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Saranno i cronisti i primi a salvarci dalla paura?

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L'analisi di Alberto Bomba

Qualche volta il giornalismo dovrebbe ricordarsi che mai come ora in Belgio c’è una società composta di tante comunità che non si parlano. Una società che per quanto sia ingenua, classista, ciecamente fiduciosa in determinati meccanismi che avrebbero dovuto garantire l’inclusione sociale e il dialogo tra comunità, merita di essere rispettata poiché suo malgrado è protagonista di uno degli anni più bui dell’Europa post 11 settembre. 

È chiaro che oramai un argomento come il terrorismo è un banco di prova per la professione giornalistica e per il giornalista. In termini generali, è facile cedere alla tentazione di mettere assieme pezzi di storie diverse, eterogenee.

Si cerca la notizia, si cercano rapporti di causa, coincidenze. Insomma, oggigiorno tanto è capillare l’informazione che la vera sfida per un giornalista sembra essere quella di trattenersi dallo scrivere, poiché il giornalismo assume la sua funzione storico-sociale proprio portando alla luce e in maniera chiara fatti riscontrabili.

Ma sopratutto, quando l’argomento è il terrorismo, non è tanto l’utilità o meno di un certo modo di fare giornalismo che viene messa alla prova.

Come avviene quella degenerazione per cui dal mettere in mostra la propria opera – un pezzo giornalistico, per esempio, o un intervento in un dibattito – si arriva alla spettacolarizzazione pura, in cui sono le proprie emozioni a prendere il sopravvento e a passare in primo piano?

Si pensi alla risposta che il Mozart di Milos Forman dà all’imperatore Giuseppe II, dopo che quest’ultimo lo rimprovera di “aver usato troppe note”.  Il compositore austriaco non tira in ballo l’utilità o meno delle note. “Neanche una più del necessario, Maestà”, risponde.

Non è facile accettare di limitarsi a riportare il numero dei morti e feriti e di aggiornarli ogni volta che una fonte ufficiale si fa sentire. Difficile, se non impossibile, non fare un accenno allo stato dell’arte per quanto riguarda i problemi dell’intelligence “europea”.

Si cerca di far luce su fatti per loro natura poco chiari. Nobile intento, perché si deve fare concorrenza al “complottismo” – deriva di ogni contemporaneità, ciclicamente etichettata dalla Storia come una spietata costante presente nei periodi di radicale cambiamento. Molte volte si preferisce far leva sull’emotività piuttosto che trovare una quadratura del cerchio degna di essere chiamata tale. Quando si parla di terrorismo è la mente stessa del giornalista a essere minacciata. Da una paura che non ha niente a che vedere con le regole del suo mestiere.

Persino il cronista più duro e puro ha paura. Perché anche lui è un essere umano, e in questo caso ha difficoltà a immedesimarsi nella parte del medico legale. Ha paura. Si instaura un rapporto empatico con l’ambiente circostante, vede, sente; inconsciamente ha paura di scrivere un articolo sul nulla. È difficile mantenere la lucidità e la devota obbedienza alla regole delle 5 W, perché, in fondo, il terrorismo è essenzialmente una questione privata. 

Il terrore fa leva su emozioni difficili da spiegare. È capace di muovere le masse perché esso stesso è percepito per mezzo di quelle stesse emozioni su cui si regge la fiducia per idee come democrazia, stato di diritto, benessere, Europa, pace; un insieme di simboli che sono parti integranti della nostra vita.

Queste emozioni sono proprio ciò che forma il legame tra noi e i nostri simboli, tra queste c’è anche la paura – interiorizzata in periodi di pace – ma che una volta risvegliata ci ricorda che viviamo da sempre in un rapporto contraddittorio con la realtà. 

Ecco, se si toccano in maniera sconsiderata queste emozioni, il rischio è che anche la fiducia nei simboli si affievolisca fino a deformare l’immagine che noi abbiamo di questi ultimi, trasformandoli in nulla.

Ecco, appunto, quel nulla che ritorna. Come Nietzsche – il quale aveva una concezione della felicità da tempo passata di moda – suggeriva, a colui il quale ha preso la decisione di lottare contro “i mostri”, di fare attenzione “a non diventare un mostro lui stesso”. E in un altro passo del suo Al di là del bene e del male, lanciava quello che oggi sembra un monito indirizzato al giornalismo spettacolarizzante: “…se scruti a lungo un abisso, anche l’abisso scruterà dentro di te”.

Solo chi ha vissuto, lavorato, studiato o fatto il cronista a Bruxelles in questi mesi sa quale sono quelle note “in più” rispetto al necessario. Chi vi ci ha vissuto in questi mesi ha quasi il dovere di condividere il senso di spaesamento che si prova nel sentire e leggere articoli di giornalismo in cui il Belgio viene descritto come uno stato fallito, in cui Bruxelles viene presentata come la Gomorra d’Europa, se non come una città in cui si deve girare armati per essere al sicuro.

Il terrorismo, lui sì, per definizione, deve spingere i simboli verso il nulla per esistere. Col passare dei giorni, dagli attacchi alla redazione di Charlie Hebdo di Parigi, e poi ancora più intensamente a seguito della tragedia di venerdì 13 novembre 2015, il numero di militari schierati per le piazze della capitale belga era sempre meno percepito alla stregua di estranei che cercano di entrare maleducatamente nella vita privata di una persona.

Anche questi, infatti, come il “livello 4 di allerta” erano diventati simboli. Questioni estetiche. Tant’è che in molti a Bruxelles ci avevano fatto l’abitudine. Non è stato un problema, e non lo sarà in futuro, passeggiare in compagnia di militari armati, prendere il treno con agenti in borghese armati di pistola; non sarà l’ennesimo controllo con il metal detector, magari prima di entrare nei padiglioni del vecchio giardino botanico, a toccare quelle emozioni su cui il terrorismo fa leva.

Il terrorismo, infatti, è evanescente fin tanto che non si manifesta materialmente. Solo a quel punto può far leva sull’animo umano, mettendolo alla prova di fronte a sentimenti che quest’ultimo a fatica riesce ad accettare; capaci di trascinarlo verso il nulla.

In fin dei conti, da almeno un anno qui in Belgio era chiaro a tutti che questa tragedia potesse accadere. E tutti si sperava che in qualche modo questo paese ne venisse risparmiato. Poi, quando sei giorni fa Abdeslam venne arrestato, alcuni di noi si stupirono più del fatto che questa notizia rimbalzasse da una fonte d’informazione all’altra, che non del fatto che fosse stato arrestato a Molenbeek. Al di là dei numeri sul terrorismo in Europa, erano delle “sensazioni indotte” a 360 gradi a infastidire se non a terrorizzare. Non era più sufficiente accettare che in questo mondo esiste una dimensione del conflitto che è immanente. 

Sono due le domande che ci si pone almeno una volta, vivendo in una città da più di un anno minacciata in maniera esplicita dal terrorismo: se questo attacco dovesse avvenire e io dovessi sopravvivere, potrò considerarmi come “uno che è sopravvissuto a un attacco terroristico” solo per il fatto che questo abbia colpito la comunità di cui faccio parte, o se vogliamo la città dove ho deciso di abitare?

È la mia persona ad essere sotto attacco, o quello che io rappresento, e quindi i simboli in cui io mi riconosco? È questa voglia di sapere che fa del terrorismo una questione privata. Non è stato più sufficiente pensare che alcuni simboli e convinzioni umane esistono proprio per limitare i danni di questo conflitto, e perché no tirarne fuori qualcosa di buono. 

Per questo si è cominciato a sentire il bisogno di vivere di più. Da tempo, per molti, erano quelle parole di troppo spese sull’argomento intelligence, erano le chiacchere da bar, erano le analisi pressapochiste a spingere i simboli di cui abbiamo parlato verso il nulla. Anche questo era, agli occhi di qualcuno, terrore indotto.

Ecco perché si preferiva uscire con gli amici la sera. Come va a Bruxelles? La risposta arrivava meccanica, perché non ci si voleva pensare troppo in fondo. E perché in fondo, forse, fino ad oggi è stata l’unica risposta possibile. 

Per molti è stato più fastidioso sentire l’opinionista o il giornalista di turno parlare di questo o di quella municipalità della regione di Bruxelles, sbagliandone la pronuncia se non addirittura il nome. Questo perché era qualcosa di molto più vicino a noi. Una questione privata.

Ogni pressapochismo ricordava a molti che si stava giocando col fuoco. E di episodi come questi se ne potrebbero citare a dozzine. Perché il Belgio è un posto complicato da capire, ha nomi complicati da pronunciare ed è un piccolo paese in cui vive una società in cui oggi la classe dirigente europea si può specchiare e guardarsi in faccia.

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