commessi da due milizie tuareg provenienti dal Mali e alleate di Bamako nella lotta ai gruppi terroristici attivi nel Sahel. In un’intervista rilasciata a maggio a Radio France Internationale, Aboubakar Diallo, presidente del Consiglio degli allevatori Peul in Niger, accusò le milizie tuareg MSA e Gatia di condurre violenze contro i civili Fulani. Diallo denunciò allora la cooperazione tra le autorità di Niamey, la forza anti-terrorismo francese Barkhane e queste milizie che, con il pretesto di “individuare i terroristi dello Stato Islamico”, commettono “abusi” contro la popolazione Fulani.

Questi scontri hanno provocato almeno 52mila sfollati in Niger. Secondo l’Alto commissariato delle Nazioni Unite per i rifugiati (Unhcr), l’area al confine tra Mali, Niger e Burkina Faso è infatti teatro di “violenze orribili” commesse da “gruppi armati che uccidono, rapiscono civili” e “bruciano scuole e saccheggiano case, imprese e bestiame” e “impediscono” la distribuzione degli aiuti “a tutte le persone bisognose”, mentre la “situazione risulta allarmante ed estremamente instabile”. Qui, in un mese, il numero di sfollati è aumentato di 10mila persone, che fuggono da “minacce di gruppi armati non statali” o “effetti” di misure di sicurezza volte a frenare le “ricorrenti infiltrazioni terroristiche”.

In Nigeria il conflitto rischia di prendere una connotazione religiosa

Mentre gli scontri etnici che coinvolgono la comunità Fulani tra Mali, Niger e Burkina Faso hanno una connotazione prevalentemente legata al controllo delle terre, delle piste nel deserto e delle scarse risorse delle aree da loro abitate, in Nigeria il conflitto rischia di prendere una piega religiosa.

Anche in questo paese, centinaia di giovani Fulani si sono uniti ai gruppi armati jihadisti attivi nel nord est, in particolare al gruppo terroristico Boko Haram, anche in questo caso più per l’esigenza di garantire una forma di protezione agli interessi della propria comunità e per rivolta contro il governo centrale che per affiliazione ideologica.

Secondo l’ong cristiana Open Doors, i gruppi armati composti da membri di questa etnia hanno sfruttato l’insurrezione per regolare i conti con le comunità di agricoltori, prevalentemente cristiani, stanziate nelle pianure a sud del Sahara. L’organizzazione non governativa nigeriana Società Internazionale per le Libertà Civili e per la Legge (Intersociety) sostiene che un totale di duemila agricoltori cristiani siano stati uccisi in Nigeria nel 2018, sia dai gruppi armati Fulani, sia dai terroristi di Boko Haram.

Gli scontri sono fomentati sui social da seminatori di odio come Idris Ahmed, direttore di un’organizzazione nota come Citizens United for Peace and Stability, con sede a Londra. Secondo  un’inchiesta della BBC, la stessa polizia nigeriana è convinta che diversi scontri etnici avvenuti nel paese siano legati alla diffusione di fake news su Facebook.

A luglio, l’inviato speciale del segretario generale delle Nazioni Unite per l’Africa occidentale e il Sahel, Mohamed Ibn Chambas, denunciò la “crescente minaccia per la sicurezza nella regione” in modo particolare negli stati di Benue, Plateau, Nasarawa, Taraba e Adamawa. “La violenza tra agricoltori e pastori è sempre più una delle principali minacce alla sicurezza nella regione e rischia di trasformarsi in attacchi terroristici”, disse allora il diplomatico. “I conflitti tra coltivatori e pastori stanno diventando sempre più sofisticati e mortali, specialmente nella fascia centrale della Nigeria”.

Negli ultimi 3 anni infatti, dal giugno 2015, diversi gruppi di pastori armati hanno ucciso oltre novemila persone, per lo più di religione diversa da quella islamica. Secondo l’Agenzia di gestione delle emergenze (SEMA) dello stato federato di Plateau, nel centro del paese africano, almeno 38.051 sfollati interni sono ospitati in 31 campi profughi allestiti a seguito di queste violenze.

Secondo il Global Terrorism Index 2018, in Nigeria gli scontri etnici fanno più vittime degli attentati jihadisti. Il rapporto rivela che i gruppi armati di pastori Fulani sono la principale minaccia alla sicurezza della Nigeria, seguiti dal gruppo terroristico Boko Haram e dalle milizie di contadini cristiani della comunità Bachama.

Dopo l’Iraq e l’Afghanistan che occupano la prima e la seconda posizione rispettivamente dal 2014 e dal 2013, la Nigeria resta la terza nazione del mondo per numero di attacchi, seguita da Siria e Pakistan, che occupano la quarta e la quinta posizione. Tra i 20 attentati più letali degli ultimi anni, due si sono verificati in Nigeria: uno avvenuto il 20 marzo 2017 nello stato del Benue, quando alcuni miliziani di gruppi armati di pastori di etnia Fulani hanno aperto il fuoco su un mercato a Zaki Ibiam, provocando la morte di 73 civili; mentre il secondo è accaduto il 25 luglio dello scorso anno quando alcuni jihadisti di Boko Haram attaccarono un convoglio di una società di servizi di esplorazione, causando la morte di 60 persone.

La pericolosità dei gruppi di pastori armati Fulani è testimoniata anche da una sorprendente intervista rilasciata dal comandante di una di queste milizie. A luglio, il comandante di una milizia armata di pastori nigeriani di etnia Fulani, Jauro Buba, nome di battaglia Sarkin Yaki, che guida un gruppo armato attivo nello stato nord orientale di Adamawa, rivelò al giornalista nigeriano Ahmad Salkida, uno dei massimi esperti di terrorismo del paese africano, che le formazioni responsabili delle violenze inter-etniche nel paese africano hanno a disposizione “mitragliatrici, bombe a mano e uniformi militari”.

Jauro Buba arrivò a spiegare persino la genesi, quasi leggendaria, delle violenze tra pastori e contadini in Nigeria. “Mentre un pastore pregava, alcune delle sue mucche entrarono nel campo di un contadino vicino”, raccontò il miliziano. “I contadini allora scacciarono le mucche e attaccarono il pastore Fulani mentre questi stava ancora pregando”. Secondo Buba, l’uomo “possedeva un incantesimo che lo proteggeva dalla morte”. “L’uomo Fulani ha combattuto con gli assalitori e ne ha accoltellato uno a morte”, ha spiegato il comandante della milizia armata. “Il giorno seguente, la vicina comunità di Fulani è stata attaccata, uccidendo e bruciando il villaggio”. Il comandante del gruppo armato non specificò in quale comunità fosse avvenuto questo episodio, né in quale data, ma lo identificò come l’origine delle violenze.

Il miliziano attribuì all’esercito nigeriano la responsabilità delle violenze in corso, per non aver protetto le comunità di pastori Fulani. Buba accusò la comunità cristiana Bachama di voler espellere dall’Adamawa e dal paese tutti i Fulani e i musulmani, uccidendo “bambini e donne Fulani a colpi d’arma da fuoco”, bruciandone “case e proprietà” e “rubando o uccidendone le mucche”.

Un rapporto pubblicato a dicembre da Amnesty International accusa proprio le autorità locali della Nigeria di non essere state in grado di impedire l’uccisione di almeno 3.641 persone morte negli ultimi anni a causa delle violenze tra pastori di etnia Fulani e agricoltori cristiani.

Basato su 262 interviste e 230 documenti raccolti tra il 2016 e l’ottobre 2018, il rapporto afferma che il 57 per cento delle vittime è stato registrato quest’anno. Il documento accusa il governo nigeriano di non adempiere ai propri “obblighi costituzionali” riguardo “la protezione delle vite e delle proprietà” dei propri cittadini. Di conseguenza, le forze armate nigeriane hanno chiesto la chiusura degli uffici di Amnesty International nel paese africano, sostenendo che ci sono prove credibili che l’organizzazione stia lavorando per destabilizzare il paese.

Il governo di Abuja e quelli statali hanno più volte lanciato programmi di intervento per risolvere la questione, mentre il conflitto non si limita ai soli scontri etnici. Diversi gruppi armati Fulani sono infatti sospettati di essere responsabili di alcuni sequestri a scopo di estorsione avvenuti questo mese nello stato federato nigeriano di Ondo. I gruppi armati sono soliti usare tecniche criminali per finanziare il proprio riarmo.

A giugno, il governo di Abuja ha presentato un piano in sei punti per mettere fine alle violenze, che prevede anche la chiusura delle frontiere per impedire a “elementi criminali” di entrare in Nigeria e affiliarsi ai gruppi armati. Questa iniziativa non ha però sortito ancora effetti tangibili. Intanto, quest’anno la conferenza episcopale del paese ha chiesto per ben due volte al presidente Muhammadu Buhari di rassegnare le dimissioni per non essere stato in grado di fermare gli scontri. E’ possibile che la questione influenzi la contesa elettorale prevista a febbraio nel paese africano, quando l’attuale capo di stato cercherà di essere rieletto per un secondo mandato.

Quali prospettive per la regione?

Secondo il Global Terrorism Index 2018, le vittime dei gruppi armati Fulani sono in aumento in Nigeria. “Solo nel 2018, i morti attribuiti agli estremisti Fulani sono stimati essere sei volte superiori al numero di vittime di Boko Haram”, si legge nel rapporto.

La stessa fonte sostiene che i miliziani dei gruppi armati della comunità Bachama, prevalentemente cristiani, ma stanziati nel solo stato di Adamawa, hanno compiuto quattro attentati nel 2017, che hanno provocato almeno 30 morti e che anche queste violenze sono in aumento.

Secondo la valutazione economica dell’Istituto per gli studi economici e la pace, l’anno scorso queste violenze sono costate alla Nigeria l’11 per cento del Pil, mentre hanno causato una perdita del 12 per cento del Pil al Mali.

Gli stati della regione percepiscono il problema, ma non hanno ancora trovato una soluzione applicabile. A fine novembre, si è tenuta a Cotonou, in Benin, la quinta edizione del meeting regionale di alto livello per la transumanza transfrontaliera, che ha visto la partecipazione di operatori del settore dell’allevamento ed esperti, anche di sicurezza, di tutti i paesi della Comunità economica degli Stati dell’Africa occidentale (ECOWAS-CEDEAO) e del Ciad.

Secondo il ministro dell’Agricoltura, della Pesca e dell’Allevamento del Benin, Gaston Cossi Dossouhoui, “la posta in gioco legata alla transumanza e alla mobilità del bestiame oltre frontiera sta diventando sempre più una preoccupazione per l’ECOWAS”, visto che “la recrudescenza dei conflitti tra contadini e allevatori crea una maggiore mobilità a livello regionale e internazionale”. Tuttavia, nonostante questi buoni propositi, il summit si è concluso senza alcuna proposta concreta.

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