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Perché è sempre colpa nostra

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Una riflessione di Pamela Schirru sulla violenza contro le donne a partire dagli ultimi tragici fatti di cronaca

“Mi sono addormentata e mi sono svegliata in un posto completamente diverso. Ricordo solo che un uomo era sotto di me, uno sopra e due mi tenevano ferma. Intorno altre persone ridevano di me. Mi avevano drogata. C’erano molte persone con delle pistole e ricordo che alcuni ragazzi ridevano e parlavano”. A parlare è la ragazza brasiliana di 16 anni, vittima dello stupro compiuto da un gruppo di trenta uomini a Rio de Janeiro, in Brasile. La vicenda ha scatenato le reazioni dei cittadini che sono scesi in piazza nei giorni successivi e la rabbia degli utenti sui social network. 

“Non solo mi hanno violentata, ma hanno ferito la mia anima. La gente mi giudicherà e dirà che è stata colpa mia, ma non è vero. Mi hanno sottratto tutto, anche il mio corpo”. Sono parole dure quelle pronunciate dalla giovane vittima nella lunga intervista rilasciata all’emittente americana CNN. “So che non ci sarà giustizia, che mi dovrò vergognare. In un primo momento non volevo neanche dirlo a mia madre. Soprattutto, so che il sistema giudiziario non farà nulla, e allora non mi resta che attendere la giustizia di Dio. Arriverà tardi, ma a questa nessuno potrà sottrarsi”. 

Ho letto diverse volte questa intervista e ho voluto riproporre alcuni passaggi della triste ricostruzione di quegli attimi di violenza vissuti dalla giovane brasiliana. Una storia, la sua, simile alle migliaia che si verificano in ogni angolo del mondo, spesso ignorate, dimenticate o non adeguatamente raccontate. 

E mi sono posta delle domande che potrebbero suonare banali o alle quali sicuramente non sarà possibile dare una risposta valida. Perché la responsabilità è sempre di noi donne quando ci stuprano o ci violentano? Ce la cerchiamo se decidiamo di indossare quel vestito corto a fiori che avevamo acquistato giorni addietro in un negozio del centro città? Siamo noi che lo abbiamo voluto, perché quel giorno abbiamo scelto di indossare una scarpa più femminile, rispetto alle solite ballerine comode che indossiamo ogni giorno per andare a lavoro?

Ebbene sì, mie care! Siamo noi ad aver attirato l’attenzione di quell’uomo – pardon, di quel maschio. Lo abbiamo fatto per come ci scostiamo i capelli dal viso, per il nostro portamento e il nostro abbigliamento giudicato “troppo provocante”. Sì, perché l’idea maschilista che indossare una minigonna equivalga a voler dire “guardatemi tutti, sono disponibile” è inossidabile. Sì, siamo sempre noi le colpevoli se quell’uomo ci lancerà dell’acido per cancellare ogni traccia della nostra femminilità, se ci picchierà, se ci ucciderà o se ci darà fuoco.

Siamo sempre noi le responsabili morali, anche se siamo state ferite irreparabilmente non solo nel fisico, ma anche nell’anima. Lo saremo anche nei casi peggiori, ovvero quando qualcuno deciderà che non abbiamo più diritto a vivere quella vita che ci verrà così sottratta. A fare il resto ci penserà l’opinione della gente. Verremo giudicate sotto tutti i profili.

Si dispiaceranno che siamo state uccise ma penseranno anche “chissà che aveva fatto lei per provocarlo”, oppure “sì, lui era un tipo geloso”, come se la gelosia ossessiva rappresentasse un elemento inscindibile di un rapporto fra due persone. L’ossessione non è espressione d’amore, né la gelosia estrema rappresenta il termometro attraverso il quale misurare lo stato di salute di una relazione. Al contrario, sono armi letali che annientano il fisico e l’anima. 

A volte, questo processo distruttivo comincia in maniera quasi impercettibile. Esso si alimenta giorno dopo giorno dell’odio e del disprezzo di chi ci vuole annientare. Può capitare che ti offenda, ti umili, ti dica che non vali nulla senza di lui, mentre lui, al contrario, è migliore di te. Poi comincia a controllarti, a spiarti e a isolarti dal resto del mondo. E l’età anagrafica non conta, così come non conta il legame sentimentale che vi lega a quell’uomo. 

Quelle stesse mani maschili che prima ci accarezzano, poi si accaniscono contro di noi. Mani che infilano nei nostri corpi decine di coltellate, mani che ci strangolano, mani che ci trucidano. Il tutto in nome dell’amore. Parlano così di raptus. Dicono che lui non voleva farci del male, ma ha perso la lucidità. Era incapace di intendere e volere. Dicono anche che non avrebbe mai potuto fare del male neanche a una mosca. 

Lei aveva deciso di lasciarlo. Neanche il tempo di elaborare il lutto per la rottura che lei ha trovato subito il tempo di frequentare un altro. Zoccola! Questo è il pensiero che balena nella mente di quell’uomo troppo debole e vigliacco, per cui l’unica punizione che può infliggere pari al dolore per la sua perdita è la morte. “Lui la amava troppo”, si sente spesso ripetere, e il troppo amore l’ha spinto a commettere un omicidio. No, non è troppo amore. Si tratta solo bieco egoismo. Lei è mia e non potrà essere di nessun altro. È una proprietà privata. 

Per ritornare alla domanda iniziale, probabilmente non è facile trovare una risposta, soprattutto in contesti in cui domina l’idea arcaica che io ti amo e quindi ti posseggo, che ha alimentato e alimenta ancora oggi molti, troppi, rapporti sentimentali. Non è nemmeno facile pensare a come noi donne potremmo salvarci la vita, quando ci sentiamo in pericolo. A volte non abbiamo il coraggio di denunciarlo, altre volte abbiamo paura di perdere tutto, compresa la nostra dignità. Spesso pensiamo che sia stato solo un momento, poi tutto passerà e tornerà ad amarvi come prima, più di prima.

Non credeteci, non abbiate più fiducia! Lui non cambierà mai.

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