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Le ombre sul futuro della Giordania

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L'analisi di Federico Solfrini e Simone Massi

In Medio Oriente il regno sabbioso di Giordania, creato nel 1921 col patrocinio del Regno Unito, si trova sull’orlo del baratro. Accoglie profughi dai suoi paesi vicini, ha carenza d’acqua, non ha risorse energetiche e la sua economia peggiora giorno dopo giorno. 

Due mesi fa il Senato ha approvato in via definitiva il bilancio statale per il prossimo anno. Ancora una volta il Parlamento ha confermato di essere un organo superfluo di uno stato diretto dal sovrano, che non è un monarca assoluto ma ha di fatto il controllo totale del paese.

Il re Abdallah II è piuttosto amato dai suoi sudditi. Governa dal 1999 quando morì suo padre, l’amatissimo re Hussein. L’affetto dei giordani per la monarchia è stato evidente anche nel 2011: le proteste di piazza che hanno sconvolto il mondo arabo sono arrivate anche ad Amman, ma non hanno determinato un cambio di regime. 

Il re seppe cogliere il messaggio della piazza e sostituì il primo ministro al-Bakhit con Awn Shawkat al-Khasawneh, politico di lungo corso e giudice stimato alla Tribunale Penale Internazionale. Dall’ottobre 2012 è il veterano Abdallah Ensour a guidare il governo, fedele alle indicazioni della monarchia.

Anche i due organi legislativi sono fedeli al re: il senato è nominato dal monarca in persona, mentre la camera ospita soprattutto candidati indipendenti filo-monarchici. A riprova di questo affiatamento, la bozza di bilancio del governo è stata trasformata in legge dal parlamento senza alcuna modifica. Ma non è la divisione dei poteri a essere la prima delle preoccupazioni.

Il bilancio giordano del 2016 conferma i numeri degli anni passati. La Giordania occupa uno spazio di terra arido fra il fiume Giordano e il deserto iracheno, e deve importare quasi tutte le risorse che utilizza. Nel 2011 il crollo di Mubarak ha determinato il collasso dello stato egiziano: tra le conseguenze più immediate, il gasdotto che collega l’Egitto alla Giordania è stato colpito da diversi attentati, che ne hanno diminuito la portata.

Il regno hashemita di Giordania ha perso una quantità importante di gas che gli egiziani vendevano a prezzo ribassato. Da quel momento in poi la National Electric Power Company, che gestisce l’acqua e l’elettricità della Giordania, incide per il 17,8 per cento sul bilancio statale.

L’economia giordana è sempre stata debole e dal 2011 ha continuato a peggiorare. La Giordania ha perso tantissimi turisti spaventati dagli sconvolgimenti in Medio Oriente, nonostante non siano mai arrivati a colpirla. Inoltre i due principali partner commerciali, la Siria e l’Iraq, sono finiti entrambi in una guerra civile che ha impedito di mantenere gli affari con la Giordania. 

Il debito pubblico del regno hashemita è raddoppiato in cinque anni, arrivando oggi al 90 per cento del Pil, crescendo ogni anno con un deficit del 3 per cento.

La situazione disastrosa dell’economia non è passata inosservata e in più occasioni il Parlamento ha cercato di moderare la spesa pubblica, ad esempio tagliando i sussidi. L’energia elettrica è di fatto gratuita per la maggior parte dei giordani che non hanno consumi alti, ma il Parlamento ha introdotto un aumento graduale del 7,5 per cento ogni anno, provocando molte critiche, soprattutto tra i più giovani.

Qualche settimana fa l’Economist scriveva che la Giordania è arrivata ormai al “punto di ebollizione”. Le condizioni economiche sempre peggiori mantengono disoccupati i giovani giordani, che sono la maggioranza della popolazione. I giovani soffrono una classe politica anziana – il primo ministro Abdallah Ensour ha 77 anni – e non hanno più riferimenti politici.

Il Fronte dell’Azione Islamica, il ramo giordano della Fratellanza Musulmana, è di fatto l’unico partito del paese. Insignificante in Parlamento, dove occupa solo 6 dei 110 seggi, da due anni ha subito una scissione interna che ha portato alla nascita dell’Iniziativa di Costruzione Giordana, meglio nota come Zamzam. Molti leader storici sono passati alla nuova associazione, mentre il Fronte ha perso ogni riferimento politico dopo l’esperienza disastrosa della Fratellanza in Egitto.

Il timore è che il vicino Stato Islamico, che preme alla frontiera settentrionale e costringe alla fuga migliaia di profughi, possa presentarsi come un’alternativa valida per i giovani giordani, insoddisfatti e preoccupati per il proprio futuro. Un giordano su tre è disoccupato e vede di cattivo occhio i rifugiati siriani, spesso accusati di aver aumentato la criminalità nel paese.

Il rischio che i giovani finiscano nelle mani dello Stato Islamico è una possibilità neanche troppo remota, che ha convinto il Congresso americano a stanziare altri 450 milioni di dollari di aiuti militari alla Giordania. Ma gli stessi aiuti sono ormai la principale voce di bilancio del paese, che si appoggia ai contributi stranieri per il 9 per cento del bilancio e indebolisce la già fragile economia giordana.

Mentre in queste ore Federica Mogherini si trova ad Amman per confermare l’alleanza strategica tra l’Unione Europea e la Giordania, bisogna chiedersi se la Giordania non possa diventare presto una vittima della tempesta perfetta tra delegittimazione politica e crisi economica, in cui lo Stato Islamico potrebbe inserirsi quanto prima.

Le premesse di questo si sono avute i primi di marzo al nord del paese nella cittadina di Irbid, dove il General Intelligence Department (GID) ha smantellato una cellula jihadista connessa allo Stato Islamico e formata da soli cittadini giordani. Quello di Irbid è stato il primo confronto della Giordania con lo Stato Islamico entro i suoi confini nazionali.

Le poche informazioni diffuse riportano che i membri della cellula disponevano di armi, munizioni e cinture esplosive e che stavano pianificando attentati contro non specificati target civili e militari. Anche se non ci sono certezze circa la reale connessione della cellula di Irbid allo Stato Islamico, ci sono motivi reali di preoccupazione.

In Giordania, infatti, fin dal 2015 il leader islamico locale Abu Mohammed al-Tahawi ha giurato fedeltà allo Stato Islamico e ha facilitato il reclutamento di giovani foreign fighters per rinvigorire l’esercito del califfo in Siria. Stando alle stime di Hussein al-Rawashdeh, esperto di movimenti islamisti, in Giordania ci sarebbero almeno 7mila salafiti, 2mila dei quali fedeli allo Stato Islamico e almeno 1.300 già partiti verso i teatri operativi di Siria e Iraq. 

La Giordania ha una lunga storia di attivismo salafita che trova le sue origini nei tardi anni Settanta, quando molti giovani foreign fighters giordani si arruolarono come mujahedin nella Brigata Islamica Internazionale e si recarono in Afghanistan per difendere il paese dall’invasione sovietica.

Al loro rientro in Giordania, molti di questi combattenti hanno organizzato attentati e sono stati arrestati per reati di terrorismo. Il salafismo giordano trova terreno fertile nelle aree più povere del paese come Zarqa e Ma’an. Nella diffusione del salafismo in Giordania ha inciso particolarmente l’atteggiamento politico garantista, che vedeva in essi un valido contrappeso alla crescita di prestigio della Fratellanza Musulmana. 

Nonostante in altre circostanze gli studiosi di terrorismo difficilmente rintracciano un nesso tra la povertà e la radicalizzazione alla violenza, nel caso della Giordania, sull’orlo della bancarotta e con una performance economica incapace di offrire standard di vita adeguati, questo legame appare evidente. In tale contesto, molti giovani marginali e sulla soglia dell’indigenza potrebbero subire la fascinazione del califfato. Che siano prezzolati o terroristi di vocazione non è dato saperlo. Ciò che invece sappiamo è che la grande recessione economica giordana alimenta e catalizza la loro radicalizzazione. 

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