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L’uomo che conservò la capacità di pensare nell’inferno di Auschwitz

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Il 31 luglio 1919 nasceva lo scrittore italiano Primo Levi, sopravvissuto al campo di concentramento nazista. L'11 aprile del 1987 moriva suicida a Torino. Il ricordo firmato da Fiorenza Loiacono

Considerate la vostra semenza:

Fatti non foste a viver come bruti,

Ma per seguir virtute e canoscenza

(Dante Alighieri, Inferno, canto XXVI, vv. 118-120) 

Un giorno di giugno in cui camminava con un compagno verso le cucine del Lager, Primo Levi introdusse queste parole di Dante nell’inferno di Auschwitz, l’”universo spaventoso e ignoto” in cui fu precipitato nel febbraio del 1944 e dove trascorse undici mesi, fino alla liberazione del 27 gennaio 1945.

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Il Lager fu per lui un’esperienza fondamentale, una “seconda università”, come ebbe a dire più volte nel corso di diverse interviste. Le sue riflessioni su quel mondo caratterizzato da “una mostruosa distorsione dell’umano” cominciarono a formarsi sin dal periodo della prigionia, superata grazie alla fortuna, agli studi di chimica, al nutrimento offertogli da un muratore italiano, e allo spirito intellettualmente vivo che in quel luogo riuscì a mantenere.

Levi era animato dalla curiosità di capire quanto lo circondava, nonostante la violenza della fame, del freddo, delle percosse e di un lavoro che non poteva definirsi tale, ma “una pena, come prendere frustate”. Pur non sentendosi un eroe o un resistente, descrivendo la sua come una forza passiva (“quella con cui uno scoglio sopporta l’urto dell’acqua di un torrente”) ad Auschwitz Levi conservò la capacità di pensare a fronte di quanto accadeva a quella non-umanità dalla “vita breve” e dal “numero sterminato” che costituiva il “nerbo del campo” e che marciando e faticando in silenzio, senza lucidità e consapevolezza, scivolava inesorabilmente verso il fondo, fino ad essere completamente sommersa.

Primo Levi voleva raccontare e testimoniare, negare il proprio consenso al silenzio e all’opera di distruzione e demolizione dell’umano voluta dai nazisti: “Appunto perché il Lager è una gran macchina per ridurci a bestie, noi bestie non dobbiamo diventare; che anche in questo luogo si può sopravvivere, e perciò si deve voler sopravvivere”, scrive in Se questo è un uomo.

Tuttavia, nelle notti del Lager e dei suoi sogni agitati e informi, era sempre in agguato l’angoscia che “la mala novella di quanto, ad Auschwitz, è bastato animo all’uomo di fare dell’uomo” non sarebbe stata ascoltata persino dalle persone più care. A tradursi in questi incubi di rifiuto e indifferenza era il senso di totale abbandono del prigioniero, che il mondo “là fuori” dimenticava sotto i colpi di una violenza e di una ingiustizia incommensurabili, isolato in una pena non raccolta e a cui nessuno poneva fine.

Oggi ricorrono trent’anni dalla morte di Primo Levi. Edith Bruck, sua cara amica e anche lei sopravvissuta alla deportazione e allo sterminio, ricorda di averlo sentito negli ultimi giorni della sua vita, quando le era apparso disperato perché temeva di aver perso la memoria. La testimonianza era per Levi un dovere da cui era impossibile congedarsi, il perno intorno al quale aveva ruotato la sua intera esistenza, un’urgenza e un bisogno viscerale che contribuì a tenerlo in vita nel Lager e a ricondurlo ad uno stato di umanità quando si accinse a scrivere il suo primo resoconto su Auschwitz.

Se questo è un uomo non rappresenta solo il titolo della prima opera di Levi ma anche la domanda incessante che egli si è posto per tutta la vita in relazione all’umanità che aveva commesso violenza e a quella che l’aveva subita, collocando al centro della sua riflessione la “dignità e la mancanza di dignità” degli esseri umani. Con la disposizione naturalistica derivata dalla sua anima di chimico, si sforzava di capire sempre come l’universo del Lager fosse stato possibile, perché i tedeschi lo avessero realizzato, concentrando la sua attenzione sull’animo corruttibile dell’individuo ordinario.

La sua scrittura è stata politica e morale, avviata inizialmente sulla spinta di un impulso catartico, liberatorio, dalla pena e dal tormento, e culminata nella densità di pensiero de I sommersi e i salvati (1986). In quest’opera Levi dissolve definitivamente la visione illusoria e rassicurante di un mondo rigidamente diviso fra bene e male, tra buoni e cattivi, introducendo l’idea e l’immagine di un’ampia fascia di contiguità fra vittime e carnefici, dove lo spazio appare più sfumato, una “zona grigia” di ambiguità e mediocrità, di corruzione, compromesso e asservimento al potere, dove molti perseguitati collaborano con l’autorità nell’opera di annientamento sistematico dei compagni, quei sommersi che – sottolinea Levi – naufragavano senza che nessuno tendesse loro una mano.

Auschwitz era il luogo delle schiene voltate, del crollo delle relazioni e del linguaggio, dove “la lotta per sopravvivere è senza remissione, perché ognuno è disperatamente infinitamente solo”, uno strumento o una cosa agli occhi degli altri. Le anime erano state rese “rotte” e “vuote”, dominate; incapaci di “atti di rivolta” e di “parole di sfida”, persino di uno “sguardo giudice” sollevato contro gli aguzzini.

Levi restituisce la sua esperienza perché ritiene necessario un lavoro di consapevolezza, una riflessione accurata sull’origine e il dispiegamento della violenza di massa, alla cui base si trovano il conformismo e l’ubbidienza acritica all’autorità, e l’ambiguità su cui continuamente inciampano gli esseri umani, “ibridi impastati di argilla e di spirito”.

“Un ordine infero, qual era il nazionalsocialismo, esercita uno spaventoso potere di corruzione, da cui è difficile guardarsi. Degrada le sue vittime e le fa simili a sé, perché gli occorrono complicità grandi e piccole. Per resistergli, ci vuole una ben solida ossatura morale […]: ma quanto forte è la nostra, di noi europei di oggi? Come si comporterebbe ognuno di noi se venisse spinto dalla necessità e in pari tempo allettato dalla seduzione?”.

Secondo Levi, man mano che le condizioni di oppressione si fanno più stringenti e feroci tanto più gli individui si sopraffanno a vicenda, dimenticando la condizione di vulnerabilità che li accomuna, superabile solo attraverso il vincolo morale della solidarietà: “[…] anche noi siamo così abbagliati dal potere e dal prestigio da dimenticare la nostra fragilità essenziale: col potere veniamo a patti, volentieri o no, dimenticando che nel ghetto siamo tutti, che il ghetto è cintato, che fuori dal recinto stanno i signori della morte, e che poco lontano aspetta il treno”.

A questo proposito, Levi sottolinea come il momento della liberazione, accompagnato dal ripristino del precedente sistema di riferimento morale, non fu né lieto né spensierato ma intaccato dalla vergogna, per quanto, “sul piano razionale, non ci sarebbe stato molto di cui vergognarsi” dato lo stato di estrema costrizione che schiacciava i prigionieri. Si era improvvisamente colpiti dalla consapevolezza “di essere stati menomati”, di aver vissuto “per mesi o anni ad un livello animalesco”, “di non aver fatto nulla, o non abbastanza, contro il sistema in cui eravamo assorbiti”, soprattutto “di aver mancato sotto l’aspetto della solidarietà umana”.

Nella sua analisi lucida e precisa, Levi non escluse dunque la riflessione su se stesso, sulle sue risorse e sulle sue mancanze, costruendo e lasciando in eredità un ampio e prezioso quadro interpretativo su un sistema infernale di iniquità e ingiustizia, che chiuso in se stesso rappresentava “l’estremizzazione della società tout court”, dove nessun limite, nessun correttivo veniva posto al privilegio e all’esercizio della violenza.

I casi esemplari erano “piccole, preziose, eccezioni”, eppure c’erano e potevano sortire un effetto potente, scardinando un ordine apparentemente incrollabile. Fu Lorenzo Perrone, il muratore italiano che si prese cura di Levi negli ultimi sei mesi di Lager, a ricordargli con il suo esempio e la sua libertà di coscienza l’esistenza e la possibilità di un’umanità ancora in piedi: “Io credo che proprio a Lorenzo debbo di essere vivo oggi; e non tanto per il suo aiuto materiale, quanto per avermi costantemente rammentato, con la sua presenza, con il suo modo così piano e facile di essere buono, che ancora esisteva un mondo giusto al di fuori del nostro, qualcosa e qualcuno di ancora puro e intero, di non corrotto e non selvaggio, estraneo all’odio e alla paura; […] Lorenzo era un uomo; la sua umanità era pura e incontaminata, egli era al di fuori di questo mondo di negazione. Grazie a Lorenzo mi è accaduto di non dimenticare di essere io stesso un uomo”.

Senza l’autonomia e l’indipendenza di Lorenzo noi forse oggi non avremmo il patrimonio di pensiero, dal valore immenso, che Levi ci ha lasciato, e che continuamente ci sollecita alla riflessione, al risveglio della coscienza morale e a negare il consenso a qualsiasi comando o sistema che attenti alla dignità degli esseri umani.

Nota: I passi citati nell’articolo sono tratti da alcune opere di Primo Levi: Se questo è un uomo, Einaudi, Torino 1958; I sommersi e i salvati, Einaudi, Torino 1986; Conversazioni e interviste. 1963-1987, a cura di M. Belpoliti, Einaudi, Torino 1997.

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