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Lo psicodramma italiano di fare la guerra

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Ciascuno può scegliere liberamente di rifiutare la guerra in nome della morale, ma pretendere di far rispettare questa scelta a uno stato non ha senso. L'opinione

La società civile italiana ha una profonda vena pacifista politicamente trasversale: da destra a sinistra, dal centro agli estremi, gli esponenti pacifisti hanno seguito in ogni partito.

S&D

Chi per motivi etici e morali, chi per ragioni ideologiche, chi per paura di prestarsi a giochi complottistici poco chiari, un consistente bacino elettorale pacifista rende difficile schierarsi a favore di interventi armati italiani all’estero.

In particolare dopo la guerra in Iraq del marzo del 2003, l’opinione pubblica ha sviluppato un enorme scetticismo sulla legittimità dell’impiego della forza fuori dai confini nazionali.

Sebbene gli sbagli del passato segnino la violenza di stato all’estero con un marchio indelebilmente negativo, l’uso della forza e il suo monopolio assoluto – sia all’interno che all’esterno del Paese – sono la principale prerogativa dello stato-nazione da che è stato pensato. 

L’Italia ha dimenticato questa verità in virtù della delega fatta agli Stati Uniti della propria sicurezza nazionale per troppo tempo e oggi diamo per scontato che la presenza pacifica dell’Italia nel contesto internazionale avvenga a costo zero, sia in termini di denaro che di legittimità.

Ed ecco che le voci sull’ammodernamento della difesa vengono liquidate come spese inutili a priori, troppo spesso senza scendere nel merito delle critiche, e mentre da una parte si parla di intervenire contro il terrorismo internazionale (in che modo non si sa), dall’altra si rifiuta un intervento armato.

L’ideale quadratura del cerchio sarebbe la creazione di una forza armata europea, che ridurrebbe sia i problemi di costi che di legittimità, ma questa soluzione è molto lontana dal realizzarsi e nel frattempo l’Italia deve trovare un rimedio che, anche a costo di scontentare parte dell’opinione pubblica, ricordi ai nostri partner internazionali che Roma prende parte attivamente nelle crisi globali.

Oggi l’Iraq richiede un intervento internazionale che lo supporti nello sconfiggere le forze dell’Isis sul suo suolo. Cosa faranno i partiti che ora si proclamano pacifisti a priori? 

Manifestazioni nelle strade contro l’intervento armato contro l’Isis in Iraq mentre Baghdad chiede soccorso?

Forse neppure il male assoluto dell’Isis riuscirà a far riconsiderare l’intervento armato una delle prerogative dello stato italiano. Perfino il Giappone, dall’altra parte dell’oceano rispetto all’Isis, ha rinunciato al pacifismo modificando la sua costituzione.

Ma questo è successo dopo l’uccisione di due giornalisti. Sembra quasi che l’Italia aspetti le prime vittime italiane dell’Isis per sentirsi pienamente legittimata a intervenire. 

Per quanto ancora ci nasconderemo dietro l’articolo 11 della costituzione, il celebre “L’Italia ripudia la guerra come strumento di offesa alla libertà degli altri popoli e come mezzo di risoluzione delle controversie internazionali“?

Ripudiare l’uso della guerra significa riconoscere la prevalenza assoluta del dialogo, della diplomazia e della pace nelle dispute tra stati, non di eliminare l’impiego della forza tra le possibilità a disposizione dello stato, unico soggetto veramente autorizzato a farne uso; in altre parole una formula simile al mantra di Isaac Asimov “La violenza è l’ultimo rifugio degli incapaci”. 

L’uso della forza è uno strumento di politica estera per ogni stato e anni di evoluzione non hanno cambiato la realtà delle cose. Non è l’unico, né il primo, ma il fatto che in passato sia stato abusato non deve eliminarlo dalle scelte a disposizione.

Ognuno di noi può compiere le proprie scelte morali di rifiuto della violenza e soprattutto della violenza organizzata a fini politici conosciuta come “guerra”, ma pretendere di far rispettare questa scelta umana a un’organizzazione statale non ha senso. 

Lo stato nasce con una vocazione violenta, mirata a togliere dalle mani del singolo la possibilità di nuocere ai suoi simili e a punirlo nel qual caso la prevenzione non funzioni. 

A livello internazionale questa responsabilità non ha canali standard di applicazione ma una regola che tutti gli stati-nazione hanno mostrato di voler far rispettare negli ultimi secoli è l’esclusiva delle organizzazioni statali all’uso della guerra e la squalifica di tutti gli altri soggetti, che si tratti di organizzazioni partigiane o terroristiche, dai rivoluzionari spagnoli che si opposero a Napoleone ad al-Qaeda, dai partigiani postcoloniali dell’Indocina fino all’Isis.

Quello di cui oggi si discute è molto semplice: siamo in grado di differenziare il senso dell’uso della forza contro uno stato sovrano come era l’Iraq nel 2003 – fatto unicamente per pagare il prezzo dell’alleanza atlantica in termini di fedeltà – dalla richiesta del martoriato governo iracheno contro le milizie armate dell’Isis che stanno mettendo a ferro e fuoco il Medio oriente?

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