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Home » Esteri

Cosa sta succedendo tra Turchia e Stati Uniti (e quali rischi si nascondono per l’Europa)

Immagine di copertina
I presidenti di Turchia e Stati Uniti, Erdogan e Trump. Credit: AFP PHOTO / BULENT KILIC AND SAUL LOEB

Il deprezzamento della Lira e l’aggravarsi delle relazioni diplomatiche con Washington deteriora ulteriormente lo stato di salute dell’economia turca. Gli effetti potrebbero ripercuotersi anche su altri Paesi

Nella sola giornata di venerdì 10 agosto 2018 la lira turca ha perso il 14 per cento del suo valore contro il dollaro, il 30 per cento se si considera il totale dall’inizio dell’anno.

Il rafforzamento del dollaro verso tutte le monete, oltre alla politica dei dazi degli Stati Uniti contro Ankara, sta mandando letteralmente la Turchia a fondo e potrebbe essere un male contagioso anche per gli altri mercati, anzi lo è già stato.

La Borsa di Istanbul è arrivata a cedere venerdì quasi il 9 per cento. Piazza Affari ha chiuso sotto del 2,5 per cento, Francoforte del 2,1 per cento e Parigi dell’1,7 per cento.

Il calo della Lira è uno dei peggiori dell’ultimo decennio fra i paesi del G20, con tutti i problemi che ne derivano quando una moneta si deprezza: rende le importazioni più costose.

La Turchia è un Paese largamente importatore, visto che la sua bilancia commerciale (differenza fra importazioni ed esportazioni) è negativa. In proporzione al Pil tocca la percentuale di un -5,5 per cento.  L’Italia, per esempio, è in attivo con tale rapporto al 2,8 per cento, la Germania addirittura all’8 per cento.

Essere importatori non è assolutamente un peccato, ma ogni economia fa storia a se. Il Regno Unito, per esempio, ha un deficit commerciale del 4,1 per cento, ma è comunque la  quinta economia del pianeta, cosa di cui i mercati finanziari tengono largamente in considerazione nel valutarne l’affidabilità.

Il problema dell’inflazione “importata”

Il fortissimo calo della propria valuta ha incrementato (e incrementa) per la Turchia il costo delle merci in ingresso. Tecnicamente si chiama “inflazione importata”, vale a dire proveniente da cause esterne al Paese, come in questo caso la perdita di valore della valuta rispetto alle concorrenti straniere.

L’ ultimo dato dell’inflazione turca, registrato a giugno, segna oltre il 15 per cento su base annua. Ciò significa che rispetto allo scorso anno nello stesso periodo considerato i beni di consumo costano il 15 per cento in più. Beni quali benzina, medicine e cibo.

La Turchia è fortemente dipendente dai mercati esteri, essendo altamente indebitata con istituzioni straniere e pagando quindi il proprio debito in valuta straniera, quindi in gran parte euro e dollaro, ma ovviamente anche altre valute in un ammontare comunque minore.

L’esposizione delle banche e aziende italiane in Turchia

Fra i grandi creditori della Turchia, sono presenti diverse banche europee. Secondo quanto riportato dalla Bri, la Banca dei regolamenti, le banche italiane sono esposte verso la Turchia per circa 15 miliardi di euro.

La Fiat controlla inoltre per il 38 per cento la turca Tofas. Unicredit ha invece lasciato sul parterre il 4,7 per cento in una sola seduta, vista l’ esposizione della banca in Turchia.

Sono indebitati anche gli istituti di credito della Spagna con 71 miliardi, quelli francesi per 33 miliardi, quelli britannici con 16,5, e quelli tedeschi con quasi 15 miliardi.

Considerando anche le altre banche di Giappone, Stati Uniti, Svizzera e altre, l’esposizione delle banche internazionali verso la Turchia è pari a 264,9 miliardi di dollari.

Il rifinanziamento del debito pubblico turco

Gli investitori sono preoccupati per la capacità delle banche turche e delle società di poter riuscire a finanziare più 350 miliardi di debito estero.

Il tasso del titolo decennale del tesoro è arrivato ad un picco del 18 per cento. Per fare un paragone l’italiano danza intorno al 3 per cento, il tedesco, dal quale si misura lo spread, sta poco sopra lo 0,3 per cento.

Le questioni diplomatiche da risolvere

La Turchia è membro della Nato, ma i rapporti con gli Stati Uniti sono via via peggiorati per diversi motivi. Gli Usa parteggiano per i curdi, mentre la Turchia appare strategicamente vicina all’Iran e alla Russia, da cui si rifornisce di petrolio, che si valuta in dollari americani, e gas e con le quali si è allineata nella vicenda siriana.

Fra Ankara e Washington pendono poi le richieste di consegna di due prigionieri eccellenti: Fethullah Gulen, che vive negli Usa e che Erdogan vorrebbe fare arrestare quale presunto “mentore” del fallito golpe del 2016, e Andrew Brunson, americano detenuto in Turchia, del quale gli Stati Uniti richiedono la consegna. Si tratta di un pastore evangelico sotto processo dalle autorità turche con accuse di spionaggio.

Oggi le guerre si combattono così, non solo elmetti e fucili, ma anche con i dazi commerciali.

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