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“Violentano le donne vergini convinti di curarsi dall’HIV”: le storie delle rifugiate congolesi in Burundi

Immagine di copertina
Una donna nel campo profughi di Kibati, a Goma, in Repubblica democratica del Congo. Credit: MICHELE SIBILONI

Donne e bambini del Congo vivono in situazioni difficili nei campi profughi del Burundi. TPI pubblica le loro storie in occasione della Giornata internazionale del rifugiato, il 20 giugno

Alizia* ha 22 anni e tre figlie che vivono con lei nel campo profughi di Bwagiriza, in Burundi.

S&D

È arrivata nel campo cinque anni fa, dopo aver lasciato il suo paese, il Congo, a causa della guerra civile.

“I Mai-Mai hanno attaccato il nostro villaggio, uccidendo e violentando le donne”, racconta Alizia, che ha subìto la violenza come molte altre. “Ero poco più che una bambina. Ed è così che sono rimasta incinta per la prima volta. Mia figlia è nata qui, in Burundi, e ora la sua vita è insieme a me e alle sue sorelle, in questo campo”.

Il campo profughi in cui vive Alizia si trova nella provincia di Ruyigi ed è diretto dall’Unhcr, l’Alto commissariato Onu per i rifugiati. Oggi ospita 10mila rifugiati, e il 51 per cento di loro sono donne e bambine.

All’interno del campo lavora l’ong GVC (Gruppo di Volontariato Civile) che gestisce i centri di salute, fornendo assistenza sanitaria, lavorando alla prevenzione contro l’HIV e sensibilizzando ai temi della violenza contro le donne e al contrasto alla malnutrizione.

“La violenza sulle donne e sulle bambine, in guerre come quella in Congo così come in tutte le altre, viene usata come arma da guerra”, spiega Dina Taddia, presidente di GVC. “In Congo, alle violenze si aggiunge anche l’ignoranza: spesso le vergini vengono violentate perché si crede che l’atto possa rendere immuni o far guarire dall’HIV”, prosegue.

I casi di violenza sono tanti e spesso lasciano segni indelebili sulla psiche di donne e bambini.

“Una giovane rifugiata congolese ha sviluppato disagi psichici post traumatici in seguito a un attacco militare nel suo villaggio, durante il quale ha subito violenza”, racconta Karikumutima Theobard, uno degli infermieri di GVC che lavorano nel campo di Kavumu, nell’est del Burundi.

“Fuggita in Burundi per salvarsi, è stata sottoposta a un’ennesima umiliazione e a un nuovo dolore. Suo marito la ha disconosciuta a causa di ciò che le era accaduto e la sua famiglia si è divisa”.

Una malattia mentale o neurologica, così come una disabilità, in questi contesti comporta ovviamente una maggiore a discriminazione ed emarginazione.

“Gli epilettici, ad esempio, vengono spesso isolati all’interno dei gruppi di amici e in alcuni casi anche all’interno delle famiglie stesse” spiega Theobard.

Sopravvivere nel campo non è semplice, spiega Kwizera Tierriy Hubart, agente di sensibilizzazione ai rischi dell’HIV nel centro di salute del campo.

“Per questo a volte le donne sono costrette a vendere i propri corpi e si assiste a casi di promiscuità che espongono ancora di più alla contrazione e alla diffusione dell’HIV”, dice.

“I mariti di molte donne sono stati uccisi o sono dispersi in Congo. In altri casi, le donne sono state ripudiate dopo aver subito violenza. Così sono costrette a sposarsi di nuovo, per ottenere protezione e stabilità, ma spesso con scarsi risultati”.

“Ho assistito a così tanti casi di donne che arrivavano qui dopo aver vissuto violenze terribili”, sostiene Kwizera Tierriy Hubart.

Racconta la storia di Gloria*, una ragazzina di 23 anni che è stata violentata dai militari governativi ugandesi.

“Sono entrati in casa nel suo villaggio per uccidere il marito che si era schierato con l’opposizione a Musaveni”, dice. “Lui è fuggito, lei, invece, è stata barbaramente violentata. Fuggita in Ruanda insieme alla sua famiglia, ha capito di non essere ancora al sicuro. Per questo poi ha scelto di venire in Burundi”.

*Nome di fantasia utilizzato da GVC per proteggerne l’identità

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