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Home » Esteri

Come la Francia dovrebbe combattere l’Isis in Siria

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Intervista a Jean-Baptiste Jeangène Vilmer, membro del Centro di Analisi Previsione e Strategia del Quai d’Orsay, il ministero degli Esteri francese

A Roma abbiamo incontrato Jean-Baptiste Jeangène Vilmer, membro del CAPS, il Centro di Analisi Previsione e Strategia del ministero degli Esteri francese. È un servizio creato nel 1973 che risponde direttamente al ministro. Il suo ruolo principale è di fornire al capo della diplomazia un secondo parere.

Hollande ha detto che la Francia è in guerra. Queste parole hanno conseguenze sul piano del diritto internazionale?

Le sue parole sottolineano l’importanza di quello che sta accadendo, ma non hanno conseguenze sul piano tecnico perché la guerra è un fatto politico e non una nozione giuridica. È da molto che non si dichiara una guerra, per esempio la Francia non lo fa dalla Seconda guerra mondiale.

“Siamo in guerra” ha un effetto maggiore sulla comunicazione politica ed è usato per insistere sull’importanza di quello che sta accadendo.

È da almeno due decenni che il terrorismo islamista colpisce in Europa e possiamo considerare di essere in guerra, ma oggi l’effetto delle parole di Hollande è diverso perché la popolazione è traumatizzata dagli attentati di venerdì 13. È da tanto che siamo in guerra, una guerra diversa, più a lungo termine e che non si combatte solo su un territorio preciso.

Come bisogna reagire?

Bisogna colpire più duramente l’Isis. E per fare questo sono necessari più mezzi.

Cosa dovrà fare la Francia?

Due cose possono essere fatte, ma personalmente penso che ne vada aggiunta una terza: un’operazione della Nato dovrebbe essere tenuta in considerazione.

Per cominciare bisognerebbe insistere con gli americani per far sigillare la frontiera tra Turchia e Siria. Se l’Isis può colpirci è perché ha dei mezzi e se li ha bisogna tagliarglieli e prosciugare le risorse.

Sopravvive perché ha preso soldi nelle banche, come è successo a Mosul, perché esporta petrolio, idrocarburi e gas. E tutto questo insieme al traffico umano di combattenti stranieri che vanno a ingrossare le fila dell’Isis passa dal confine turco.

Ma Ankara è tutt’ora ambigua. È contro l’Isis ma è ancora di più contro i curdi e questo fa sì che non ha fatto tutti gli sforzi necessari per combattere l’Isis.

Noi proviamo a lottare distruggendo gli impianti di idrocarburi. Negli ultimi giorni gli americani hanno colpito più di 160 camion cisterna e questo è un messaggio molto forte per tutti gli uomini alla guida di quei convogli. 

Senza misure aggiuntive, infatti, i bombardamenti potranno solo indebolirlo. In secondo luogo bisogna fornire più sostegno e più armi a quei gruppi che sono tra Assad e l’Isis, sono almeno 44.

Il problema è che gli obiettivi della comunità internazionale non convergono, i russi vogliono proteggere Assad, noi invece vogliamo che se ne vada, sia per ragioni morali, sia perché ormai il suo esercito è molto debole. Dobbiamo far capire a Mosca che il problema comune è l’Isis.

Un intervento di terra in Siria ancora non c’è stato, ma lei sostiene sia necessario, perché?

Non è stato scelto perché la mente vola subito al ricordo traumatico dell’Iraq e dell’Afghanistan e ha portato a credere che gli interventi di terra occidentali non funzionino.

Io però la penso in un altro modo: non si può distruggere l’Isis soltanto con i bombardamenti dal cielo, intervenire sul suolo è necessario. La questione è capire chi può farlo.

Per tanto tempo abbiamo creduto di poter fare affidamento sulle popolazioni locali, ma ciascuna di queste ha obiettivi diversi. I curdi intervengono solo nella loro zona per difendere il Kurdistan, non per Raqqa.

In questa zona del mondo ognuno ha i suoi interessi e spesso contrastanti, come abbiamo già detto l’obiettivo principale di Mosca non è distruggere l’Isis, ma proteggere Assad.

Secondo me è dunque necessario un intervento di terra di una coalizione occidentale, non un dispiegamento di forze come in Iraq, ma forze speciali che compiano azioni mirate e appunto per non ripetere gli errori del passato dev’essere coordinato dalle Nazioni Unite per arrivare a un processo di consolidamento di pace.

È quello che per esempio è mancato in Libia, dove c’è stato un intervento seguito da un ritiro e poi non c’è stato più nulla.

Ma la situazione attuale in Libia è la conseguenza di un intervento voluto e sostenuto dall’ex presidente francese Sarkozy…

In realtà la situazione è più complessa. L’intervento del 2011 sicuramente ha avuto un ruolo, ma non c’è un legame diretto con l’attuale caos libico.

Ci dimentichiamo sempre che nel 2012, per un anno e mezzo dopo l’operazione, la situazione era migliore nel Paese, tanto che i cittadini hanno organizzato le prime elezioni della loro storia. È solo dopo che poco a poco il caos ha preso il sopravvento.

Se fosse stato una conseguenza diretta dell’intervento si sarebbe scatenato immediatamente.

Noi avevamo proposto al nuovo governo libico di aiutarli, facendo quello che si chiama “consolidamento della pace” e loro hanno rifiutato. Una rinuncia che deriva dall’esempio iracheno, non voleva essere visto dalla propria popolazione come un governo instaurato o protetto da stranieri.

Lasciare Gheddafi al potere sarebbe stato meglio?

Abbiamo l’esempio siriano, Assad è ancora al suo posto adesso, 4 anni dopo l’inizio delle rivolte. Con Gheddafi avremmo potuto avere una situazione analoga perché la contestazione non sarebbe scomparsa, quindi si sarebbe arrivati a una situazione di guerra civile come in Siria. La crisi migratoria di cui risentiamo oggi sarebbe iniziata prima.

Credo che abbiamo avuto ragione d’intervenire in Libia, il problema è stato la gestione del dopo. Se mai avessimo insistito per restare questo sarebbe stato denunciato come del neo colonialismo. Invece quando uno non rimane e scoppia il caos si viene accusati aver lasciato fare … Dunque è sempre difficile.

Abbiamo visto il prezzo dell’intervento francese in Siria. Quale sarebbe il prezzo di un non intervento?

Non credo che l’attentato sia la conseguenza diretta dell’intervento francese in Siria, ci sarebbe stato lo stesso. È molto importante che il Paese era minacciato già prima dell’operazione in Siria.

L’Isis non sopporta quello che questo Paese è e i valori che la Francia difende.

La prova sta nella rivendicazione degli attentati del 13 novembre. Il gruppo spiega di aver preso di mira Parigi perché capitale dell’abominio e della perversione. Questo significa che la Francia è al centro del mirino per quello che è, prima di esserlo per quello che fa.

Perché la Francia sembra essere diventata il bersaglio principale dell’Isis?

Direi insieme agli Stati Uniti, ma la Francia è più facile da colpire, per una semplice questione geografica. I francesi in Siria sono più di mille, tornano in massa e poi è abbastanza facile spostarsi in Europa.

Alcuni terroristi che hanno colpito Parigi avevano il passaporto francese.

Le misure che Hollande ha annunciato di voler prendere non potevano essere adottate già lo scorso gennaio dopo la sparatoria nella redazione del settimanale satirico francese Charlie Hebdo?

Forse si sarebbe potuto decidere di intensificare i bombardamenti contro l’Isis prima, ma abbiamo un problema di capacità visto che la Francia è attualmente impegnata in cinque operazioni all’estero, di cui l’Iraq e la Siria ne costituiscono solamente una. Quindi non è facile.

A seguito degli attentati di gennaio abbiamo l’operazione “sentinelle” per cui 10 mila uomini, militari, sono impegnati sul territorio francese.

Questa decisione ha portato a molte discussioni perché ci si chiede se i militari non sarebbero utilizzati meglio in missioni all’estero piuttosto che nelle strade e nelle stazioni.

In questo caso c’è stato un buco nella comunicazione tra i servizi segreti dei Paesi?

Per forza. Però è difficile, si parla di loro quando succede un attentato. È impossibile essere infallibili. A quanto pare la cooperazione tra Francia e Belgio è stata fallimentare, evidentemente c’è stato un problema di comunicazione.

Come ne esce la Francia da questo attentato? Più debole o più forte?

Credo ne esca più forte perché ha rinforzato la nostra determinazione. Sapevamo già il perché del nostro intervento in Siria, ma a posteri ha giustificato alcune nostre azioni. Per esempio la decisione di incrementare i nostri bombardamenti in Iraq e in Siria è stata criticata da alcuni giuristi.

Quindi andava dimostrato che c’era una minaccia imminente che giustificasse il nostro intervento … ed ecco hanno avuto la dimostrazione. Combattevamo in Siria proprio per evitare questo genere di attentati. Purtroppo non ha evitato questo, ma forse i nostri bombardamenti ne hanno evitati altri. Non lo sapremo mai. Sicuramente questo attentato ci ha reso più determinati.

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