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Home » Esteri

La difficile convivenza tra due statunitensi prigionieri dell’Isis in Siria

Immagine di copertina

Una doppia intervista a Theo Padnos e Matthew Schrier, giornalisti catturati dal sedicente Stato Islamico e costretti alla condivisione forzata di una cella

Di cosa soffre un ostaggio dell’Isis? Qual è la più grande paura che avvolge chi si trova in questa condizione? Le privazioni, le torture, la paura di morire?

Per gli americani Theo Padnos (giornalista) e Matthew Schrier (fotografo), la parte peggiore di questo scenario è stata dover convivere l’uno con l’altro. Entrambi ostaggi del sedicente Stato Islamico, hanno dovuto condividere una piccola cella per sette mesi.

Intervistati dal settimanale tedesco Die Zeit, hanno accettato per la prima volta di testimoniare la loro esperienza estrema. Hanno però posto una condizione: essere intervistati separatamente per evitare di incontrarsi.

Theo Padnos è un giornalista americano di 46 anni. Durante una calda giornata d’estate è seduto nel suo cortile nel 11esimo arrondissement di Parigi. Padnos indossa pantaloni corti e infradito, e la sua bicicletta è pronta per gli allenamenti. La bicicletta è la sua grande passione, ed è stata la cosa che l’ha riportato in forma dopo i 22 mesi di sequestro in Siria.

Padnos parla a voce bassa, ricercando accuratamente il vocabolo, a volte in francese, in tedesco, ma anche spesso in arabo.

Theo Padnos: “Sono arrivato in Siria nell’ottobre del 2012. Il mio progetto era di condurre inchieste per diversi giornali. In Turchia, ho incontrato uomini siriani che mi hanno detto che potevano farmi attraversare la frontiera.

Appena arrivati in Siria, mi hanno consegnato ad alcuni militanti del Fronte al Nusra, la branca siriana di Al Qaeda. Sono stato chiuso in una cella nel sottosuolo. Quattro metri per sette con una porta di legno e una piccola finestra in alto. Le prime settimane mi hanno frustato con grossi cavi. “Chi ti ha inviato in Siria?”, urlavano. “La CIA, la CIA!”, rispondevo, anche se non era assolutamente vero. Era quello che volevano sentire””.

Matthew Schrier arriva da uno dei quartieri poveri appena fuori dalla Grande Mela. Ha 37 anni e fa il fotoreporter. È giunto in Siria per guadagnarsi denaro con le sue fotografie.

Del suo calvario siriano ha conservato un cappello di lana giallo e blu, quello che i terroristi gli hanno tolto dopo il suo rapimento.

Matthew Schrier: “Avevo passato tre giorni e tre notti sul fronte di Aleppo, con l’esercito siriano libero [che riunisce oppositori al regime del presidente Assad, ndr]. Allucinante! Adrenalina pura. Non sono il miglior fotografo del mondo, ma ho le palle.

Per realizzare la copertura per il New York Times, dovevo andare là dove nessuno ha il coraggio di andare. È così che mi sono ritrovato ad Aleppo. Ho preso un taxi per tornare in Turchia. Da solo. Era il 31 dicembre 2012.

In un posto di blocco ad Aleppo, il taxi ha invertito la rotta. Non ci capivo nulla. Il tassista non parlava inglese. Cinque minuti dopo, una Jeep ci ha tagliato la strada. Erano in tre. Tre uomini con il volto coperto e armati. Non ho opposto resistenza. Mi hanno messo dietro la Jeep e mi hanno coperto gli occhi con un cappello di lana. Mi hanno fatto entrare in una cantina.

Lì un tizio mi ha tolto il cappello. Indossava una cintura piena di esplosivo con tanti cavi. Proprio come i kamikaze che commettono attentati suicidi. Mi disse che si chiamava Mohamed. “Mi ucciderete?” “Ni” – Ok, mi sono detto: un terrorista con il senso dell’umorismo – Allora ho detto: “Buon anno!”, per mostrare che non avevo paura.

L’ha fatto ridere. Sono un uomo della strada, ho degli amici in prigione, dei quali uno per omicidio. So come parlare a queste persone. Mi hanno chiuso in una cella. Mi sono detto: Niente panico. Ci saranno giorni di merda, poi capiranno che non sei una spia ma un fotografo. Non avevo nessuna idea che ci fosse anche Theo lì dentro”.

Theo Padnos: “La prima volta che mi hanno prelevato pensavo di morire. Mi hanno bendato gli occhi e mi hanno fatto sedere per terra con le gambe piegate sopra uno pneumatico. Poi mi hanno messo a terra, avevo la faccia contro il cemento freddo e la pianta dei piedi in alto. Mi hanno colpito sui piedi e mi hanno ricoperto d’acqua. Credevo fosse sangue. In seguito, mi hanno detto: ‘Domani sarà peggio’. Abitualmente mi torturavano in un locale-caldaia che chiamavano gurfha al-mut – la camera della morte”.

Theo Padnos – Foto: John-adams.nl 

Matthew Schrier: “Io piacevo a Mohamed, gli piaceva ridere. Mi portava buone cose da mangiare, delle patate calde e delle cipolle ma anche bottiglie per pisciare e una candela. Tre settimane dopo la mia cattura, mi ha portato in un’altra cella. All’interno, nella penombra, qualcuno si è spaventato. “Amriki! Amriki!”, mi disse Mohamed. Un americano. Vidi un uomo barbuto terrorizzato”.

Theo Padnos: “Il mio primo pensiero è stato: ora ho un amico. Per tre mesi, non avevo parlato con nessuno ad eccezione dei miei torturatori. Ero felice. La prima notte, non abbiamo fatto altro che parlare, parlare, parlare”.

A questo punto, i due americani che neanche si conoscevano, ora erano compagni di cella, sarebbero potuti fuggire insieme? Nella prima notte passata insieme, i due capiscono immediatamente che questa possibilità non è così semplice.

Matthew Schrier: “Ho tentato di creare un legame con Theo, di farlo ridere. Un fallimento totale. Tutti dicono che sono uno simpatico. Sono anche riuscito a far ridere Mohamed, il tizio che torturava Theo.

Ho raccontato una storia del liceo a Theo: io e il mio miglior amico avevamo nascosto il registro del prof. Il tizio era arrabbiatissimo e ci trattò molto male. Tutti ridevano e il prof era davvero arrabbiato. E Theo mi disse che provava pena per il professore. “Ma, cretino! È il prof il vero bastardo, non capisci?”.

Poi Theo mi raccontò che era venuto in Siria per scrivere di Austin Tice, un altro giornalista americano che è stato rapito [nell’agosto del 2012, e da allora non si hanno più notizie, ndr]. Per me, significava che Theo era venuto a farsi dei soldi sulle spalle di un collega. Un collega che si trovava nella nostra stessa situazione. Da allora, ho iniziato a dubitare della sua personalità.”

Theo Padnos: “Volevo scrivere di Austin Tice. È il genere di storia che interessa i giornali americani. Ma mi interessavo soprattutto di tensioni religiose tra sunniti e alauiti. I giornalisti americani parlano solo dei bombardamenti, degli scontri o dei loro compatrioti rapiti. Non hanno il tempo di tuffarsi nella storia millenaria delle comunità siriane. Io sì, la conosco, e parlo l’arabo”.

Matthew Schrier: “Tutti gli altri ostaggi – Austin Tice, James Foley, John Cantlie – erano dei tipi tosti. Sarei andato d’accordo con loro. Invece mi sono dovuto trovare con questa mezza calzetta di Theo”.

Theo Padnos: “Non ci abbiamo messo molto a litigare. Un giorno, mentre Matt dormiva, mi sono pulito i denti come fanno gli arabi, con grani di girasoli. Non facevo molto rumore. Onestamente, fuori si udivano le bombe e i militanti urlare nei corridoi, ma Matt non sopportava il rumore che facevo io”.

Matthew Schrier: “Gli ho chiesto gentilmente di smetterla. Al mio terzo avvertimento, l’ho minacciato con un pugno davanti al volto dicendogli che la prossima volta, sarebbe stato più complicato lavarsi i denti se non li avesse avuti più”.

Theo Padnos: “Ha perso il controllo e mi ha letteralmente urlato contro. Dopo questo episodio non ci siamo più parlati per 24 ore. Ma Matt dipendeva da me perché parlavo arabo. Litigavamo spesso su questo. Non si fidava di me. E urlava sempre: “Cazzo, traduci, no!?”, gli spiegavo che non sarebbe stata possibile una traduzione letterale. Qualsiasi persona bilingue sa cosa voglio dire, ma lui no”.

Matthew Schrier: “Parlava arabo e si credeva una specie di guru. Eppure, senza parlare l’arabo, sono riuscito a farmi trattare meglio dalle guardie”.

Theo Padnos: “Mi ha anche colpito. Con niente esplodeva. Le cimici, ad esempio. Aveva un modo tutto suo di sbarazzarsene”.

Matthew Schrier: “Toglievo l’etichetta di una bottiglia e la piegavo schiacciandoci dentro le cimici. Era pulito. Theo le schiacciava per terra con le dita. Poi camminava nella cella e così facendo le spargeva ovunque . Gli ho chiesto di smetterla, due, tre volte. Poi l’ho colpito”.

Theo Padnos: “Stabiliva il suo dominio come un cane. Se non obbedivo, mi mordeva. Gli psicologi hanno studiato la reazione di un individuo in condizioni traumatiche. A volte la gente fa prova di creatività, come me: come ho avuto una penna e della carta, ho iniziato a scrivere un romanzo. Le persone più forti, invece, fanno subire agli altri, più deboli, quello che subiscono. È quanto ha fatto Matt.

Questo fenomeno si verifica spesso in carcere. Alcuni individui infliggono ad altri le umiliazioni che subiscono (come hanno dimostrato alcune ricerche). Questo gli permette di sentirsi più forti. Un comportamento, di fatto, notato in molte carceri”.

Theo Padnos: “Matt è stato in galera negli Stati Uniti”.

Matthew Schrier: “A 16 anni sono stato condannato a quasi due mesi di detenzione in un carcere di massima sicurezza per furto. Per quanto riguarda le mie violenze contro Theo, sono dovute al fatto che è sempre stato lui a provocarmi”.

Theo Padnos: “Per Matt ero un figlio di papà che aveva frequentato una buona scuola, una buona università, mentre lui era cresciuto per strada. Semplicemente era tutto ridicolo. Ero sporco, ero trattato come una spia della Cia in una prigione di Al Qaeda e lui era geloso di me!

Nel marzo del 2013 un marocchino è arrivato nella nostra cella. Un tipo da 120 chilogrammi. Per me si trattava di un uomo venuto in Siria per combattere con i jihadisti. Era stato colpito da un proiettile alla gamba.

La ferita era di almeno un mese prima e non era mai stata curata. Aveva vissuto negli Stati Uniti e parlava inglese. Era il genere di uomo che lasciava intendere che avrebbe causato problemi in poco tempo. Ma Matt era contento di aver qualcun altro con cui parlare”.

Matthew Schrier: “Il marocchino aveva il senso dell’umorismo. Gli ho raccontato la storia del prof., ha riso molto. Io e Theo non avevamo nulla in comune. Un giorno ho voluto giocare con le citazioni dei film con lui. ‘Say hello to my little friend!’. È una citazione di Scarface, ogni americano lo sa. Tranne Theo.

“Ma che guardavi quando eri giovane?” – “Leggevo”. Cazzo, era con questo idiota che ero bloccato 24 ore su 24: il mio esatto opposto”.

Theo Padnos: “Un giorno mi ha colpito perché non volevo giocare. Erano quasi 24 ore che giocavamo con le citazioni. Sceglieva dei rapper e personaggi famosi che non conoscevo. Che ne so io di come si chiama la madre di Bart Simpson? Non ho mai visto Arma letale. Mentre lui l’ha visto nove volte”.

Matthew Schrier: “Gli riconosco una cosa: ha scoperto dov’eravamo. Per terra è caduto un pezzo di carta con la scritta ‘Ospedale dei bambini di Aleppo”.

Theo Padnos: “Non ci è voluto molto, prima che il marocchino e che Matt iniziassero a litigare. Parlavamo in arabo e in francese e Matt non sopportava l’idea di essere messo da parte”.

Matthew Schrier: “Il 29 marzo [2013] erano due settimane che il marocchino era con noi. Ho pronunciato la Chadada. Quando il guardiano è venuto, il marocchino ha detto: “Matt è musulmano ora”. Tre giorni più tardi, un tipo imbacuccato di nero è venuto e mi ha dato il Corano”.

Theo Padnos: “Da quell’episodio, Matt e il marocchino non hanno smesso di ripetermi: “Perché non ti converti, imbecille?”. Mi trattavano come un infedele e mi vietavano di leggere il Corano. Erano sei mesi che non leggevo”.


Matthew Schrier – Foto: cbsnews.com 

Matthew Schrier: “Il 9 giugno [2013] ho festeggiato i miei 35 anni. Il marocchino mi ha fatto gli auguri, Theo no. È stato il peggior compleanno della mia vita”.

Theo Padnos: “A luglio ci hanno trasferito in un’altra prigione. Oggi so che si tratta dei vecchi locali di immatricolazione di Aleppo”.

Matthew Schrier: “Questa cella era nel sottosuolo. C’erano due finestre a circa due metri di altezza. Il muro era friabile e la griglia che copriva la finestra si muoveva. Il marocchino non ce l’avrebbe fatta a passare, allora non ho detto niente. Il 16 luglio, l’hanno portato via. Nessuna idea di cosa ne abbiano fatto. Dopo che se n’era andato, chiesi a Theo: ‘Credi di poter passare?’. Ha risposto di si”.

Theo Padnos: “La finestra era talmente alta che Matt doveva arrampicarsi sulla mia schiena per riuscire ad aprirla. Ho passato tre giorni a gattoni”.

Matthew Schrier: “Era il Ramadan. Ci portavano da mangiare prima che sorgesse il sole e poi non li vedevamo per tutta la giornata. La finestra dava su un cortile esterno. Non c’erano guardie”.

Theo Padnos: “Non volevo correre rischi ma Matt voleva uscire subito”.

Matthew Schrier: “Un giorno Theo non ha voluto che io salissi sulla sua schiena. Quindi ho preso il secchio che ci avevano dato per lavare la nostra roba e volevo salirci sopra. Mi ha detto: “Se sali su quel secchio chiamo le guardie – Vaffanculo!”. Poi ho visto che bussava alla porta: non riuscivo a crederci”.

Theo Padnos: “Sì, ho minacciato a chiamare le guardie. Mi aveva provocato. “Mi hai consegnato ai terroristi”, urlò. “No, non ti ho tradito”.

Matthew Schrier: “Qualche giorno dopo sono riuscito a smontare la griglia della finestra e mi sono detto “Cazzo: è il punto di non ritorno!”.

Theo Padnos: “Gli ho ceduto la priorità, per gentilezza”.

Matthew Schrier: “Se sono passato per primo è perché si sentivano continuamente spari. Aveva paura”.

Theo Padnos: “L’ho aiutato ad arrampicarsi, poi l’ho spinto ed è riuscito a uscire”.

Matthew Schrier: “Mi sono accovacciato nell’ombra della finestra, vedevo una finestra aperta con della luce. È là che dovevano essere i terroristi”.

Theo Padnos: “Gli ho passato le scarpe da ginnastica, una maglietta e il suo cappello. Poi gli ho teso la mano in modo che mi aiutasse a tirarmi fuori.Però sono rimasto incastrato con il torace nella finestra. Sento ancora il dolore. Ho avuto male per giorni.

Avevo la testa, le mani e le braccia all’esterno. Matt era rimasto bloccato nello stesso punto. Avrebbe dovuto aiutarmi ad uscire”.

A questo punto la storia diverge nelle testimonianze dei due prigionieri. Questo non significa necessariamente che uno di loro menta, ma che, probabilmente, hanno vissuto la cosa in maniera diversa.

Theo Padnos: “Per tirare qualcuno fuori da là, ci vuole forza. Avrebbe dovuto mettere i piedi contro il muro. Ma non l’ha fatto”.

Matthew Schrier: “Era incastrato in quella cazzo di finestra da un minuto circa. Quindi gli ho detto di togliersi la maglietta e di riprovare. Ho fatto diversi tentativi tirandolo per le braccia, ma non sono riuscito a tirarlo fuori.Io sono riuscito a fuggire.

Ho corso per mezz’ora sotto il sole che si alzava nelle strade deserte. Poi alcune persone mi hanno condotto all’Esercito siriano libero. Gli ho spiegato da dove venivo e che Theo era ancora lì. ‘Liberarlo? Impossibile!’ Era già un miracolo che fossi riuscito a fuggire. Nessuno fugge dalle grinfie di Al Nusra, mi hanno detto. Una macchina blindata è venuta a cercarmi e l’FBI mi ha interrogato per ore. Qualche giorno dopo ero a New York”.

Il Fronte Al Nusra aveva perso un prigioniero e un potenziale guadagno di alcuni milioni di euro. Secondo un’inchiesta del New York Times, le reti di Al Qaeda nel mondo arabo avrebbero estorto più di 100 milioni di euro per la liberazione di ostaggi dal 2008. 

Theo Padnos: “Il giorno dopo l’evasione di Matt, mi hanno chiesto di mostrare loro quello che era successo. Gli ho detto: ‘Matt si è arrampicato ed è fuggito. Ho bussato sulla porta ma non siete venuti’. Non mi hanno dato da mangiare per giorni, poi tutto è tornato come prima.

Era un sollievo, non essere più con Matt. Mi dicevo che Obama avrebbe potuto inviare la CIA a liberarmi. Partivo dal principio che Matt avrebbe spiegato loro dove mi trovavo. Due settimane dopo, ho scoperto che un giornalista del New York Times, Chris Chivers, aveva avuto una conversazione con Matt.

Chivers ha avuto la brillante idea di scrivere in un articolo sul fatto che avevo aiutato Matt a fuggire. La notizia fu ribattuta da molti e trasmessa anche dalla Cnn, e i terroristi ne sono venuti a conoscenza, capendo quindi che gli avevo mentito.

Mi hanno portato nel deserto nella zona di Deirel-Zor, nel nordest della Siria, e mi hanno chiuso in una stanza minuscola. Faceva un caldo insopportabile, in agosto, nel deserto siriano. Sono rimasto lì per sei settimane. Li supplicavo continuamente: ‘Aprite la porta, solo un po’, non respiro’.

Matthew Schrier: “Ho raccontato la mia storia a Chris Chivers del New York Times, dicendomi: ha un premio Pulitzer, saprà come trattare correttamente queste informazioni. Chivers è stato il primo a raccontarmi dell’esistenza del cosiddetto Stato islamico”.

Theo Padnos: “Le settimane passavano e diventavano mesi. Lo Stato islamico guadagnava terreno e i combattenti di Al Nusra sono dovuti fuggire da Deirel-Zor. Mi hanno portato con loro”.

Matthew Schrier: “Nell’ottobre del 2013 ho trovato l’account Skype di uno dei terroristi. Era uno dei capi della nostra prigione, come Mohamed. Ho trasmesso le informazioni all’FBI e ho detto loro che potevamo chiedere al governo del Qatar di contattare Kawa per negoziare la liberazione di Theo. Sapevo che Kawa aveva dei contatti in Qatar e, dopotutto, loro sono nostri alleati”.

Theo Padnos: “Col tempo ero diventato un sajinmohtaram, un ‘prigioniero rispettabile’. A volte avevo diritto a spostarmi liberamente. Un giorno uno di loro mi disse: “Ti libereremo presto, abbiamo bisogno di soldi”. Nell’agosto del 2014, dopo 22 mesi di prigionia, mi hanno liberato alla frontiera israeliana.

Ho appreso qualche tempo dopo che le autorità del Qatar hanno comprato la mia liberazione. Non ce l’ho con i terroristi. Se pensiamo a quello che hanno fatto gli americani in Iraq, si potrebbe quasi capirli. Ma Matthew Schrier non voglio rivederlo in nessun contesto. Sono stato prigioniero di Al Qaeda per ventidue mesi e i sette passati con lui sono stati i peggiori”.

Matthew Schrier: “Ho fatto tutto quello che ho potuto per aiutare Theo a uscire. Ho tentato di convincere l’esercito siriano di liberarlo. Ho suggerito la pista del Qatar all’FBI. Si, ci detestiamo, ma siamo americani. Gli ho inviato delle mail quando è stato liberato ma mi ha ignorato”.

Theo Padnos oggi sta preparando un documentario sulla sua detenzione. Sta anche per pubblicare il romanzo che ha scritto durante la sua prigionia, dopo la fuga di Matthew Schrier. Non è noto se le informazioni trasmesse da Schrier all’FBI abbiano effettivamente facilitato i negoziati del governo qatariota. L’FBI non commenta a riguardo.

Non è noto se il governo degli Stati Uniti ha autorizzato il pagamento di un riscatto o se ha sentito parlare di un simile progetto. I parenti di Theo Padnos avevano chiesto aiuto in Qatar e si erano riuniti con le famiglie dei quattro ostaggi americani James Foley, Steven Sotloff, Kayla Mueller e Peter Kassig. Solo Theo Padnos è stato rilasciato.

James Foley, Steven Sotloff e Peter Kassig sono stati giustiziati dai militanti del sedicente Stato islamico. Kayla Mueller è morta in un bombardamento.

* Traduzione a cura di Manuel Giannantonio 

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