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Home » News

Perché se siete drogati di cibo, le diete vi serviranno a poco

Immagine di copertina

Un effetto chimico nel cervello può provocare appetito senza controllo, ma la soluzione non va cercata nelle diete dimagranti. L'intervista allo psichiatra Matteo Pacini

A volte il cibo può trasformarsi in una droga. Agisce a livello chimico sul cervello. Instaura processi patologici che portano a non avere più il controllo di ciò che si mangia e in che quantità.

Il dottor Matteo Pacini, psichiatra e docente di medicina delle dipendenze presso l’Università di Pisa, ha affrontato questo argomento nel suo libro Dipendenza da cibo. Comprendere le origini dei disturbi alimentari a partire dalla biologia dell’appetito, in uscita il 5 maggio 2017 con Caravaggio Editore.

Nel libro, Pacini spiega la differenza tra fame e appetito ed esamina l’efficacia delle cosiddette “diete privative” come principale terapia per le patologie legate al cibo, e in particolare dell’obesità.

Il cibo può essere una droga?

Sì. Il cibo fa parte di quelle droghe intese in senso benigno, cioè di quegli stimoli naturali che sono in grado di condizionare il cervello facendosi ricordare.

Il modo in cui una persona capisce di dover mangiare e seleziona cosa mangiare parte dalla ricerca di ciò che ha indotto un benessere. Uno dei sistemi che ci portano a ricercare ancora il piacere provocato dal cibo è l’appetito, che è una cosa diversa dalla fame.

La fame è un meccanismo di emergenza che evita che noi smettiamo di funzionare a causa di una carenza immediata di nutrienti e ci mantiene a un livello di sufficienza. L’appetito è quello che permette qualcosa che è anche più importante per la sopravvivenza: è il meccanismo che consente di accaparrarsi tutto il cibo a disposizione, come se non dovesse più essercene dopo.

Questo sembra assurdo se riferito ai nostri tempi. Se rapportiamo questa funzione ad altri momenti storici, in cui la disponibilità di cibo era molto più incerta, o anche ad altre specie animali, che si possono nutrire solo una volta la settimana, si capisce come sia molto importante qualcosa che ti faccia consumare tutto quello che c’è a disposizione.

Non si tratta quindi di meccanismi negativi?

Assolutamente no. I meccanismi che portano alla perdita di controllo sulle droghe non hanno di per sé una connotazione negativa. Sono ciò che noi usiamo per ripetere esperienze piacevoli.

Cosa succede a livello chimico nel cervello?

Tutto quello che è in grado di creare una memoria di piacere, il cosidetto rinforzo positivo del comportamento, è accomunato dal fatto che un punto del cervello chiamato nucleo accumbens – un piccolo grumo di materia grigia che si trova nella parte anteriore del cervello, comune anche a specie molto più semplici dal punto di vista comportamentali – rilascia una specie di indicatore di quanto quello stimolo è piacevole.

L’intensità con cui questa parte del cervello si accende dà idea della probabilità con cui poi noi ripetiamo l’azione che genera piacere.

Quando si sconfina nella patologia, queste due cose tengono a viaggiare separatamente. Mentre l’esperienza piace sempre di meno, l’appetito aumenta. Di conseguenza nasce un’insoddisfazione, determinata dalla ricerca di appagamento in un determinato stimolo che però non funziona più. Si rimane bloccati in questa situazione, come succede dalla dipendenza da cocaina e nel gioco d’azzardo.

L’origine quindi non è – come a volte si è portati a pensare – un’insoddisfazione personale che si consola con il cibo?

L’insoddisfazione personale può essere il motivo per cui una persona inizia a mangiare molto. Ma in questo caso si tratta di un legame consolatorio. Nell’altro caso è proprio una rincorsa al piacere che poi non porta a nulla.

In questo caso è importante capire che l’insoddisfazione arriva dopo. E in questo non c’è una logica.

La logica vorrebbe altrimenti che alla diminuzione del piacere corrispondesse la ricerca di uno stimolo diverso. Invece chi è dipendente da una sostanza si lamenta di non riuscire a trarre la soddisfazione che si aspetta, ma poi insiste sempre su quella.

Quale di queste situazioni è patologica?

Ci sono situazioni intermedie come le fasi depressive con fame accentuata, che rientrano più nel comportamento compensatorio.

Poi ci sono malattie vere e proprie, in cui c’è una continuità di questi aspetti alimentari, come la bulimia, che però non necessariamente hanno una durata indefinita. Infine ci sono le forme croniche, cioè quella che si definisce obesità primaria, dove c’è la perdita del controllo.

Perché si arriva a questo?

Da un lato, il cervello tende a ripetere comportamenti piacevoli. Dall’altro, il cibo è altamente disponibile nella nostra società: il consumo è più facile. E il meccanismo della commercializzazione del cibo ha portato a creare porzioni piccole dall’alto contenuto calorico che inducono alla perdita del controllo.

Come si può uscire da questa dipendenza?

Purtroppo le esperienze cliniche di questi decenni ci dicono che in caso di obesità la maggior parte dei pazienti che intraprende una dieta privativa non riesce a completarla. E anche se lo fa poi comunque c’è una recidiva.

Inoltre, queste diete riducono la libertà personale provocando una risposta alla privazione che genera ulteriore appetito, nonché sensi di colpa in caso di fallimento. Stessa cosa per i farmaci, che non garantiscono un risultato nel tempo.

La sola cura attuale che ha dimostrato efficacia è l’operazione chirurgica, che altera il sistema di assorbimento del cibo garantendo un aspetto fisico che durerà nel tempo.

Le diete sono inutili?

Ci possono essere due casi. Se una persona si sottopone volontariamente a una dieta, allora ne ottiene anche una gratifica e questo può farla durare nel tempo. Altrimenti gli effetti saranno probabilmente solo negativi.

Finora questo sistema non ha avuto gli effetti sperati: l’obesità nel mondo continua ad aumentare.

Esiste in questi casi una terapia psichiatrica efficace?

Per quanto riguarda la bulimia esiste ormai una terapia standard generalmente efficace.

Sull’obesità invece si può agire educando al meccanismo con cui nasce questo disturbo. Poi idealmente si dovrebbe limitare la disponibilità di cibo (cosa oggi del tutto impossibile) e infine bisogna agire a livello culturale, sull’ideale di persona magra imposto dalla società.

Il dottor Pacini risponderà con videomessaggi alle domande specifiche che è possibile porre sulla pagina Facebook del libro.

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