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Il difficile equilibrio tra la sicurezza e i diritti fondamentali

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L'analisi di Filippo di Robilant

Victor Hugo, deputato nella Deuxième République, scriveva nel suo diario: “Di fronte alle barricate, ho difeso l’ordine. Di fronte alla dittatura, ho difeso la libertà … Ho definito e limitato lo stato d’assedio… uno stato d’assedio, questo, inutilmente prolungato, che pesava sulla città di Parigi, sulle municipalità, sul credito, sugli affari, sulla fiducia della gente. Sono tra coloro che ne hanno chiesto ed ottenuto la fine”. (Choses Vues, Gallimard). 

Già nel 1849, dunque, il grande scrittore francese si poneva la questione della ricerca di un punto di equilibrio tra sicurezza e libertà, un tema ancora irrisolto al giorno d’oggi.

Cultura della sicurezza

In questi tempi, si sente tanto parlare di “cultura della sicurezza”: fa parte dello spirito dell’epoca. Ma è imperativo, allora, che ne faccia parte il tema della protezione dei diritti fondamentali individuali, con particolare riguardo al rispetto delle convenzioni internazionali; proprio come, viceversa, è in egual misura importante per il mondo del c.d. droit-de-l’hommisme fare proprie le esigenze di sicurezza. Come nel principio dei vasi comunicanti, il risultato cui puntare è quello di ottenere uguali livelli. 

Purtroppo non è mai stato così. Usa dire che si può avere “uno stato sicuro senza libertà, ma non uno stato libero senza sicurezza”. Il che darebbe ragione al filosofo inglese Jeremy Bentham, inventore del Panopticon (1791), che diceva: “quando sicurezza e uguaglianza sono in conflitto, non bisogna esitare un momento: l’uguaglianza va sacrificata”.

Oggi, alla luce anche del progresso tecnologico che consente una sorveglianza massiva e capillare su di noi, un equilibrio tra le due necessità si è avvicinato o si è ulteriormente allontanato?

Misure d’eccezione, tre paletti 

Il caso Apple/Fbi scoppiato all’indomani della strage di San Bernardino dimostra che siamo ancora lontani dal trovare un equilibrio condiviso nel settore della sorveglianza, per esempio nel definire gli obblighi delle società informatiche evitando automatismi nell’accesso ai loro codici. Pertanto, rimane aperta la questione di come preservare i benefici della rivoluzione digitale senza una pericolosa e incontrollata riduzione della nostra privacy.

Anche per questo dobbiamo porci il problema prima che governi impongano lo stato di emergenza, come è successo in Francia dopo gli attentati del 13 novembre, stabilendo qualche paletto affinché le misure d’eccezione siano proporzionali alla minaccia: per ottenere questo si propongono tre caveat.

Il primo. Misure d’eccezione che procurano una sospensione dei diritti fondamentali (coprifuochi, chiusura delle frontiere, chiusura di pubblici uffici, limitazione nella circolazione, arresti e perquisizioni senza mandato, etc.) non possono essere imposte ad oltranza, ma devono avere, previa autorizzazione del Parlamento,un preciso limite di tempo. Semmai, con possibilità, quando motivate, di essere prorogate, magari con misure attenuate a mano a mano che l’emergenza si affievolisce. Per capirci: i 30 anni ininterrotti di stato di emergenza, dal 1981 in poi, proclamati dal’ex presidente egiziano Hosni Mubarak non è, di tutta evidenza, un modello a cui guardare.

Il secondo. Misure d’eccezione devono avere un chiaro e credibile obiettivo, intelligibile all’opinione pubblica. Diffidare, insomma, di generalizzazione del tipo “siamo in guerra col terrorismo” o, peggio, “siamo in guerra con l’Islam”. Ricordiamoci che siamo usciti dagli Anni di Piombo applicando le leggi ordinarie e non ricorrendo a quelle speciali, proprio come la Francia non proclamò mai lo stato di assedio in Algeria per non legittimare i combattenti del Fnl.

Il terzo. Misure d’eccezione non devono mai prendere di mira gruppi specifici, siano essi etnici, religiosi, di genere o altro. Non solo perché si scontrerebbero con dettami costituzionali, ma perché creerebbero solo ostilità e ulteriore marginalizzazione.

Francia, se l’eccezione rischia di diventare la regola

La storica contrapposizione tra Ragion di Stato e Stato di diritto qui non c’entra. Anche nello Stato di diritto un’azione normalmente considerata illegale può diventare legale in base alla circostanze – “necessitas non habet legem” dicevano gli antichi romani – tuttavia sorprende che, dopo gli attentati del 13 novembre a Parigi, il governo francese, ritenendo che la legge sullo stato di emergenza del 1955 fosse superata e quindi giuridicamente fragile, abbia inteso inserire tale previsione in Costituzione. 

Ha detto il Premier Manuel Valls: “Lo stato di emergenza è un principio di diritto che vogliamo costituzionalizzare per fare in modo che le misure di eccezione siano meglio inquadrate nel nostro ordinamento”. 

Ma così facendo, la Francia – quella del Secolo dei Lumi – rende permanente la possibilità di ricorso ad una norma che affronta per definizione circostanze eccezionali: l’eccezione, insomma, diventa la regola. Con in più il rischio di passare dalla legittima difesa dei poliziotti a quello che viene chiamato “stato di necessità”, ossia che l’uso delle armi sia possibile quando ci si trova di fronte a persone che si suppone possano continuare a commettere atti criminali: un terreno, questo, davvero scivoloso.

Come aveva già correttamente rilevato Victor Hugo – ben centosessantasette anni fa – poteri esecutivi molto estesi, combinati con pochissimi controlli sulla loro applicazione, non possono che causare serie violazioni dei diritti fondamentali. Meglio che i suoi connazionali di oggi ci riflettano bene prima che una Marine Le Pen o suoi epigoni vadano al governo della République con poteri emergenziali sconfinati serviti su di un piatto d’argento. 

L’analisi è stata pubblicata da AffarInternazionali con il titolo “Sicurezza e diritti fondamentali: un connubio impossibile?” e ripubblicata in accordo su TPI con il consenso dell’autore 

*Filippo di Robilant è membro del Comitato Direttivo dello IAI

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