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Home » Esteri

Trump in un solo anno ha reso l’America (e il mondo) un posto peggiore

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Credit: Mandel Ngan

Il commento di Giampiero Gramaglia a un anno dal giorno in cui Donald Trump fu eletto 45esimo presidente degli Stati Uniti

Se l’anno passato fosse una stagione sportiva, Donald Trump sarebbe lo zimbello di José Mourinho: ‘zero tituli’, nonostante un capitale (politico) immenso. Il magnate presidente non ha realizzato nessuna delle principali promesse elettorali; ha dissipato il lascito di Barack Obama, specialmente in politica estera; la squadra in campo è un casino e lo spogliatoio un verminaio.

S&D

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L’America non ha più soft power ed esibisce all’eccesso il suo hard power.

Un anno fa, nell’Election Day dell’8 novembre 2016, Trump otteneva oltre tre milioni 300 mila voti in meno della sua rivale Hillary Clinton e veniva eletto 45esimo presidente degli Stati Uniti. Perché negli Usa non contano gli elettori, ma i Grandi elettori: Trump ne ebbe 306, contro i 232 della Clinton.

A un anno esatto da quella data, il mondo non è un posto più sicuro e l’America è un posto peggiore: carneficine, anche in chiesa; attentati; rigurgiti di razzismo e intolleranza. Gli Usa alla Trump hanno pure perso la leadership mondiale della ‘green economy’: denunciando gli accordi di Parigi anti-riscaldamento globale, l’America del magnate è anzi divenuta una minaccia globale, non contestando più alla Cina e all’Europa la leadership della speranza ambientale.

Il magnate presidente accusa un calo della popolarità (mai nessuno così male a un anno dal voto), nell’attesa – forse – di fare i conti con la giustizia per il Russiagate, l’intreccio di contatti ambigui tra la sua campagna e gli emissari russi: l’inchiesta ha già condotto all’arresto o alle dimissioni di alcuni dei suoi collaboratori e ha sfiorato la sua stessa famiglia, dal figlio Donald jr al genero Jared Kushner.

In viaggio in Asia, dove vende armamenti – è quel che gli riesce finora meglio, fare il mercante di morte dal Medio all’Estremo Oriente – e dove cerca sponde con Cina e Russia in funzione nordcoreana, Trump avverte, in queste ore, le sirene d’allarme, per lui e per il suo partito, dei risultati delle elezioni di ieri, locali e statali.

A New York il sindaco Bill de Blasio ottiene a larga maggioranza un secondo mandato ed entra nel novero dei potenziali candidati di Usa 2020. I democratici vincono pure in Virginia e New Jersey, dove il governatore uscente è un fedelissimo di Trump, Chris Christie, arrivato a fine mandato tra scandali e polemiche.

L’attenzione della politica è proiettata sulla scadenza di Midterm, il 6 novembre 2018: fra un anno, si rinnoveranno tutti i 435 seggi della Camera, un terzo del Senato – 33 seggi su 100 – e ben 39 governatori.

I repubblicani, che ora hanno la maggioranza sia alla Camera che al Senato, ma che sono spesso sconcertati dal loro presidente, accusano una raffica di defezioni e temono di perdere. La Casa Bianca, che non ha finora mostrato doti di mediazione politica, ne uscirebbe indebolita.

Non che sia servito a molto, finora, tutto il potere conferito ai repubblicani dagli elettori nel 2016: Trump non ha rimpiazzato la riforma sanitaria del suo predecessore con un altro sistema – l’ha solo svuotata -, non ha fatto la riforma fiscale – se ne sta discutendo -, non ha alzato il muro al confine col Messico né attuato la riforma dell’immigrazione, ma ha proceduto con provvedimenti spiccioli spesso contestati e bloccati dal potere giudiziario, dal ‘muslim ban’ alle misure anti ‘dreamers’.

In estate, la Casa Bianca appariva un Grand Hotel: gente che va e gente che viene, gli uni cacciati, gli altri chiamati ‘a salvare il soldato Trump’. L’arrivo a capo dello staff del generale Kelly ha apparentemente messo ordine nel caos.

Ma il presidente alimenta, con tweet e sortite fuori misura, le tensioni razziali e dà in qualche modo legittimità a suprematisti bianchi ed estrema destra; e, pur di non mettere in discussione la vendita delle armi, davanti alle stragi del concerto di Las Vegas e della chiesa in Texas, riduce l’analisi all’opera d’un pazzo. Lo tiene su l’economia, che va bene.

Se non è riuscito a fare l’America ‘great again’, Trump ha però smontato quella di Obama, diritti civili, riforme sociali, ‘sanatorie’ in politica estera: più picconatore che costruttore, per stare nell’edilizia, il suo forte.

Il magnate presidente s’è rimangiato l’apertura a Cuba e ha messo in bilico l’intesa sul nucleare con l’Iran; ha reso se possibile più fragili gli equilibri in Medio Oriente, allineando gli Usa con Arabia Saudita e Israele; e ha inasprito, insieme al dittatore nordcoreano Kim Jong-un, le tensioni in Estremo Oriente. Infine, ha deluso e irritato il suo Grande Elettore più controverso, Vladimir Putin.

L’alba del 9 novembre 2016 si levò cupa sul mondo, e c’è chi, da allora, fa la conta alla rovescia: meno 1090 giorni all’alba del 6 novembre 2020.

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