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Ammalarsi di Parkinson a 10 anni

Immagine di copertina

Elisa racconta la sua storia di bambina affetta da una malattia che nell'immaginario comune colpisce solo gli anziani

Vivevo in un paesino della Brianza ed ero ancora alle elementari quando ho cominciato a sentirmi debole. Presto ho perso l’equilibrio e ho sentito che il baricentro si stava spostando in avanti. Quando il lato sinistro del mio corpo cominciò a irrigidirsi cominciai a trascinare la gamba sinistra. 

Consumavo sempre le scarpe sulla punta. Sono andata da mille dottori: fisioterapisti, neurologi, ortopedici. Nessuno ha mai pensato che fosse Parkinson perché ero troppo giovane, avevo soltanto dieci anni.

Sono peggiorata sempre di più e anno dopo anno sono apparsi altri sintomi, come il tremore e l’instabilità posturale. Anche camminare diventò difficile.

Finché, a diciassette anni, mi ritrovai quasi completamente paralizzata, dal dolore e dalla fatica; soltanto al mattino potevo fare qualche passo senza stancarmi. L’unico sintomo che non ho mai accusato è il blocco del linguaggio, che ho sempre tenuto allenato, e un cervello allenato significa molto nell’impossibilità del corpo.

Prima che compissi diciotto anni mi fu diagnosticata la DRD (distonia responsiva alla levodopa), per la quale i dottori mi prescrissero una medicina chiamata Sinemet. Tutto andava meglio con mezza pastiglia al giorno, ma la diagnosi del 2004 era sbagliata. Successivamente, grazie a test più specifici, mi fu diagnosticato il PARK 2, una forma di Parkinson genetico, era il 2006 e avevo 19 anni.

Quello che avevo capito della malattia era che non dipendeva da me; ma dovevo affrontare il dolore di essere diversa e non accettata dalla società. 

Anche la mia famiglia non sembrava in grado di aiutarmi; i miei genitori non riuscivano a essere il mio punto di riferimento, la mia lancetta, non ho mai avuto una direzione, non un sì o un no. Mi sentivo sola con la malattia e questo rese ancora più difficile il periodo in cui non avevo ancora una diagnosi.

Purtroppo sono cresciuta molto in fretta. Quando mi hanno diagnosticato la malattia non ero più una bambina e nemmeno una giovane donna che guarda al futuro, come sarebbe stato normale a 19 anni; allora non ne sapevo niente e pensavo di essere io il problema.

Il Parkinson è una malattia destabilizzante, e le medicine per tenerlo sotto controllo sono soltanto un rimedio temporaneo. Vivere con il Parkinson significa vivere con un taglio alla gola che sanguina continuamente, e io ce l’ho da 20 anni. Sanguina tutto il giorno, salvo nei momenti in cui sono sotto Sinemet e Requip. I farmaci non sono una soluzione; sono soltanto un tampone che fa smettere la ferita di sanguinare per un po’, ma tu lo sai che presto si riaprirà di nuovo.

La consapevolezza della malattia mi impedisce di affacciarmi al mondo come una persona di ventinove anni nel pieno delle proprie facoltà cognitive dovrebbe fare; la crisi è sempre in agguato. Combatto ogni giorno, ma non biasimo chi non lo fa. Alla fine credo che questa sia l’unica vita che mi è stata data e che valga la pena viverla.

Mia mamma non capiva cosa stesse succedendo. Continuava a mandarmi a scuola e quando mi portava dal dottore ci andavamo a piedi o in treno; non capiva che ero sempre stanca e debole per la malattia, ma in qualche modo provava ad aiutarmi. Mio padre non c’era spesso, però mi sosteneva a livello finanziario.

Me la sono sempre cavata con le risorse che avevo e non posso certo dire che il mio ambiente familiare mi abbia incoraggiata facendomi sentire un’eroina, anche perché i miei genitori si rendono conto soltanto adesso, dopo vent’anni, che ho un problema!

Sono partita da casa a vent’anni perché volevo provare a vivere una vita normale, senza aiuti di sorta. Mi sono iscritta all’università, ma l’ho lasciata quando ho trovato un lavoro in una grande libreria, dove adoro quello che faccio, e dove ho imparato cos’è che adoro; ora tutto sta diventando più difficile a causa della malattia.

Per quanto riguarda le reazioni della gente, devo dire che in genere nessuno mi ignora, anche perché è praticamente impossibile farlo! Ma le persone che mi circondano si dividono in due categorie: quelle che vedono Elisa e quelle che vedono la malattia, e io ho sempre preferito la prima categoria!

Durante i momenti “on”, le persone non s’immaginano nemmeno che abbia il Parkinson e non percepiscono che dopo pochissimo tempo la situazione potrebbe precipitare. Invece, quando mi vedono durante una crisi, potrebbero addirittura credere che io sia epilettica vista l’intensità del mio tremore e lo spasmo dei miei muscoli. 

La cosa più difficile per un’adolescente è dimostrare di non stare fingendo. Mi ricordo per esempio quando andavo a scuola dalle suore; una di loro mandò una lettera a casa dicendo di essere preoccupata perché facevo uso eroina… Aveva scambiato il mio tremore con i sintomi da astinenza, e convocarono addirittura mia madre per dirglielo. Dopo questo episodio lasciai la scuola!

Un altro grosso sacrificio di quegli anni fu vedere tutti i miei compagni andare in gita, mentre io ero costretta a rimanere a casa.. Mi ricordo quando i miei compagni andarono a Parigi e io dovetti rinunciare; mi mandarono una cartolina, una lettera e un souvenir, ma io ero comunque a casa.

Tra tutto, poi, c’è anche l’imbarazzo e la difficoltà di dire ai tuoi amici di camminare piano, perché non riesci a stare al passo, soprattutto quando sei nell’età in cui vorresti e potresti fare mille cose.

Ma i bambini hanno un istinto speciale, un po’ come gli animali; seguono la loro natura e per me fu naturale trovare rifugio a casa di mio nonno, anche se era molto anziano e malato di cuore. Ero il suo caregiver e lui era il mio.

Nonostante facesse fatica a muoversi mi cucinava sempre il risotto, ma soprattutto, mi ‘passava la Nutella sotto banco perché mia madre mi proibiva di mangiarla.

Quello che ho capito dal rapporto con mio nonno è che quando le persone si trovano alle due estremità della vita, la giovinezza e la vecchiaia, non sono intrappolate nei ruoli sociali. Anche se non ci incrociavamo spesso, perché trascorrevamo lungo tempo nelle nostre rispettive stanze, quando stavamo insieme e chiacchieravamo, più o meno consapevolmente, ci aiutavamo a vicenda; non c’erano dubbi sull’affetto che provavamo l’uno per l’altra.

A quell’epoca trascorrevo molto tempo anche con un’altra signora di nome Luciana; era come la mia seconda mamma e io l’adoravo perché potevo andare a trovarla ogni volta che volevo. Mi permetteva anche di attaccare i miei disegni al muro e di guardarla mentre cucinava. È quello che ho fatto dai sei ai tredici anni, finché purtroppo non è mancata. 

La nostra era un’amicizia senza età, un po’ come quella con mio nonno. Erano due persone libere che mi hanno dato la forza di andare avanti. Il resto l’ho trovato dentro di me. 

Quello che vorrei dire è che le persone dovrebbero essere se stesse; vorrei fossero capaci di dire al mondo: “è così che mi sento”. Senza paura. Senza suscitare la compassione di nessuno. Vorrei che le persone andassero oltre il proprio limite, e che vivessero.

L’articolo è stato pubblicato qui.

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