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“Mladić è stato condannato, ma a Srebrenica ha vinto lui”. Il racconto di un sopravvissuto al genocidio

Immagine di copertina
Le foto di alcune delle vittime del genocidio di Srebrenica. Credit: Michael Biach/APA-PictureDesk via AFP

Il 39enne Nedžad Avdić è sopravvissuto al massacro del 1995 in Bosnia Erzegovina. In un'intervista a TPI racconta perché la condanna del “boia di Srebrenica” è solo una parziale vittoria

Nedžad Avdić aveva solo 17 anni quando si ritrovò nudo, con le mani legate dietro la schiena, in fila insieme ad altri quattro uomini in attesa dell’esecuzione. Pensò che sarebbe morto velocemente, senza soffrire. E che sua madre non avrebbe mai saputo dove lui fosse finito.

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Proprio in quel momento spararono.

Era il 13 luglio 1995, e Nedžad si trovava in un campo d’esecuzione vicino Srebrenica. In quell’estate oltre 8mila musulmani bosniaci furono uccisi dalle truppe guidate dal generale Ratko Mladić, tra l’indifferenza delle truppe olandesi delle Nazioni Unite, che avrebbero dovuto proteggerli.

Nedžad fu colpito alla pancia e al braccio destro. Finì per terra, come gli altri, ma non morì. Gli spari continuarono, e file di uomini caddero dietro di lui. Sentiva i loro rantoli intorno a sé, mentre loro morivano. Fu ferito da un altro proiettile, che lo colpì al piede sinistro. Il dolore era insopportabile, e non aveva la forza di chiamare i suoi sicari per chiedere il colpo di grazia.

Quando tutto fu finito e il furgone se ne andò, vide un uomo muoversi vicino a lui. Riuscirono a slegarsi le mani a vicenda, e ad allontanarsi prima che arrivasse un nuovo furgone. Per giorni vagarono per i boschi, nascondendosi e dormendo nei cimiteri. Alla fine riuscirono a raggiungere il territorio sotto il controllo del governo bosniaco.

Suo padre, suo zio, e gli altri parenti che cercarono riparo nella base olandese di Potočari non sopravvissero.

Nedžad, invece, è tornato a Srebrenica nel 2007.

Dieci anni dopo il 22 novembre 2017, l’ex generale Ratko Mladić, soprannominato “il boia di Srebrenica”, è stato condannato all’ergastolo e ritenuto colpevole di 10 degli 11 capi d’imputazione di cui era accusato di fronte al Tribunale Penale Internazionale per l’ex Jugoslavia, che ha sede all’Aia. Mladic è stato condannato per crimini di guerra e crimini contro l’umanità, incluso genocidio.

La corte ha riconosciuto che l’ex generale è stato membro di un’associazione criminale con lo scopo di eliminare la popolazione non serba dalla Bosnia, che ha ordinato ed eseguito operazioni di pulizia etnica; lo ha ritenuto responsabile di stermini e stupri di massa, e ha certificato il ruolo decisivo da lui avuto nei mesi di assedio della capitale bosniaca Sarajevo, che portarono alla morte di diecimila civili.

Il memoriale che ricorda il genocidio a Srebrenica. Credit: Michael Biach/APA-PictureDesk via AFP

“Abbiamo sconfitto il male puro, ma solo in parte”

Nedžad adesso ha 39 anni. Il 22 novembre non ha assistito in diretta alla lettura della sentenza: non aveva tempo a causa di tutte le richieste di interviste che ha ricevuto. Ma ha sentito dai telegiornali della condanna di Mladić all’ergastolo, e della sua assoluzione per uno dei capi d’accusa: quello relativo al genocidio nelle municipalità al di fuori di Srebrenica.

Come vittima diretta dell’orrore a cui Mladić lo ha sottoposto in quel luglio del 1995, Nedžad ha confidato a TPI di provare una certa dose di sollievo.

“Quando, un giorno, tutto sarà finito, penserò che abbiamo sconfitto il male puro”, ha detto in un’intervista telefonica. “Quel generale è il male puro, non solo per la Bosnia, ma per il popolo serbo in generale. Per loro lui è ancora un eroe. E questo è un messaggio terribile, è una vergogna della Serbia”.

Il sollievo di cui parla Nedžad, però, è solo parziale. Alla fine della guerra, Mladic si è dato alla macchia, e ha vissuto nell’anonimato in Serbia, protetto dalla sua famiglia e da elementi dei servizi di sicurezza. È rimasto in latitanza per 16 anni, fino a quando nel 2011 è stato arrestato nella casa di un cugino del nord del paese.

Per lui, la condanna è arrivata ben 22 anni dopo il genocidio. Alcuni dei parenti delle vittime di Srebrenica non hanno fatto in tempo ad assistervi. La zia di Nedžad, che ha perso tre figli e il marito, è morta prima che fossero trovati e seppelliti i loro corpi, e prima che i colpevoli fossero condannati.

“Io all’epoca ero un ragazzo che è stato portato sul luogo dell’esecuzione di massa, è stato colpito, ed è scappato prima di essere spinto nelle fosse comuni con una ruspa. Per me non esiste una punizione sufficiente per questo”, puntualizza Nedžad. “Questa sentenza è importante, ma la sua l’importanza va oltre il generale Mladic. Lui non è importante in questo caso, è un vecchio che finge di essere matto e di non ricordare nulla. Ieri non lo abbiamo neanche riconosciuto”, sostiene. “Il verdetto è un momento storico per il nostro paese e per la giustizia nel mondo. Spero ci aiuti a costruire un futuro migliore”.

“Era tutto pronto per noi”

Secondo Nedžad, il massacro di Srebrenica non avrebbe potuto realizzarsi senza le risorse enormi messe a disposizione di Mladic, che era al libro paga della Serbia.

“Ho perso così tanto in questa guerra, così tanti membri della mia famiglia”, dice Nedžad. “A luglio del 1995 era tutto pronto per noi: le macchine, le ruspe, le scuole. Erano state svuotate dai mobili ed erano pronte affinché noi fossimo imprigionati lì. I fucili per le esecuzioni di massa erano pronti, lo erano anche le fosse comuni. Non avrebbero potuto fare quello che hanno fatto, se non ne avessero avuto le risorse”.

Nedžad ritiene che l’assoluzione di Mladic da uno dei capi d’accusa, quello relativo al genocidio per le municipalità al di fuori di Srebrenica, sia un messaggio terribile. “Nessun genocidio può essere commesso solo in cinque giorni, in estate. È un processo più lungo”, ha detto a TPI.

Secondo lui, tutto è iniziato nel 1992. “Srebrenica non era un caso isolato, basti pensare ai fatti della città di Prijedor, dove c’era un campo di concentramento, dove c’è la fossa comune più grande. Io sono stato costretto a lasciare la mia casa nel 1992, e a cercare riparo a Srebrenica nel 1993: al tempo era protetta dalle truppe Onu. Noi abbiamo trovato rifugio lì, ma probabilmente avremmo potuto essere uccisi”.

I nomi delle vittime del genocidio di Srebrenica. Credit: Matthias Schrader

“Questa può essere giustizia?”

“Io vivo a Srebrenica. E ti assicuro che se guardi le cose da qui, vedi che Mladic e gli altri politici sono riusciti a raggiungere tutti i loro obiettivi”, dice Nedžad. “Coloro che si sono messi sulla loro strada sono stati uccisi. Io sono sopravvissuto perché sono stato fortunato, ma avrei potuto essere morto come mio padre e i miei zii”.

“Oggi da una parte abbiamo il vecchio Mladic, che è stato consegnato dalla Serbia molto tardi. Loro sperano che muoia prima della condanna definitiva. Dall’altra parte abbiamo la Bosnia, un paese completamente distrutto, multietnico ma diviso”, spiega Nedžad. “Le comunità nella valle della Drina e nella regione di Srebrenica sono distrutte. E non potremo mai riprenderci da questo. Perché è stato genocidio. È vero, non hanno ucciso le donne: ci sono villaggi popolati solo da donne. Ma qual è il loro futuro? Questa può essere giustizia?”

Tornare a Srebrenica

Nonostante questo peso sul cuore, Nedžad è ottimista. “Alla fine la sentenza è arrivata. Tardi, ma è arrivata. Spero possa essere utile, anche se i politici serbi continuano a negare il genocidio e il verdetto internazionale”, dice.

Anche il nuovo sindaco serbo di Srebrenica, eletto un mese fa, nega che il massacro del 1995 fu un genocidio. “Quando mi chiedono cosa ne penso rispondo che è terribile”, dice Nedžad. “Ma non esistono importanti politici serbi che ammettano si sia trattato di genocidio”.

Nedžad ha sempre pensato che in Bosnia ci sia spazio per tutti i popoli, e che ce ne sarà sempre, anche se i nazionalisti ritengono il contrario, e pensano che il paese debba dividersi tra croati, serbi e musulmani.

“I problemi vengono sempre dai vertici, dai leader. I miei vicini di casa, che sono contadini, non potrebbero mai organizzare un genocidio. Noi vivremmo in pace”, dice Nedžad. “Si dice che la ragione sia l’odio, ma non credo sia così. Certo, c’è dell’odio, ma questo viene piegato agli obiettivi dei potenti”.

“Se questa sentenza non avrà un effetto, se non diventerà un’eredità lasciata al mondo, allora sarà stata vana. Solo così giustizia potrebbe essere fatta”.

Nedžad è tornato a Srebrenica perché aveva dentro di sé un profondo bisogno di farlo. Tra i sopravvissuti della sua famiglia, è il solo a vivere lì.

Non immaginava di stabilirsi in quella città per sempre. Lì, però, a incontrato sua moglie – una donna sopravvissuta anche lei al genocidio – e con lei ora ha tre figlie di 7, 5 e 2 anni.

“Non è normale fare dei figli dopo l’orrore che ho passato. Ma, sai, è la vita”, prosegue Nedžad. “Se fossi andato in un altro paese, forse sarei potuto sopravvivere fisicamente. Psicologicamente non saprei. Quando uccidono tanti dei tuoi parenti, non puoi andare a chiuderti in un buco. Qual è il senso della vita? Non riesci ad accettarlo in questo modo. Io ho deciso di combattere”.

“Forse per te Srebrenica è storia, ma per me è vita. Ogni giorno combattiamo per la giustizia, e oggi abbiamo finito. Quando guardiamo al generale Mladic, almeno una piccola parte della giustizia è stata fatta. È una piccola vittoria contro il male assoluto”.

Leggi anche: Io, sopravvissuto a Srebrenica, vi dico che la storia si sta ripetendo ad Aleppo

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