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Quanto è sicuro guidare in autostrada in Italia: 8 domande e risposte

Immagine di copertina
Il ponte Morandi di Genova, crollato il 14 agosto. Credits: AFP/Getty Images

Dopo i disastri sulle strade di di Bologna e Genova, TPI ha intervistato Giuseppe Cantisani, ingegnere civile e docente di Infrastrutture di viabilità e trasporto alla Sapienza 

Attorno alle 11.30 del 14 agosto 2018 è crollato il ponte Morandi, su cui corre il tratto terminale dell’autostrada A10, a Genova. I morti accertati sono 35 e il numero è destinato ad aumentare: secondo la Protezione civile al momento del crollo del ponte erano in transito sulla struttura una trentina di veicoli e tre mezzi pesanti.

Il ponte era stato costruito tra il 1963 e il 1967 dalla Società Italiana per Condotte d’Acqua.

Si tratta del secondo incedente grave avvenuto su una grande strada italiana negli ultimi dieci giorni: l’8 agosto, infatti, un maxi incendio in tangenziale vicino a Bologna ha causato un morto e 145 feriti.

Sebbene quello di Bologna, causato a quanto pare da un’errore umano, non sia ovviamente paragonabile al crollo del ponte Morandi di Bologna, è naturale inquietarsi rispetto alla sicurezza effettiva del nostro sistema stradale e autostradale.

In quale stato sono le grandi opere che ci permettono ogni giorno di spostarci in Italia? Dobbiamo aspettarci altre tragedie come quella di Genova?

TPI ne ha discusso con il professor Giuseppe Cantisani, ingegnere civile e docente di Infrastrutture di viabilità e trasporto alla Facoltà di Ingegneria Civile e Industriale della Sapienza.

Alla luce dei due incidenti gravi sulle autostrade italiane negli ultimi dieci giorni – sebbene con modalità e ragione diverse – quanto si devono ritenere pericolose le autostrade italiane oggi?

Sicuramente ci sono alcune opere molto datate che richiederebbero un’attenta valutazione della loro consistenza e della capacità, oggi, di sopportare i carichi ordinari o eccezionali.

Questo in parte viene fatto, ma la situazione è molto differenziata: ci sono delle reti autostradali più seguite e monitorate, mentre in generale sulle strade di livello inferiore ci sono minori possibilità, minori risorse.

Ci sono tante opere ormai molto “anziane”. E quindi sarebbe necessario uno sforzo straordinario per conoscere meglio lo stato di manutenzione ed efficienza di queste opere e comprenderne le esigenze di ripristino.

Al momento quanto si sta lavorando per mantenerle monitorate ed eventualmente metterle in sicurezza?

È molto diverso a seconda del livello della rete e dei gestori. Ci sono gestori più attenti e più dotati di risorse economiche, tecniche, umane, professionali e che quindi fanno uno sforzo maggiore e altri gestori che hanno invece più difficoltà.

L’incidente di Genova è un po’ singolare, perché appartiene a una rete in concessione: in genere le concessionarie autostradali hanno anche delle maggiori opportunità e possibilità.

Ma in questa situazione non si può dire nulla perché ovviamente bisogna ancora approfondire. Per quel che si è saputo subito, c’erano in corso dei lavori di manutenzione, quindi bisognerà capire anche se questo ha avuto una sua incidenza.

Ma, escludendo questo caso singolare, diciamo che in genere dipende molto dal livello della rete e dalla capacità tecnica e economica dei gestori.

Nel complesso la situazione dal mio punto di vista non è affatto rassicurante: ci sono soprattutto sulla viabilità ordinaria – quindi non le autostrade ma le statali, le regionali e le provinciali – tantissime strade di cui si sa poco: non se ne conosce lo stato di efficienza.

Dal punto di vista delle politiche cosa bisognerebbe fare?

Penso che bisognerebbe fare una riflessione molto profonda sul fatto che noi stiamo usando delle reti di infrastrutture costruite ormai quaranta, cinquanta, sessant’anni fa o ancora prima – parlo sia delle strade che delle ferrovie – e che queste opere hanno una vita utile che si sta concludendo.

Bisognerebbe fare uno sforzo di manutenzione straordinaria ma anche di ricostruzione, in molti casi. Ci sono opere che vanno ricostruite.

Mi pare, però, che ci sia una difficoltà a comprendere l’importanza delle infrastrutture dal punto di vista delle esigenze della vita moderna.

C’è una forte opposizione a qualsiasi cosa che abbia a che fare con le costruzioni, l’ingegneria, le opere sul territorio. Una scarsità di risorse economiche disponibili per queste finalità, ma anche una scarsa percezione dell’urgenza di fare un’azione di ricostruzione del patrimonio tecnico.

Quanto “vive”, in genere, un’opera come un ponte o un’autostrada?

Il ponte di Genova è un po’ particolare perché è un’opera abbastanza avveniristica per il tempo in cui fu costruita, quindi lì c’è una delicatezza specifica.

Ma in generale un’opera di ingegneria civile ha una durata di vita tecnica utile di alcune decine d’anni: dai cinquanta ai cento anni, ovviamente con delle specificità che dipendono sia dall’opera che dal contesto in cui essa è collocata – il contesto ambientale e territoriale, quindi l’esposizione alle azioni aggressive che provocano un degrado della struttura – sia dal traffico e dai carichi che deve subire.

È un problema solo italiano?

È un problema molto diffuso anche negli altri Paesi. Però, sia negli Stati Uniti che in Germania questo tema è stato molto al centro del dibattito pubblico nelle più recenti elezioni, perché si sta prendendo consapevolezza della necessità di fare un grosso investimento nelle infrastrutture di viabilità.

In Italia, invece, c’è un problema di presa di conoscenza. In Italia non se n’è parlato affatto e, se se ne parla, è per bloccare nuove opere o per impedire ulteriori investimenti.

Ma non mi pare sia stata affrontata una riflessione su quello che è necessario fare per mantenere gli attuali standard di mobilità a cui siamo abituati . C’è un problema italiano specifico che nasce da una mancanza di conoscenza, di consapevolezza della gravità di questa situazione.

Gli automobilisti dovrebbero quindi preoccuparsi? Cosa può fare il singolo cittadino?

Io penso che gli automobilisti si debbano preoccupare, così come si devono preoccupare gli utenti delle ferrovie o di un qualsiasi sistema infrastrutturale come le reti del gas. Perché tutte le opere civili hanno un tempo di vita utile.

Quello che dev’essere un argomento di discussione e riflessione più razionale è la pianificazione: non può pensarci il singolo cittadino, devono essere gli organi di governo preposti. Ci vorranno svariati anni, forse qualche decennio per rilanciare e mettere al centro la qualità delle infrastrutture. Questo naturalmente va fatto attraverso gli organi istituzionali e esecutivi.

Non penso che ci sia un’iniziativa che può nascere dal basso, se non quella di formare un’opinione pubblica più consapevole del fatto che certe abitudini non si possono dare per scontate. Non si può pensare che sia scontato che avremo sempre a disposizione un’autostrada o una ferrovia efficiente.

Certe opere vanno costruite, mantenute, ma anche ricostruite quando è necessario. Servono sforzi economici, tecnici, culturali, professionali.

A cosa sono dovuti quindi i recenti incidenti che si sono verificati sulle autostrade italiane?

Ovviamente il caso di Bologna è completamente fuori discussione: lì si è trattato di un incidente stradale con conseguenze eccezionali.

Ma, a parte quello, parlando per esempio dell’incidente sull’A14 di qualche anno fa, l’incidente di Cuneo e altri casi recenti si tratta di situazioni  abbastanza diverse accomunate dal fatto che tutte le infrastrutture sono state costruite ormai tanti anni fa.

C’è un problema di invecchiamento e di obsolescenza generalizzata delle nostre reti infrastrutturali, quelle stradali e infrastrutturali in particolare ma anche quelle ferroviarie, escludendo quelle costruite più di recente.

Quali sono i problemi da affrontare quando si parla di manutenzione straordinaria e ricostruzione delle grandi opere?

Ci sono tre ordini di problemi. Il primo riguarda la complessità sul piano tecnico: ci vogliono delle competenze professionali adeguate che, ahimé, si vanno perdendo perché non c’è la dovuta attenzione e il riconoscimento verso chi si occupa di queste tematiche con lo scrupolo e l’attenzione necessari.

Il secondo è un problema di carattere economico-finanziario: occorrono investimenti importanti e non sempre questo è possibile.

Il terzo è un’esigenza di mantenimento dell’esercizio durante le operazioni di manutenzione: la necessità spesso di dover compiere le manutenzioni sotto il traffico, il che limita le possibilità operative e i cantieri.

In aggiunta mettiamo anche la complessità del quadro normativo e legislativo perché siccome si tratta sempre di appalti pubblici con modalità molto complesse e tempi lunghi, anche quando si riesce a superare i problemi di carattere tecnico, economico e di cantierizzazione ci sono tempistiche di approvazione e realizzazione lunghissime.

Il fattore umano

Intervistato da TPI, anche l’ingegnere Gabriele Tebaldi, docente del Dipartimento di Ingegneria Civile, dell’Ambiente, del Territorio e Architettura dell’Università di Parma ha denunciato il fatto che gran parte delle infrastrutture italiane risalgono agli anni Sessanta e Settanta e cominciano a mostrare seriamente i segni del tempo che passa.

E aggiunge, commentando sullo stato del manto stradale spesso malmesso di diverse strade e autostrade: “Se uno va nelle strade più decentrate si trova in situazioni molto degradate, è una cosa comune in tutta Italia. Questo naturalmente ha una ripercussione, perché se abbiamo a disposizione uno sfondo stradale di qualità, liscio e senza buche chiaramente lo troviamo più sicuro da percorrere in sé e questo genera meno fatica”.

“Se ha una strada con dissesti, buche, avvallamenti, difficoltà di aderenza e scarsa visibilità capisce che il livello di fatica nel guidare è molto più alto. Chiaramente poi alcune situazioni sono più pericolose, tenendo conto anche che se una strada è dissestata anche la guida di un veicolo è più complicata”, continua.

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