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Home » Esteri

Cosa cambia all’Onu con Trump presidente degli Stati Uniti

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Un'analisi dettagliata sull'evoluzione futura del ruolo di Washington all'interno delle Nazioni Unite

Nella Turtle Bay, la baia delle tartarughe, come è definita la zona di New York dove si trova il Palazzo di Vetro, nonché la maggior parte delle rappresentanze permanenti degli stati membri dell’Onu, diplomatici e diplomatiche si stanno preparando a due grandi cambiamenti.

Il prossimo 1 gennaio, il portoghese António Guterres succederà a Ban Ki-moon e diventerà il primo segretario generale europeo dal 1981, quando il ruolo era stato ricoperto dall’austriaco Kurt Waldheim. Il 20 gennaio, poi, Donald Trump giurerà a Washington e assumerà il ruolo di presidente degli Stati Uniti, lo stato membro più importante dell’organizzazione.

Onu e Stati Uniti: amore e odio

Il rapporto di amore e odio tra gli Stati Uniti e le Nazioni Unite è cosa nota e senza un forte impegno americano è praticamente impossibile ipotizzare che l’Onu possa avere successo. Senza gli sforzi della diplomazia statunitense, per esempio, non si sarebbero raggiunti alcuni tra i più grandi risultati politici che l’organizzazione può vantare — tra i più recenti, l’accordo di Parigi sul clima.

Eppure, tra Washington e i piani alti del Palazzo di Vetro, ci sono anche stati forti momenti di tensione, basti pensare agli sforzi di Bill Clinton, tramite la sua rappresentante permanente all’Onu, poi segretario di Stato, Madeleine Albright, di impedire in ogni modo all’egiziano Boutros Boutros-Ghali di ricoprire un secondo mandato alla guida dell’organizzazione, favorendo invece l’elezione di Kofi Annan, più vicino alle posizioni della Casa Bianca sulla crisi nei Balcani. O ancora, si ricordano gli scontri tra l’amministrazione Bush e lo stesso Annan sull’invasione non autorizzata in Iraq, nel 2003; oppure la nomina dell’ambasciatore John Bolton come rappresentante permanente all’Onu, da parte proprio di George W. Bush, nel 2005.

Per chi l’avesse dimenticato, la nomina dell’ambasciatore Bolton, un diplomatico di lungo corso fortemente critico dell’organizzazione, fu fortemente osteggiata dai democratici in Senato tanto che, al fine di evitare una possibile bocciatura in aula, il presidente Bush assegnò l’incarico a Bolton durante un periodo in cui il Senato non era in sessione, sfruttando un’ambigua (e abusata) interpretazione della costituzione.

La buona notizia è che le Nazioni Unite sono sopravvissute ai quasi due anni in cui Bolton è stato ambasciatore a New York. Quella cattiva è che lo stesso Bolton è tra i candidati che Donald Trump sta considerando per ricoprire il ruolo più prestigioso nell’amministrazione americana, dopo quello di presidente e vicepresidente: il segretario di Stato.

Dopo otto anni di proficua collaborazione tra il segretariato dell’Onu e l’amministrazione Obama, che hanno portato al raggiungimento di uno storico accordo sul clima e alla definizione degli obiettivi di sviluppo sostenibile da raggiungere entro il 2030, i prossimi quattro anni potrebbero marcare una significativa inversione di tendenza, e rappresentare una sfida inaspettata e complicata per il prossimo segretario generale, António Guterres.

È bene dunque chiedersi quanto il presidente eletto Trump intenda investire nelle istituzioni e, in particolare, cosa pensi delle Nazioni Unite.

I possibili nomi del nuovo segretario di Stato degli Stati Uniti

L’Onu e gli stati membri si sono prefissati obiettivi ambiziosi per i prossimi anni: favorire lo sviluppo economico delle regioni del mondo più povere; trovare soluzioni ai problemi del cambiamento climatico; sostenere il mantenimento della pace nelle zone più critiche del mondo, dando mandato, se necessario, a missioni di pace e politiche speciali.

Attraverso il Consiglio di sicurezza e i comitati ad hoc per le sanzioni, gli stati membri lavorano incessantemente per risolvere le grandi crisi internazionali, dalla situazione in Libia e in Siria, alla non proliferazione di testate nucleari, fino al terrorismo, in particolare quello di Al Qaeda e di Daesh (acronimo arabo per Isis, ndr). Per non parlare poi dell’attività legata alla promozione e alla protezione dei diritti umani nel mondo.

Fare previsioni su come l’amministrazione Trump tratterà queste questioni è difficile e molto dipenderà, appunto, dalla nomina del segretario di Stato. Per ora, sembrano favoriti l’ex sindaco di New York Rudy Giuliani, considerato un falco nel partito repubblicano; l’ex governatore del Massachusetts e candidato alla presidenza per i repubblicani nel 2012 Mitt Romeny; e, sebbene le sue quote siano in calo, anche l’ambasciatore John Bolton.

Nelle ultime ore iniziano a circolare altri nomi, come quelli dei generali Jack Keane e John Kelly, e il senatore repubblicano del Tennessee Bob Corker. È invece più recente la nomina di Nikki Haley, come rappresentante permanente all’Onu, ora occupata da Samantha Power. Se confermata dal Senato, Haley sarebbe una ambasciatrice a New York con scarsa esperienza di politica estera, da cui è difficile sapere cosa aspettarsi.

Alcuni commentatori, come riportato dal sito statunitense Politico, hanno fatto notare che aver deciso chi ricoprirà il ruolo di rappresentante permanente all’Onu prima della nomina del segretario di Stato e di quello alla Difesa sia un’indicazione che Trump ritenga importante il ruolo dell’organizzazione nello scacchiere internazionale.

È invece possibile che la nomina di Haley, governatrice della South Carolina dal 2010 e figlia di immigrati indiani, sia stata annunciata così presto per placare alcune critiche, per aver a oggi selezionato quasi esclusivamente maschi bianchi nella propria amministrazione.

In ambienti diplomatici a New York, qualcuno avanza addirittura l’ipotesi che il nuovo segretario di Stato sarà una figura di secondo piano per la definizione della politica estera americana rispetto al National Security Advisor, ruolo che sarà ricoperto dall’ex generale Michael Flynn.

Haley, in ogni caso, è considerata una mainstream republican, con posizioni di sicurezza nazionale dure, ma forse più tradizionali di quelle dello stesso Trump, con cui aveva spesso litigato durante la campagna elettorale, avendo sostenuto Marco Rubio e poi Ted Cruz, prima di annunciare timidamente che avrebbe votato proprio per il candidato repubblicano alla presidenza.

La nomina di Haley, dunque, potrebbe essere una carezza di Trump all’establishment del partito e potrebbe indicare che anche per la posizione di segretario di Stato, la sua squadra stia cercando una figura più appetibile per i repubblicani al Senato, come Mitt Romney.

In ogni caso, sarà lo stesso Trump a dover chiarire i punti fermi di una piattaforma di politica estera che in campagna elettorale non è mai stata veramente chiara ed è oscillata tra posizioni isolazioniste e concilianti con la Russia, e altre interventiste, come quando ha dichiarato di voler “bombardare pesantemente l’Isis”.

Inoltre, solo nelle ultime settimane, dopo aver dichiarato, poco dopo essere stato eletto, di volersi ritirare dall’accordo di Parigi sul clima, ha promesso in un’intervista al New York Times che avrà un approccio senza pregiudizi sui cambiamenti climatici.

Credere a quello che dice Trump, insomma, è molto complicato. Ho dunque raccolto le opinioni e i pareri di alcuni diplomatici che conoscono bene le Nazioni Unite e che hanno scelto di parlare con TPI a condizione di rimanere anonimi.

John Bolton

Il ruolo degli Stati Uniti al Palazzo di Vetro non potrà mai essere secondario, non fosse altro perché Washington è il più grande contribuente al bilancio dell’organizzazione, finanziando il 22 per cento delle sue spese generali, più del doppio rispetto al secondo maggiore contribuente, il Giappone. Gli Stati Uniti, inoltre, finanziano il 28.5 per cento del bilancio delle missioni di pace, senza contare l’erogazione di sostanziosi contributi volontari alle varie agenzie, come Unicef.

Come fa notare un diplomatico europeo, contattato via email, che preferisce non essere citato, “è evidente che l’Onu rischia di rimanere esposta sul piano finanziario e che un cambiamento di rotta dell’amministrazione potrebbe avere conseguenze dirompenti sul suo futuro”.

Proprio in merito al bilancio, per esempio, le dichiarazioni dell’ambasciatore Bolton si fanno interessanti. Al di là della non troppo velata critica all’efficacia ed efficienza dell’organizzazione, già citata in precedenza, Bolton, a cui, secondo il quotidiano Chicago Tribune, “non piacciono per niente le organizzazioni internazionali, che siano le Nazioni Unite, la Corte penale internazionale o i meccanismi che vietano i test nucleari”, sostiene che gli Stati Uniti debbano trattare tutti i propri contributi al bilancio dell’Onu come volontari.

In un editoriale per il quotidiano Boston Globe, da lui firmato e pubblicato poco più di un anno fa, sostiene che altri stati membri dovrebbero essere incoraggiati a fare lo stesso, menzionando in particolare Giappone, Germania, Gran Bretagna e Francia. Per far capire quanto sia radicale la posizione di Bolton sul tema, l’amministrazione di George W. Bush, dal 2002 al 2008, ha bloccato l’erogazione di 34 milioni di dollari annui, già autorizzati dal Congresso, come contributo volontario a Unfpa, il Fondo delle Nazioni Unite per la popolazione, accusato di sostenere le pratiche di aborti e sterilizzazioni forzate portate avanti dal governo cinese.

Fu un grosso scandalo ai tempi, perché le accuse si rivelarono infondate, ma le conseguenze, per Unfpa e le sue operazioni, furono disastrose. Durante quel periodo, molti programmi dedicati a dare sostegno ai governi di paesi in via di sviluppo nel campo della salute riproduttiva sono stati abbandonati. Per esempio, l’assenza di fondi ha impedito la riqualificazione di strutture sanitarie, l’acquisto di macchinari medici fondamentali e la distribuzione di contraccettivi in molti paesi in via di sviluppo, in particolare in Africa.

Sono in diversi a temere che l’amministrazione Trump potrebbe smettere nuovamente di finanziare l’Unfpa — secondo stime conservative l’impatto sul budget sarebbe di circa 30 milioni di dollari annui — e soprattutto che questa decisione potrebbe avere conseguenze pessime sull’atteggiamento generale rispetto ai diritti sessuali e riproduttivi.

Eppure, senza certo sminuire il problema che scaturirebbe dalla nuova mancata erogazione dei fondi a Unfpa, in quel caso, si tratterebbe di negare l’erogazione di fondi volontari a una singola, pur preziosa, agenzia.

Provare a immaginare l’impatto che la proposta dell’ambasciatore Bolton avrebbe sui programmi di tutte le agenzie e operazioni dell’organizzazione non è difficile: implicherebbe la fine delle Nazioni Unite.

Nel momento in cui uno stato membro, tanto più il maggior contribuente, decidesse di finanziare solo ciò che ritiene essere direttamente nei propri interessi di breve periodo, l’organizzazione delle Nazioni Unite non avrebbe più senso di esistere. Il patto sul quale l’Onu si basa e sul quale si regge la definizione del suo bilancio, ossia quello per cui si arriva sempre a una soluzione condivisa e mai (o quasi) a un voto, si romperebbe, mettendo a rischio l’esistenza stessa dell’organizzazione.

Tornano dunque alla memoria alcune parole dello stesso Bolton che, nel 1994, dichiarò che “non esistono Nazioni Unite, esiste una comunità internazionale, che all’occorrenza può essere guidata dall’unica vera grande potenza rimasta nel mondo, ossia gli Stati Uniti, quando dovesse essere utile per i nostri interessi e quando si riuscisse a convincere gli altri a sostenerci”.

Rudy Giuliani

Eppure, negli ambienti diplomatici newyorkesi, l’eventuale nomina di Bolton alla posizione che è oggi di John Kerry non sarebbe neppure lo scenario più temuto. Il premio per l’uomo più pericoloso andrebbe consegnato, infatti, a Rudy Giuliani, ex sindaco di New York durante gli attacchi terroristici dell’11 settembre 2001, nonché fedele alleato di Donald Trump.

Nel Palazzo di Vetro, infatti, sono in molti a sussurrare che Bolton, perlomeno, abbia esperienza, venendo da una carriera diplomatica di lungo corso ed essendosi occupato in prima persona di tematiche internazionali. A riguardo, un diplomatico europeo ha commentato via email che tra i due “ci sono profonde differenze in partenza, le differenze che intercorrono tra chi non sa nulla e chi sa tutto, sebbene non necessariamente ne si condividano le posizioni”.

Il portavoce di Ban Ki-moon, interrogato sul tema, ha peraltro confermato che l’attuale segretario generale e l’ambasciatore Bolton “hanno un buon rapporto”. La politica estera in cui crede Rudy Giuliani, invece, sarebbe “un buco nero”, affermano alcuni. La sua nomina è sostenuta dagli alleati più radicali e visibili di Trump, come per esempio Newt Gingrich, ex speaker repubblicano della Camera, che lo descrive a Politico come un lottatore, la persona giusta per quel ruolo dato che il “mondo non cambierà solo perché ci presentiamo [ai negoziati] e diciamo ‘per favore’. Se questa strategia funzionasse, il segretario Kerry avrebbe successo”.

Di Giuliani, che nel 1995 espulse Yassir Arafat da un concerto al Lincoln Center per celebrare il cinquantesimo anniversario dalla nascita delle Nazioni Unite perché sarebbe stato implicato nell’omicidio di americani, sappiamo perlomeno quale sia la sua posizione sul terrorismo. Alla convention repubblicana dello scorso luglio, quando Donald Trump ha accettato formalmente la nomination per rappresentare il partito repubblicano alla carica di presidente, ha dichiarato che “non dobbiamo avere paura di definire chi è il nemico, ossia il terrorismo. Estremista. Islamico”.

In generale, comunque, le sue posizioni di sicurezza nazionale sono tra le più estreme e bizzarre nel partito. Per esempio, ha recentemente dichiarato che “nel breve periodo l’Isis è il pericolo maggiore [per gli Stati Uniti], e non per la sua presenza in Iraq e in Siria, ma perché ha fatto qualcosa che Al Qaeda non ha mai fatto: l’Isis è stata in grado di espandersi in giro per il mondo”.

Per essere uno che è stato sindaco di New York durante l’attacco al World Trade Center, questa dichiarazione lascia perlomeno perplessi. Eppure, a fronte di posizioni vicine a quelle di Trump sulla Russia, che Giuliani non ritiene sia una minaccia dal punto di vista militare, l’ex sindaco di New York è stato ed è ancora un sostenitore dell’invasione dell’Iraq e della politica di regime change portata avanti dall’amministrazione di George W. Bush, che il presidente eletto ha, invece, bollato in passato come stupida.

Poco chiari sono anche i suoi rapporti con alcune organizzazioni e governi stranieri. Giuliani, definito “poco diplomatico” dal proprio biografo, ha fatto lobbying per l’azienda Citgo, sussidiario di Petróleos de Venezuela S.A, posseduta interamente dal governo venezuelano e, stando a quanto riporta il network statunitense Cnn, anche a favore del governo del Qatar.

È inoltre stato pagato per parlare favorevolmente del gruppo marxista iraniano Mujahideen-e Khalq, che il dipartimento di Stato ha definito un gruppo terrorista fino al 2012.

Insomma, immaginare in che modo una persona come Giuliani possa rappresentare la politica estera americana e di riflesso le posizioni di Washington all’Onu è certamente complicato. Per qualcuno “seguirebbe la tradizione anti Onu del primo mandato Bush”, ma cosa ciò implicherebbe non è chiaro.

Mitt Romney

Romney, invece, sarebbe una scelta che tranquillizzerebbe la diplomazia mondiale e lo stesso vale anche per i diplomatici al Palazzo di Vetro. Nel 2015, per esempio, Romney ha dichiarato di credere che i cambiamenti climatici esistano, che il pianeta si stia surriscaldando e che l’uomo contribuisca, almeno in parte, a questo fenomeno.

Questa posizione si discosta da quella che Trump ha tenuto in campagna elettorale e una nomina di Romney sarebbe un modo per rasserenare i diplomatici che a New York temono pericolosi passi indietro su questo tema.

Un diplomatico di un paese europeo, interrogato via email sulla questione, esprime grande preoccupazione, definendo “inconcepibili nel ventunesimo secolo alcune posizioni del presidente eletto di uno dei due paesi che emettono più anidride carbonica”.

Alla domanda specifica su cosa ritiene possa cambiare con l’amministrazione Trump, ha risposto: “Sappiamo che gli oceani erano una questione che stava a cuore a John Kerry, penso che ora invece la grande maggioranza dei diplomatici coinvolti [in tematiche ambientali] da tutte le missioni abbiano paura della vittoria di Donald Trump, perché potrebbe porre fine [ai progressi] in questo settore”.

La nostra fonte ha aggiunto che “negli ultimi anni, l’amministrazione americana è stata un attore chiave nella creazione di aree marine protette e in generale si è fatta promotrice di politiche a favore di un pianeta e di oceani puliti, facendone una propria priorità (per esempio ospitando l’annuale conferenza Our oceans, che quest’anno si è tenuta a Washington)”. E ancora “tutto questo potrebbe cambiare improvvisamente, andando a impattare direttamente alcuni negoziati dove si riteneva che la posizione degli Stati Uniti stesse evolvendo in una certa direzione”.

Le posizioni di Mitt Romney si discostano da quelle di Trump anche sulla Russia. Mentre il presidente eletto sembra volere una distensione delle tensioni con Mosca, Romney, invece, da candidato alla presidenza nel 2012 disse che la Russia rappresenta il più grande “nemico geopolitico” degli Stati Uniti, aggiungendo, durante l’ultimo dibattito presidenziale con il presidente Obama, sempre nel 2012, che la “Russia ci dà battaglia in continuazione alle Nazioni Unite”, per sostenere la propria tesi.

In ogni caso, la nomina di Romney, che pure accontenterebbe l’establishment repubblicano e la comunità internazionale, sarebbe fortemente osteggiata da alcuni dei supporter più fedeli della candidatura di Trump, tra cui Kellyanne Conway, che ne ha guidato la campagna elettorale, ma anche Newt Gingrich e Mike Huckabee, che non hanno perdonato all’ex governatore del Massachusetts di essere stato tra i critici più feroci del magnate newyorkese.

Romney aveva infatti definito Trump “un truffatore” e “un falso” in un discorso di qualche mese fa, aggiungendo che “la sua politica estera renderebbe l’America e il mondo meno sicuri”.

Nuova sintonia tra i membri permanenti nel Consiglio di sicurezza

In ambienti diplomatici si sostiene che proprio per via delle posizioni di Trump sulla Russia, potrebbe essere più facile trovare all’Onu una soluzione alla crisi siriana, facendo notare che quando gli americani e i russi lavorano insieme, come per l’elezione di Guterres, le conseguenze sono positive.

In effetti, l’elezione di Trump, seguita nel maggio 2017 da quella possibile di Marine Le Pen in Francia, potrebbe dare vita a un Consiglio di sicurezza con cinque membri permanenti che non erano da tempo così in sintonia. Che questo possa portare a risultati positivi è tutto da verificare.

Insomma, sul ruolo che gli americani terranno all’Onu nei prossimi quattro anni è difficile fare pronostici.

Una nostra fonte che preferisce rimanere anonima afferma che “durante gli otto anni dell’amministrazione Obama, gli Stati Uniti sono stati aperti e costruttivi all’Onu, e abbiamo assistito a una straordinaria sintonia tra le loro posizioni e quelle degli europei, che tradizionalmente considerano il multilateralismo un obiettivo prioritario nelle relazioni internazionali. Ne è conseguito un rafforzamento del ruolo dell’Onu, che ha così potuto realizzare una serie di successi politici di grande rilievo, non da ultimo l’accordo di Parigi”.

Tuttavia, “prevedere l’impatto di Trump sulla diplomazia degli Stati Uniti, e in particolare sul futuro dell’Onu, non è compito agevole”.

Un’altra fonte diplomatica confida “a livello personale, alcune cose [dette dal presidente-eletto], sono davvero preoccupanti”.

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