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Home » Politica

Costi stellari e viaggi da incubo: così l’Italia nega il diritto di voto a 2 milioni di persone

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Il nostro è l'unico tra i grandi paesi occidentali a non consentire a chi lavora o studia lontano dal comune di residenza di poter votare a distanza

Quando si pensa alla disaffezione nei confronti della politica, l’immagine classica che balza alla mente è quella del cittadino che, per disinteresse, rifiuto o semplice mancanza di senso civico, il giorno delle elezioni preferisce la gita fuori porta domenicale alla passeggiata verso il seggio elettorale.

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Peccato però che nello stesso momento, in ogni parte d’Italia, ci siano anche centinaia di migliaia di persone che per mettere una croce sulla scheda elettorale affrontano viaggi che durano giornate intere, spendono cifre astronomiche solo in parte rimborsate, si prendono giorni di ferie che mai recupereranno, rinunciano ad appelli di esami su cui hanno sudato per mesi.

Il tutto per far sapere che il loro senso civico è più forte della legittima disillusione verso uno stato che dovrebbe promuovere la partecipazione attiva ai processi democratici, e che invece da anni è immobile di fronte a un problema ampiamente superato nel resto d’Europa.

Le persone domiciliate in una circoscrizione diversa da quella di residenza, in Italia, sono quasi due milioni. Di questi circa 400mila sono studenti fuori sede.

La legge italiana non consente loro di votare nel luogo in cui studiano e lavorano, perché incapace di adeguare il proprio sistema amministrativo e la propria burocrazia alla realtà della società di oggi.

Il tutto anche a costo di violare la Costituzione, che all’articolo 3 afferma che “è compito della Repubblica rimuovere gli ostacoli di ordine economico e sociale che, limitando di fatto la libertà e l’eguaglianza dei cittadini, impediscono il pieno sviluppo della persona umana e l’effettiva partecipazione di tutti i lavoratori all’organizzazione politica, economica e sociale del Paese”.

E così uno studente siciliano che fa l’università in Lombardia, per fare un esempio tra i tanti possibili, è costretto a percorrere tutta l’Italia per poter esercitare il suo diritto di voto.

Attualmente infatti possono votare fuori dal comune di residenza solo alcune categorie di elettori: ricoverati in ospedali e case di cura, militari e tutti coloro che prestano servizio al seggio come forze dell’ordine e rappresentanti di lista.

Per gli altri mano al portafoglio, zaino in spalla e tanti auguri di buona fortuna.

Già, perché a volte la logistica rende l’esercizio del voto un vero e proprio miraggio.

Una lettrice di TPI ha scritto alla redazione per segnalare che l’aeroporto di Bari sarà chiuso per ristrutturazioni proprio dall’1 all’8 marzo.

Resta il treno e ci sono gli altri scali, certo, ma Laura, ragazza tarantina che studia a Padova, spiega che per raggiungere la sua città dovrà comunque spendere una cifra minima di circa 100 euro e, avendo lezione all’università, dovrà andare e tornare nel giro di due giorni.

Se decidesse di viaggiare in treno impiegherebbe 10 ore ad andare e 10 a tornare.

Il paradosso ulteriore è che per gli italiani all’estero il problema è già stato risolto da tempo.

Alle prossime politiche non solo i residenti, ma anche coloro che per motivi di lavoro, studio o cure mediche si trovano temporaneamente all’estero per un periodo di almeno tre mesi potranno votare, iscrivendosi alle apposite liste entro il 31 gennaio.

In Italia c’è chi, dal 2006, si batte per concedere a tutti pari dignità dal punto di vista della cittadinanza politica. È il comitato “Iovotofuorisede”, coordinato da Stefano La Barbera, che a TPI ha raccontato quanto questo problema sia ancora affrontato con sufficienza dalla classe politica.

“I rimborsi per questi autentici viaggi della speranza di studenti e lavoratori fuori sede sono solo parziali – spiega La Barbera – e non superano il 40 per cento del costo totale del biglietto”.

“Al di là dell’aspetto economico, immaginiamoci cosa può voler dire per uno studente sotto esame o per chi lavora ad esempio in un ospedale organizzare un viaggio di 20 ore in due giorni tra andata e ritorno”.

La battaglia del comitato, portata avanti assieme a numerose altre associazioni, universitarie e non, ha consentito di raggiungere il già citato risultato per gli italiani all’estero.

“La politica ha cominciato a prendere in considerazione il problema e per la prima volta, in questa legislatura, c’è stato un governo che ha dato parere favorevole ad una modifica della legge anche per gli studenti e i lavoratori fuori sede in Italia”.

Il riferimento è all’emendamento alla legge elettorale presentato dal presidente della Commissione Affari Costituzionali della Camera Andrea Mazziotti.

L’emendamento è stato trasformato in un ordine del giorno e il governo, lo scorso novembre, si era impegnato a risolvere finalmente il problema.

“La promessa, però, è stata disattesa, alla fine è mancata la volontà politica”, spiega ancora La Barbera.

“In questo modo rimaniamo l’unico grande paese europeo che non consente ancora il voto anticipato o per corrispondenza e che costringe le persone a tornare nel loro comune di residenza”.

“In quel periodo avevamo lanciato una petizione su Change.org che ha raggiunto oltre 2500 firme, e che invito ancora tutti a firmare per dare maggiore forza a questa battaglia da qui in avanti”.

Nel 2011, il comitato riuscì a trovare un escamotage per permettere ad alcuni fuori sede di votare ai referendum, ovvero quello di farli iscrivere come rappresentanti di lista dei vari partiti nei seggi elettorali.

“Una soluzione che ovviamente è ben lontana dal risolvere il problema – commenta La Barbera – se pensiamo che la legge permette l’iscrizione di due rappresentanti per ogni quesito referendario”

“Considerando la totalità dei collegi e dei partiti, questo sistema garantisce l’accesso al voto a meno del 5 per cento degli aventi diritto tra gli studenti fuori sede”.

Un sistema, per giunta, che si può sì applicare per il referendum, ma che non vale per le elezioni politiche.

Solo nel primo caso infatti l’Italia è un collegio unico  (si vota dappertutto con la stessa scheda), e si può essere delegati automaticamente ovunque.

Anche l’Associazione Dottorandi e Dottori di Ricerca Italiani (ADI) è da molti anni in prima linea nel denunciare questa problematica.

Il segretario dell’associazione Giuseppe Montalbano, intervistato da TPI, ha provato a spiegare perché i partiti non si siano mai realmente attivati per trovare una soluzione.

“Non nego l’esistenza delle difficoltà burocratiche, dei costi che avrebbe per lo Stato l’organizzazione di un sistema di voto a distanza o per corrispondenza. Tuttavia, credo che lo stallo sia imputabile principalmente ad un’indolenza di fondo”, dice Montalbano.

“La classe politica non ritiene che ci siano incentivi e vantaggi sufficienti per mettere in moto una macchina operativa e funzionante che faciliti il voto per tutti. Il risultato inevitabile è il mantenimento dello status quo”.

“A parole gli esponenti dei vari partiti si sono sempre mostrati disponibili e volenterosi – continua Montalbano – Ma alla prova dei fatti la volontà è puntualmente mancata”.

Come se non bastasse, persino nelle consultazioni referendarie alcuni studenti hanno denunciato l’atteggiamento ostruzionistico di certi partiti rispetto alla quota riservata ai rappresentanti di lista.

È accaduto infatti che venissero ridotti i posti di una specifica lista per scoraggiare il voto giovanile, sulla base di un mero calcolo elettorale (il voto giovanile può essere infatti più o meno indirizzato verso una specifica posizione, magari contraria a quella del partito che ha promosso la consultazione referendaria).

“I partiti fanno sempre i conti con i sondaggi. Tuttavia – conclude Montalbano – questa logica rivela non solo la mancanza di valori democratici, ma anche una miopia dal punto di vista della costruzione del radicamento sociale”.

“Facendo ostruzionismo, l’immagine stessa del partito viene danneggiata, e nel lungo periodo, anche a livello di consensi, questo non può che risultare nocivo”.

Ciò che appare evidente è che in Italia si sommano numerose variabili che finiscono ogni volta per ostacolare un reale cambiamento: indolenza della classe politica, infinite complicazioni burocratiche, nonché il ben noto ritardo del nostro paese sotto il profilo dell’innovazione, anche tecnologica.

Molte nazioni, in consultazioni di vario tipo, hanno sperimentato alcune modalità di voto online. Ad aprire la strada è stato, sorprendentemente, un piccolo paese come l’Estonia, nel 2007.

Si rinnovava la composizione del parlamento, e le persone votarono attraverso postazioni pubbliche ma anche da casa, inserendo la carta d’identità elettronica in un lettore collegato al computer.

Non sono mancati disguidi e polemiche, in questo come in altri esperimenti fatti tra gli altri in Germania, Regno Unito e Stati Uniti.

Resta il fatto che, nel nostro paese, immaginare un’evoluzione di questo tipo appartiene al regno della fantascienza.

Ogni timido tentativo in questa direzione si è risolto in malfunzionamenti, bug del sistema, facendo sempre rimpiangere i metodi tradizionali.

Nel referendum per l’autonomia della Lombardia che si è svolto lo scorso ottobre il voto elettronico ha causato enormi ritardi nello scrutinio.

In questi giorni alle “parlamentarie” del Movimento Cinque Stelle per scegliere i candidati alle politiche si sono registrati numerosi problemi con i server, con gente candidata a propria insaputa, esclusi senza motivo apparente, difficoltà ad esprimere le preferenze per chi accedeva alla piattaforma.

Resta il fatto che, per cambiare le cose e facilitare finalmente la partecipazione di lavoratori e studenti fuori sede, basterebbe organizzare un sistema di voto per corrispondenza o anticipato, come già avviene per gli italiani all’estero e in tutti i grandi paesi occidentali.

Per ora resta il coraggio (per non dire l’eroismo) di chi in tempi di astensione di massa è disposto a sacrifici enormi pur di non perdere il proprio diritto di scelta, nonché la rabbia (o la rassegnazione) di chi invece, legittimamente, questi sacrifici non vuole o non può farli.

Forse sarebbe ora di premiare il coraggio civico dei primi e di restituire ai secondi il senso di appartenenza alle istituzioni democratiche, chiudendo una volta per tutte l’epoca della discriminazione civica verso chi, per giunta, si è costruito o si sta faticosamente costruendo una vita lontano da casa, e che certo non merita di essere considerato un cittadino di serie B.

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