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Il popolo che non è capace di perdonare

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Ayla è una ragazza di Beirut che fa la fotografa. La sua storia nella quarta puntata della rubrica "Voci dalla strada" firmata da Carlo Brenner

Voci dalla strada raccoglie le opinioni e la visione del mondo di gente comune. Non ha la pretesa di analizzare, ma vuole presentare diverse e molteplici verità, raccontate dalla voce essenziale e spontanea di chi vive la storia sulla propria pelle, senza facili e variabili categorizzazioni esterne.

S&D

Ayla, Beirut, Libano

Ayla. Una meravigliosa ragazza di Beirut. Alta, con i capelli corti, ricci, neri. Un viso magro, chiaro, affilato, come le altre linee del suo corpo. È una fotografa, principalmente, ma dipinge anche. Per esprimere quello che sente ha girato diversi paesi, una cinquantina sui quasi duecento esistenti. Cosa cerca? I tratti comuni a tutte le culture, oltre le apparenti diversità. Cerca la somiglianza tra una piazza di San Paolo e il suq di Sidone, tra Times Square e piazza Venezia, tra un villaggio libanese ed uno etiope. Spesso sono particolari: una macchina in un angolo di una piazza deserta, una saracinesca abbassata con un ragazzo seduto fuori.

Ayla cerca, con modalità diverse, quello che cerco anche io: la nostra somiglianza, la nostra unione con i ragazzi siriani che stanno soffrendo per una guerra orrenda, sporca e volgare. Una guerra per la quale è indegno morire. È proprio di questo parlo con lei seduto in un bar di Beirut. Insieme a noi Charbel e Junior, suoi amici di Beirut.

Ayla mi chiede “Tu andresti in guerra per il tuo paese?”.

“Sì”, rispondo io, “e voi?”.

“Assolutamente no!”.

“Perché?”.

“Perché in Libano sono tutti corrotti e dovrebbero morire tutti” inveisce Charbel. “Se scoppiasse la guerra in Libano me ne andrei via, in un altro paese, e lo stesso farebbero i miei amici”. Ayla e Junior sono d’accordo.

Charbel conosce la storia, mentre parla è una mitragliatrice di citazioni e continua a nominare libri che suggerisce di leggere. Il Libano ha subito una guerra devastante dal 1975 al 1990, simile a quella siriana di adesso. Il ricordo di quella guerra è ancora forte. I palazzi bucati dai proiettili in giro per la città ne sono un ricordo costante e le bombe lanciate nel 2006 da Israele sono stati un promemoria esplicito del fatto che la guerra è sempre dietro l’angolo.

I libanesi odiano e amano il loro paese, ti portano in giro a mostrarti Beirut provando orgoglio ad ogni suo dettaglio ma poi, quando chiedi che ne pensano, ti dicono che è terribile, corrotta e senza futuro. “Credo che il vostro atteggiamento sia sbagliato”, continuo io. “Come fate a non voler proteggere il vostro paese? Se domani l’Isis attraversasse il confine non vi sentireste obbligati a proteggere il mondo nel quale siete cresciuti?”. Mi rispondono di no.

Charbel è profondamente negativo nei confronti dell’umanità, il suo paese ha dato una prova troppo indegna della nostra natura. Durante i giorni di Pasqua i cristiani hanno picchiato e preso a mazzate suo nipote di 23 anni, colpevole di passeggiare nel quartiere cristiano proprio in quei giorni. L’assurdità è che Charbel è un cristiano ortodosso, come quelli che hanno picchiato suo nipote, che evidentemente è di un’altra religione. Il quartiere dove suo nipote è stato preso a mazzate è il suo quartiere, quello dove è cresciuto.

Queste sono il genere di cose che portano Charbel a dire che il problema del Libano non sono i morti libanesi ma quelli che sono sopravvissuti. Io dico che il problema del Medio Oriente è proprio questo: l’odio che crea altro odio, se nessuno spezza la catena l’odio circolerà per sempre. Per questo parlo di quello che, secondo me, è la bomba atomica inventata dal cristianesimo: il perdono.

Io non la vedo molto in ottica cristiana, a dire il vero, ma come strumento di potere: se sei in grado di perdonare sei in grado di ristabilire l’ordine. A questo punto interviene Junior. “Il perdono è per i deboli” dice, “vuol dire solo accettare la sottomissione”.

Junior è un ragazzo che organizza ogni anno un festival di musica in Libano. È uno di quelli che, oltre tutte le frustrazioni, cerca di produrre un cambiamento positivo, di creare momenti di unione in un paese frammentato. Eppure, alcune cose, non è in grado di perdonarle.

Ayla mi fa capire di che cosa stiamo parlando. “Ragazzi, voi sareste capaci di perdonare Israele per quello che ha fatto?”. Io non ho idea, nello specifico, di cosa Israele gli abbia fatto di così male a questi ragazzi, ma sono colpito dalla domanda, che mi fa capire quanto questo sentimento sia diffuso.

Charbel e Junior neanche rispondono e Ayla si gira verso di me, sussurrando, e mi spiega “vedi, il problema è che nessuno qui è in grado di perdonare veramente, io lo farei, ma la maggior parte delle persone che conosco no”.

— Leggi anche: La coppia musulmana scozzese che insegna a diffidare dall’apparenza (terza puntata)
— Leggi anche: Il fotografo di Damasco che affronta il dramma della guerra col sorriso (seconda puntata)
— Leggi anche: Il ragazzo scappato da Aleppo perché non vuole più uccidere (prima puntata) 
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