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Il capodanno del Tibet

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Si chiama Losar. Inizia il 9 febbraio e dura 15 giorni. Secondo la tradizione tibetana, siamo nel 2143 e quest'anno è dedicato alla scimmia di fuoco

A partire dal 9 febbraio e per i 15 giorni successivi si celebra Losar, il capodanno tibetano. Questa è la festa più importante della tradizione tibetana: come in occasione del nostro Natale, per Losar le famiglie si riuniscono, passando insieme giornate che vengono dedicate al cibo e alla compagnia.

È una festività religiosa, quindi grande spazio viene dedicato alla visita di monasteri e alla preghiera. La tradizione vuole che quello che si fa per Losar sarà poi quello che si farà durante il resto dell’anno, quindi queste giornate sono tradizionalmente riempite di avvenimenti piacevoli.

Nei giorni precedenti all’inizio del nuovo anno, la casa viene pulita da capo a fondo, e vestiti nuovi vengono confezionati per tutti i membri della famiglia. 

Secondo la tradizione tibetana, quello che sta iniziando in questi giorni è l’anno 2143, e sarà dedicato alla scimmia di fuoco. In Tibet si segue un calendario lunare, quindi, come in Cina, Vietnam e altri paesi asiatici, e la data in cui cade capodanno cambia ogni anno.

La tradizione vuole che se nel nucleo famigliare è avvenuto un lutto nel corso dell’anno precedente, Losar non venga celebrato. Per questo motivo recentemente molte famiglie tibetane sia in esilio che in Tibet hanno smesso di celebrare la loro festa più importante. 

Il dibattito tra Cina e Tibet sulla sovranità delle terre dell’altopiano tibetano è una disputa che va avanti da decenni. Secondo la versione cinese, il Tibet è ed è sempre stato parte integrante della Cina. Secondo la versione tibetana, fino al 1950 il Tibet era una nazione indipendente che è stata poi invasa dall’esercito cinese in seguito alla nascita della Repubblica Popolare. 

Ciò che di fatto è vero, è che a partire dal 1959 la Cina si è impegnata nell’eliminare ogni forma di sentimento nazionale e movimento indipendentista tra la popolazione tibetana. 

Il 1959 marca l’anno in cui è iniziata la diaspora tibetana. Nel marzo di quello stesso anno, in seguito a una ribellione scoppiata a Lhasa, la capitale del Tibet, e poi diffusasi in tutto l’altopiano tibetano, l’esercito cinese sterminò centinaia di migliaia di persone e membri della resistenza tibetana. 

Dopo la rivolta e lo sterminio che ne è seguito, il Dalai Lama, tradizionalmente il leader religioso e politico del Tibet, si rifugiò in India, dove stabilì il governo tibetano in esilio. Negli anni che seguirono, le autorità cinesi applicarono un pugno di ferro sulla popolazione tibetana. Ogni forma di dissenso veniva fortemente punita con sentenze in carcere e morte. 

Manifestazioni di credo religioso erano fortemente vietate: la Cina cercava di eliminare la forte fede buddista che legava la popolazione tibetana al Dalai Lama, il leader in esilio visto come un traditore dalle autorità cinesi.  Questo processo si intensificò ancora di più a partire dal 1966 con l’inizio della Rivoluzione Culturale, durata fino al 1978 con la morte di Mao. 

A partire dal 1978 la religione è stata reintrodotta in Cina e in Tibet. Questo però non vuol dire che i tibetani siano liberi di professare il loro credo: basta infatti possedere una foto del Dalai Lama per venire incarcerati. Inoltre autorità cinesi sono perennemente stanziate all’interno o nelle vicinanze dei monasteri per monitorare da vicino le attività religiose dei tibetani. 

Pechino stabilisce forti limiti riguardo il numero di monaci e suore che possono far parte di ogni monastero e il contenuto degli insegnamenti religiosi, e impone programmi di rieducazione patriottica in cui monaci e suore sono forzati a denunciare il Dalai Lama e giurare fedeltà al governo centrale cinese.

Anche la popolazione laica è oggetto di politiche imposte dal governo: negli ultimi anni la Cina ha avviato una riforma in cui i pastori nomadi tibetani si vedono costretti a vendere il proprio bestiame e a insediarsi in villaggi costruiti dal governo in cui non esistono possibilità di inserimento lavorativo. 

Nel frattempo, imprese minerarie governative e private trivellano quello che per secoli sono stati i pascoli dell’altopiano tibetano, alla ricerca di litio, cromo, oro e rame. Nelle scuole l’insegnamento della lingua tibetana è limitata a poche ore alla settimana, mentre gli studenti sono obbligati a studiare in cinese e a essere oggetto di propaganda e forti controlli da parte delle autorità. 

Possedere una bandiera tibetana è un motivo sufficiente per essere arrestati, e telecamere di sorveglianza si trovano ovunque, pronte a registrare anche il minimo segnale di dissenso contro il governo cinese. Negli ultimi anni il numero di militari stanziati in Tibet è cresciuto esponenzialmente, con l’obiettivo di reprimere ogni forma di dissenso. 

Anche le più pacifiche forme di protesta contro il governo centrale o il crescente degrado ambientale sfociano in arresti e violenze da parte delle autorità cinesi. Quando nel 2008 un nuovo ciclo di proteste scosse l’altopiano tibetano, migliaia di persone vennero arrestate e torturate, centinaia uccise. 

Dal 2009 a oggi, 143 tibetani hanno scelto di darsi fuoco in una forma estrema di protesta contro il governo cinese. Anche in questo caso, il governo ha trovato il modo di punire la popolazione per questo tipo di manifestazioni, arrestando i famigliari di chi si immola dandosi fuoco con l’accusa di omicidio. 

Mentre dal 2013 il numero di immolazioni è diminuito, sono sempre di più le persone che organizzano proteste in cui si chiede il ritorno del Dalai Lama e la libertà per il Tibet. Immancabilmente, chi partecipa in questo tipo di manifestazioni viene arrestato dalle autorità. 

A gennaio 2016, l’organizzazione Freedom House ha stabilito che il Tibet è il secondo stato con meno libertà al mondo, dopo la Siria.

Dal 1959 a oggi il flusso di tibetani che scappano dal Tibet attraversando l’Himalaya a piedi per raggiungere l’India non si è mai fermato, e si calcola che vi siano più di 130mila rifugiati tibetani in tutto il mondo, la maggior parte dei quali vivono tra India, Nepal e Buthan. 

Da anni il Dalai Lama cerca di avviare un dialogo con le autorità cinesi per discutere la situazione del Tibet, senza aver mai ricevuto una risposta positiva da parte di Pechino. Nel 1989 gli è stato assegnato il Nobel per la Pace. 

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