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Home » Salute

Tagli vaginali senza preavviso e trattamenti violenti: così il mio parto si è trasformato in un trauma

Immagine di copertina

In Italia una madre su cinque negli ultimi 14 anni è stata vittima di violenza ostetrica durante il parto. TPI ha intervistato Ilaria, una donna di 38 anni che ha subito questo tipo di maltrattamenti

Sono state le donne a dargli un nome. Le istituzioni avevano parlato di “umanizzazione del parto”. Loro sono state ancora più precise: “violenza ostetrica”. In poche parole, si tratta del diritto di una donna a essere trattata in modo dignitoso durante il parto, senza violenze fisiche o verbali, e a essere coinvolta nelle decisioni prese in un momento così delicato per la vita della donna e del bambino che sta dando alla luce.

Ilaria Dal Sasso, 38 anni, conosce la violenza ostetrica perché l’ha subita al termine della sua prima gravidanza. “Dopo il parto ho sentito che c’era qualcosa che non andava, che non era stato come me lo immaginavo”, ha detto a TPI. “Anche se sapevo che sarebbe stato doloroso, non potevo neanche immaginare che fosse così”.

Di violenza ostetrica si parla poco in Italia, molti non sanno neanche esattamente cosa sia. Ma si tratta di un tema su cui l’Organizzazione mondiale della sanità insiste dal 1985 e che non riguarda solo i paesi del terzo mondo.

In Italia è il 21 per cento delle mamme con figli tra 0 e 14 anni a dichiarare di aver subito violenza ostetrica durante il parto. A rivelarlo mercoledì 20 settembre è stata la prima indagine nazionale sul fenomeno in Italia, realizzata dall’istituto di ricerca Doxa e da Ovoitalia (Osservatorio sulla violenza ostetrica in Italia). Il rapporto è stato finanziato dalle associazioni La Goccia Magica Onlus e CiaoLapo Onlus.

La storia di Ilaria, tra episiotomia senza preavviso e manovra di Kristeller

La personale disavventura di Ilaria – che resterà per sempre legata al momento meraviglioso in cui è diventata mamma – è iniziata quando, sette anni fa, ha avuto la sua prima figlia. La gravidanza era stata tranquilla, lei si era rivolta al ginecologo di famiglia e aveva fatto tutte le analisi che lui le aveva prescritto. Tutto per fortuna procedeva regolarmente. Ma prima del parto Ilaria era diventata un po’ ansiosa.

“Mi sono recata nell’ospedale pubblico dove avrei dovuto partorire, volevo assicurarmi di poter fare un parto attivo”, che cioè riconosca la centralità della donna garantendole, ad esempio, di scegliere la posizione in cui mettersi durante il travaglio e il parto. Al reparto di ginecologia il personale sanitario l’ha rassicurata, e lei è tornata a casa più tranquilla. Quando è arrivato il momento del parto, tuttavia, le cose sono andate diversamente.

La sacca si è rotta di notte. Ilaria era già ricoverata perché il giorno prima aveva avuto delle perdite e i medici le avevano detto che il parto era imminente. Un’ostetrica l’ha presa sotto il braccio e l’ha condotta in sala travaglio.

Lì l’ha attaccata alla macchina per il monitoraggio, impedendole di fatto di muoversi, e se n’è andata, lasciandola da sola, al buio, senza neanche un bicchiere d’acqua e il conforto di una persona cara. Ilaria non sa quanto tempo ha passato in questa situazione, ma ricorda che i dolori erano atroci. Quando decide che non può più resistere e chiama l’infermiera, le dicono che non c’è più tempo per l’epidurale (che lei aveva richiesto). Finalmente le consentono di chiamare suo marito e di andare al bagno.

In poco tempo Ilaria si ritrova a dover spingere praticamente da sdraiata, ma il peggio arriva quando, dopo diverso tempo, le viene praticato senza nessun preavviso (né tantomeno consenso informato) l’episiotomia, un’operazione chirurgica che consiste nel taglio della vagina e del perineo. Questa incisione è considerata da anni una pratica “dannosa, tranne in rari casi” dall’Organizzazione mondiale della sanità (Oms). Rispetto alle lacerazioni naturali che spesso avvengono durante il parto, questa operazione ha tempi di recupero più lunghi e mette la donna a rischio di infezioni ed emorragie.

“Non è vero che l’episiotomia durante la contrazione non fa male”, precisa Ilaria. “Il dolore è atroce ed è come se tagliassero carne viva”.

La sua disavventura quella notte però continua. Sua figlia non è ancora nata e a un certo punto lei vede entrare dalla porta un omone gigantesco. “Che vuole da me?”, pensa spaventata. Ancora una volta senza nessun preavviso né consenso, le viene praticata la manovra di Kristeller, che consiste in una spinta (manuale o meccanica) a livello del fondo dell’utero, allo scopo di facilitare l’espulsione durante il parto. “In pratica ti strizzano come un sacco”, spiega Ilaria.

Il marito di Ilaria protesta, ma l’infermiere risponde: “O così o così”. E lei a quel punto il si rassegna. La bambina nasce, piange, sta bene. Ilaria è felicissima, ma riesce a tenerla in braccio solo un momento prima che le venga portata via. La sente piangere dal corridoio, il marito segue la bambina, ma passano diverse ore prima che Ilaria possa tenerla di nuovo in braccio.

Ma le sorprese non sono ancora finite. Per fare più in fretta anche per l’espulsione della placenta le viene praticata la stessa manovra. Poi arriva il momento dei punti. L’ostetrica chiede dell’anestetico, ma rispondono che è finito.

Ilaria viene ricucita con dolori atroci, al punto che non riesce neanche a tenere giù il bacino come le chiedono di fare. Il risultato sono dei punti troppo stretti e dopo una settimana devono essere tagliati via.

Ilaria viene dimessa due giorni dopo, con istruzioni frettolose ricevute insieme ad altre venti mamme su come procedere all’allattamento.

Non passa molto tempo che Ilaria, confrontandosi con le esperienze di sua madre e delle sue sorelle, scopre che no, non tutti i parti sono così. Che ci si può sentire accudite e che se un parto è fisiologico e privo di complicanze, come il suo, non servono strane manovre o tagli, basta aspettare che la natura faccia il suo corso.

Cos’è la violenza ostetrica

La violenza ostetrica, secondo le linee guida fornite dall’Oms, è “l’appropriazione dei processi riproduttivi della donna da parte del personale sanitario” e può manifestarsi nella costrizione a subire un cesareo non necessario, un’episotomia non necessaria, a partorire sdraiata con le gambe sulle staffe, nell’esposizione della donna nuda di fronte a una molteplicità di soggetti, nella separazione della madre dal bambino senza una ragione medica, nel mancato coinvolgimento della donna nei processi decisionali che riguardano il suo corpo e il suo parto, nell’umiliazione fisica o verbale della donna prima, durante o dopo il parto.

Questa definizione, tramite un questionario, è stata sottoposta a un campione di 424 mamme italiane, rappresentativo di donne tra i 18 e i 54 anni con almeno un figlio tra 0 e 14 anni, provenienti da varie aree geografiche del nostro paese. Il 21 per cento di loro (pari a un milione di madri sui cinque milioni stimati) ha dichiarato di aver subito violenza ostetrica così definita.

La violenza ostetrica, tuttavia, non riguarda solo le donne che stanno partorendo. “Abbiamo ricevuto diverse testimonianze di operatori sanitari, soprattutto giovani, che si soffrono nel vedere questo tipo di trattamenti”, ha detto Elena Skoko, fondatrice di Ovoitalia. Insieme ad Alessandra Battisti, avvocato del foro di Roma, Skoko ha dato vita nel 2016 alla campagna “Basta tacere: le madri hanno voce”, che è diventata virale sui social, con 1.100 testimonianze di donne che hanno condiviso una loro foto e un cartello per raccontare la loro esperienza di violenza ostetrica.

Dopo questa esperienza le attiviste hanno diffuso un questionario sul tema, che ha ottenuto 3mila risposte, ma resta privo di rappresentatività statistica. L’indagine commissionata a Doxa per loro è mettere un punto. Si erano già accorte dell’importanza del fenomeno, ora è bene che se ne accorgano anche le autorità.

I dati in Italia

L’indagine mostra che un milione di madri con figli tra 0 e 14 anni in Italia hanno subito maltrattamento fisico o verbale durante il parto. Quattro mamme su dieci, inoltre, dichiarano di aver subito lesioni della dignità personale.

La pratica dell’episiotomia è stata subita da oltre la metà delle mamme intervistate (il 54 per cento), una percentuale in alcun modo compatibile con il carattere di eccezionalità che tale intervento dovrebbe avere. Inoltre, per 1,6 milioni di donne (3 partorienti su 10) il taglio vaginale è stato effettuato “a tradimento”, cioè senza la firma di un consenso informato.

Il 15 per cento delle madri (circa 400mila) hanno vissuto questa pratica come una menomazione ai genitali, mentre il 13 per cento (circa 350mila) a causa dell’episiotomia ha visto tradita la sua fiducia nel personale ospedaliero, inizialmente infatti la riteneva necessaria mentre solo in un secondo momento ha preso conoscenza delle conseguenze negative.

Per quanto riguarda il cesareo, in Italia il 32 per cento delle partorienti vi ha fatto ricorso e solo nel 15 per cento dei casi si è trattato di un cesareo d’urgenza. Nel 14 per cento dei casi invece è stato programmato o consigliato dal medico. Il 3 per cento di donne ne ha fatto esplicita richiesta.

Un altro dato importante riguarda la qualità complessiva dell’assistenza. Il 6 per cento delle donne afferma di aver vissuto l’intero parto in solitudine, mentre il 27 per cento ha detto di essere stata seguita solo in parte dall’equipe medica. Nel 4 per cento dei casi la trascuratezza ha messo a rischio la vita della madre o del neonato.

Contro la violenza ostetrica: la proposta di legge e l’attività delle associazioni

A marzo 2016 il deputato Adriano Zaccagnini, del Movimento democratico e progressista, ha presentato un disegno di legge sui diritti delle partorienti. Il testo si intitola “Norme per la tutela dei diritti della partoriente e del neonato e per la promozione del parto fisiologico” ed è attualmente in esame alla commissione Affari Sociali della Camera. La proposta è di trasformare la violenza ostetrica in reato.

Nell’attesa che la legge si adegui, sono diverse le organizzazioni di mamme che, anche se nate con scopi differenti, sono intervenute contro questo tipo di violenza. Michela Cericco è presidente dell’associazione La Goccia Magica Onlus, nata allo scopo di assistere le neomamme per un corretto allattamento, attraverso incontri e dialoghi tra mamme “da pari a pari”. “Parlando con le neomamme le volontarie della nostra associazione sono diventate delle ‘sentinelle’”, ha spiegato Cericco durante la conferenza stampa per la presentazione dell’indagine.

“Per capire se una mamma ha subito violenza ostetrica basta guardare come cammina nei giorni successivi al parto, o vedere se fa fatica a posare il bambino nella culla a causa delle costole rotte”. La Goccia Magica Onlus, che ha finanziato l’indagine contraendo un debito con altre associazioni, ha lanciato una raccolta fondi per restituire quanto preso in prestito e proseguire con nuovi progetti contro la violenza ostetrica.

Anche l’associazione CiaoLapo Onlus, che offre supporto a chiunque abbia appena perso un figlio durante la gravidanza o dopo la nascita, ha contribuito a finanziare la ricerca. La sua presidente, Caludia Ravaldi è un medico psichiatra e ha vissuto in prima persona l’esperienza traumatica del parto di un bambino nato morto. “Spesso chi si rivolge alla nostra associazione, oltre al trauma della perdita, ha vissuto anche quello delle pratiche durante il parto”, spiega Ravaldi. “È vero, spesso le donne superano la violenza ostetrica da sole, ma a che prezzo? Alcuni studi mostrano che le donne che hanno subito dei maltrattamenti durante il parto hanno il doppio della possibilità di ammalarsi di depressione post parto”.

“Queste donne devono però capire che se hai subito un’episiotomia non è colpa tua. Non è neanche colpa del medico. Il problema è la mancanza di comunicazione reciproca”.

Sul punto concorda anche il senatore di Italia dei Valori Maurizio Romani, che è anche un ginecologo. “Si tratta di un errore della classe medica e del legislatore”, ha spiegato. “È una questione di fiducia tra medico e paziente. Bisogna mettere la partoriente al centro, non la patologia, anche perché si tratta di una gravidanza, che non è una malattia”.

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