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Il mio fidanzato è stato torturato in Siria

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La testimonianza di Veronica Bellintani, il cui fidanzato, oppositore di Assad, venne arrestato e torturato per otto mesi nel centro di detenzione numero 215, famoso per le brutali torture a cui i detenuti sono sottoposti

Tra le varie barbarie che i siriani hanno dovuto subire negli ultimi sette anni, le prigioni di Assad rimangono tra le atrocità più dolorose che qualcuno possa raccontare. Ai tempi, quando leggevo le varie testimonianze dei sopravvissuti, non sapevo che tutto questo sarebbe diventato presto parte della mia vita privata.

Questa notizia puoi leggerla direttamente sul tuo Messenger di Facebook. Ecco come

Il mio fidanzato è siriano. È stato arrestato e torturato per otto lunghi mesi nel centro di detenzione numero 215, famoso anche con il nome di ‘prigione della morte’, per le brutali torture a cui i detenuti sono sottoposti.

‘Detenuto’ è un termine che purtroppo non spiega davvero la situazione del mio fidanzato: lui fu arrestato per il suo desiderio di creare una Siria migliore, basata su principi democratici, e credeva nella libertà e dignità di ogni persona in una nuova Siria.

Non aveva fatto nulla di male se non chiedere la fine di una dittatura dispotica come quella della famiglia Assad che governa il paese da 60 anni.

Il mio fidanzato è stato fortunato a sopravvivere, ma molto spesso, sia durante che dopo la detenzione, mi ha detto che sarebbe stato meglio se fosse morto là dentro.

Sopravvivere significa portarsi con sé un gigantesco peso sul cuore: sai che non ritornerai più la persona di prima, e sai che in qualche modo non riuscirai mai a scrollarti di dosso l’umiliazione, la vergogna e ogni singola ferita psicologica che tutto questo ha lasciato su di te.

Mi ha spiegato che dopo essere stato rilasciato, la prima cosa che ha fatto fu comprare un oggetto che aveva sognato decine di volte mentre era detenuto: una corda per impiccarsi. Questo è stato il suo primo pensiero appena riacquistata la libertà.

Più volte mi ha detto che, per quanto ora il suo corpo sia libero, la sua mente e la sua anima non lo saranno mai. Sono state prese in ostaggio dalle grida dei suoi compagni sotto tortura, le loro preghiere e i loro corpi morti posti di fronte a lui nella cella di detenzione, quando ormai non riuscivano più a sopportare il dolore delle barbarie del regime di Assad.

Il momento peggiore è il primo interrogatorio subito dopo l’arresto. È in questo momento che gli ufficiali del regime tentano di ottenere il maggior numero di informazioni possibile, con qualsiasi mezzo.

Leggi anche: Dentro il mattatoio di Assad, tra stupro come tecnica di tortura e medici carnefici

È in questa occasione che per la prima volta è stato picchiato selvaggiamente dalle guardie, e anche la prima volta in cui è stato abusato sessualmente. Più stava in silenzio di fronte alle loro domande, e più le torture diventavano pesanti da sopportare.

Ma non ha mai aperto bocca. Mi ha detto che non avrebbe mai permesso che qualcuno potesse subire le stesse cose per colpa sua, e per questo motivo il regime di Assad non è mai riuscito ad ottenere da lui le informazioni che volevano.

Nell’arco di quegli otto mesi è stato torturato fisicamente ogni giorno: appeso al soffitto e picchiato con bastoni, picchiato in posizioni di stress per non parlare delle varie torture come la sedia tedesca (inventata dal nazista Brummer, ospitata in Siria dalla famiglia Assad).

Ci sono degli aneddoti che possono rappresentare ancora meglio la crudeltà disumana del regime di Assad.

Dopo circa due mesi là dentro, il mio fidanzato aveva già perso molti chili e le manette usate per appenderlo al soffitto erano ormai diventate troppo grosse per i suoi polsi.

Mentre celebrava nella sua mente questo miracolo di essere stato risparmiato almeno per un giorno, ricorda di aver sentito una delle guardie dire: “Vado a prendere le manette più piccole per i bambini”.

Quando mi ha raccontato questo episodio, una sera a letto, è scoppiato a ridere, in una risata amara e triste: ancora adesso non riesce a concepire come si possa fare così tanto del male.

So che molto spesso, quando si apre con me, ha paura che io non gli creda, tanto atroci e indicibili sono le sofferenze che ha passato là dentro.

Purtroppo, sono sofferenze vere e se non sono le parole a mostrarmi quello che ha passato, sono i segni e le cicatrici — che di nascosto dal suo sguardo ho cercato sul suo corpo — a raccontare tutta la verità di quello che il regime siriano fa al suo popolo. Ancora adesso.

Leggi anche: Io, ex membro dei Servizi segreti di Assad, vi racconto le torture nelle carceri segrete siriane

Ma la cosa peggiore per lui da subire non erano i pestaggi o le torture fisiche, ma l’elettroshock. Mi ha detto che sveniva sempre dal dolore e che il tempo sembrava non finire mai.

Le scariche elettriche potevano essere attaccate direttamente al corpo, o fatte passare nell’acqua o persino usate sui genitali, per ore.

Mi ha spiegato che questo genere di tortura è la peggiore non solo per il dolore che è maggiore di qualsiasi altro abuso, ma anche perché le ferite causate da scariche elettriche ci mettono molto ma molto più tempo a guarire.

Alcune di queste sono ancora aperte, perché posizionate in parti del corpo che non permettono una facile guarigione. Una ferita ancora aperta significa continuare a portasi addosso il segno delle umiliazioni e sofferenze che ha passato là dentro, e ricordare che non si può’ ritornare ad essere la persona che si era una volta. Tutto questo lo fa vergognare di se stesso, persino di fronte a me.

In aggiunta a tutto questo, vi erano le orribili condizioni della cella, costruite apposta per rendere la vita di queste persone un vero incubo.

L’obiettivo principale del regime è quello di umiliare e strappare i detenuti della loro dignità umana,  a tal punto da essere la parte peggiore dell’intera esperienza vissuta dal mio fidanzato. È stato costretto a vivere nello sporco, in una cella 4×5 metri con altre 60 persone.

Era cosi’ piccola che per dormire facevano a turno a stare in piedi, in modo che almeno una ventina di loro potesse stendersi a terra. La sua cella era sottoterra, senza ventilazione, così da essere caldissima d’estate e freddissima d’inverno. Il cibo che veniva dato loro era pressoché inesistente.

Quando fu rilasciato, a 23 anni, il mio fidanzato pesava solo 34 chili. Non aveva accesso ad acqua potabile, o alle docce. In otto mesi, non ha potuto farsi la doccia nemmeno una volta.

Molto spesso, quando si parla di torture, si tende a trascurare le condizioni delle celle in cui sono costretti a vivere; tuttavia sono proprio queste condizioni di vita ad avere un impatto enorme a livello psicologico su una persona.

Un impatto che è molto più difficile da valutare di una ferita fisica e che può durare molto più a lungo. Per esempio, durante i primi giorni che ho passato con il mio fidanzato, era solito farsi la doccia tre volte in poche ore ; solo più tardi è riuscito a spiegarmi che lo faceva, perché si sentiva ancora sporco e si sentiva in imbarazzo di fronte a me. Tutto questo a quattro anni dal suo rilascio.

Nella cella di detenzione non era possibile ottenere alcun aiuto medico e, anzi, essere portati in ospedale significa spesso morirci. Nemmeno gli ospedali sono infatti immuni dalla sistematica campagna di tortura del regime di Assad.

Le persone venivano lasciate morire nella cella, e spesso è stato costretto a vedere persone morire di fronte a lui senza poter fare nulla per ridurre le loro sofferenze.

Riguardo a questo, mi ha raccontato la storia di un ragazzino di 16 anni detenuto nella sua stessa cella. Morì per emorragia interna dopo essere stato sodomizzato con un bastone. Morì di fronte a lui dopo giorni di sofferenza, ed è uno degli eventi che più di tutti ha segnato il mio fidanzato.

Dopo essere stato rilasciato, fu in grado di entrare in contatto con la famiglia del ragazzino e informare il padre della morte di suo figlio. Il mio fidanzato raccontò che il ragazzo era morto dopo aver attaccato le guardie, e il padre reagì alla morte del figlio dicendo “ho sempre saputo che mio figlio era coraggioso”.

Il mio fidanzato mi ha raccontato questa storia varie volte, chiedendomi spesso se avesse fatto la cosa giusta: voleva ridare indietro al ragazzo — almeno nel suo ricordo — la dignità che il regime gli aveva strappato.

Il mio fidanzato è stato fortunato a sopravvivere. Fu obbligato a confessare di essere un terrorista e fu rilasciato con diverse ossa rotte, un rene ormai non più in funzione, quasi cieco da un occhio e sei ferite aperte dovute alle scariche elettriche.

Negli anni seguenti si è sottoposto a diverse operazioni alla spina dorsale e alla schiena, ma ci sono ferite peggiori che porta con sé, quelle psicologiche, che riemergono in modo imprevedibile in qualsiasi momento della sua vita.

Sebbene io l’abbia conosciuto solo quattro anni dopo il suo rilascio, sono l’unica persona che sa cosa abbia passato là dentro, e per questo motivo l’unica persona che si è dovuta prendere la responsabilità di occuparsi di lui a livello psicologico e aiutarlo a sentirsi meglio.

Parlare delle sue sofferenze là dentro non è mai stato qualcosa di lineare, ma assomiglia più che altro ad un puzzle in cui raccogliere i diversi pezzi per poter capire la ragione per alcune sue azioni o sensazioni.

Ancora adesso non mi sento a mio agio a chiedergli di parlarmi della sua esperienza, come si sentisse o cosa prova adesso. Ho spesso paura di ferirlo, e che le mie azioni facciano più danno che essere d’aiuto.

Molte volte ho dovuto nascondermi a piangere lontano da lui, mi sento colpevole delle mie lacrime,  non voglio che si senta responsabile della mia tristezza o che si senta in colpa per tutto questo.

La notte è di solito il periodo in cui si apre con me, spesso dopo l’ennesimo incubo,  lo stesso che si ripete dopo quattro anni dal suo rilascio.

Ho ormai imparato a riconoscere se il suo sonno sia infestato da queste orribili ricordi, ho imparato a riconoscere il modo in cui si muove, come trema nel sonno dicendo parole sconosciute proveniente dall’inferno che ha vissuto là dentro e che ancora ora non lo lasciano in pace.

Nella maggior parte delle volte, i ricordi riaffiorano nelle cose più semplici che ora ho imparato a notare ancora prima di lui: un passaggio di un libro, una scena di un film, il suono del campanello, un autobus troppo affollato.

Nella maggior parte delle volte, mi allarmo per nulla; altre purtroppo rimango sopraffatta da come questa esperienza possa riaffiorare anche nei dettagli più piccoli e insulsi della vita quotidiana.

Un giorno stavamo camminando nel bazar sotto casa, sembrava una normalissima domenica d’estate finché non ha visto un insetto simile ad uno scarafaggio.

Tra tutte le possibili cose che potessero causargli una crisi, lo scarafaggio era l’ultima che mi ero preparata ad affrontare. Quella notte abbiamo passato ore a cercare di liberare la mente da ciò che questo episodio aveva scatenato in lui. Invano.

Non importa quanto tempo io abbia cercato di confortarlo, alla fine ha dormito con le mani sulla faccia, come faceva ai tempi della detenzione quando il suo corpo veniva ricoperto di insetti a causa della sporcizia della cella.

Ci sono momenti in cui vorrebbe essere in grado di resettare il proprio cervello e cancellare tutto. Mi ha spiegato che, dopo il rilascio, la sua famiglia ha fatto di tutto per poter cancellare ogni traccia visibile che la tortura e la fame avevano lasciato sul suo corpo.

Purtroppo, non esiste nessun ‘parrucchiere’ per l’anima o la mente in grado di cancellare quello che ha visto e sofferto là dentro.

Resettare la sua mente significherebbe cancellare anche le persone che ama: una volta mi ha detto che tra la sua vita attuale con me ed il suo passato, e una in cui non mi ha mai conosciuta e non è mai stato detenuto, sceglierebbe la seconda. Non lo posso biasimare.

L’obiettivo a lungo termine del regime era quello di distruggere completamente l’anima di una persona, in modo tale che, anche se non morivi là dentro, fuori saresti rimasto una persona senza dignità e fiducia negli altri, incapace di amare e troppo complicato per essere amato.

Essere torturato significa trovarsi nelle mani di qualcuno che ha il potere di farti qualsiasi cosa voglia, in qualsiasi modo e a qualsiasi ora. Penso che ognuno di noi perderebbe ogni fiducia nei confronti dell’umanità’ dopo aver subito otto mesi di tale inferno.

Il mio fidanzato invece no, lui è un’anima buona, capace di scegliere come vivere la propria vita secondo i valori che i suoi carcerieri detestavano: capace di amare e di non permettere che gli orrori del suo passato siano in grado di controllare anche la sua vita da uomo libero. Il regime di Assad ha provato a derubarlo di tutto questo, ma non ce l’ha fatta.

Vorrei che si potessero ricordare le migliaia di persone che ancora adesso subiscono tutto questo. Vorrei poter ricordare le migliaia di donne che ancora oggi aspettano che i loro amati possano ritornare da loro, e le altre migliaia i cui mariti o figli non sono mai ritornati a casa.

Vorrei che si comprendesse che per quanto la mia storia possa sembrare triste, io ho il privilegio di un futuro con il mio fidanzato che tante altre persone non hanno.

Se non possiamo fare nulla perché troppo piccoli di fronte a tragedie del genere, è almeno necessario conoscere e comprendere cosa significa legittimare il regime di Assad; e combattere affinché chi ancora sta subendo tutto questo possa tornare presto a casa.

Questo articolo è apparso per la prima volta su Medium e pubblicato su TPI con consenso dell’autore

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