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L’arte contro il cancro

Immagine di copertina

La lettera di una donna che ha perso la vista all'occhio sinistro per via di un tumore, ma che ha continuato a fotografare

Vorrei raccontarvi la mia storia. Eppure, mi risulta così difficile scrivere, ora. Cancello, riscrivo. E cancello nuovamente.

Ricomincio. Io sono nata a Roma, 32 anni fa. Una bimba normale.

Ma a due anni e mezzo si è scoperto che, invece, ero nata col tumore. Nata, già morente, per i dottori.

Il fatto è che una fotografia, scattata maldestramente da mia madre, aveva incuriosito qualcuno: mostrava una mia pupilla bianca, invisibile dal vivo.

Fui portata per precauzione dal dottore e la diagnosi fu immediata: Retinoblastoma, il cancro degli occhi. Per salvarmi la vita, ho perso l’occhio.

È così che si dice, vero? “Perdere” un caro, “perdere una gamba, il lavoro o l’amore”. È questa la forma gentile.

Ma in realtà non si perde un arto, o una persona: ci viene strappato via, tolto come un infante dalle braccia di una madre urlante. E si è condannati poi a vagare tutta la vita, a cercare quel pezzo, ma inconsapevolmente.

Ed è stato questo il mio affannoso viaggio: per città, per professioni, progetti, relazioni. Eppure, ovunque andassi, quel vuoto restava.

Un anno fa ho finalmente trovato il coraggio di vedere quel nulla. Ma ci sono precipitata dentro. Il dolore di quel buio mi ha mangiato, d’improvviso.

Il mio frenetico agire è diventato, d’un tratto, un letargico agonizzare. Ero sola, immobile nella mia stanza, incurante della vita, come in attesa di una sentenza a morte, già ufficializzata.

È stato allora che la fotografia è riapparsa, per salvarmi una seconda volta; nell’apatia delle mie giornate, tutte uguali, in cui io non sentivo più nulla, nemmeno la fame, nemmeno la speranza, ho preso in mano la macchina fotografica.

E senza sapere, ho iniziato a scattarmi. Credo che in quei giorni, e poi in quei mesi, la fotografia mi abbia tenuto in vita, come quei macchinari pieni di tubi dei grandi ospedali.

Sono stata poi scoperta da un artista brillante e segnalata a un critico, che ha poi scritto di me. “Le tue foto sono arte“, arrivano alla gente come un pugno, sono poesia crudele.

Così ho continuato con le mie serie Autoscatti sbagliati e Retinoblastoma, foto che ho deciso di mettere in vendita, per donare tutto il ricavato alla ricerca contro il cancro.

Il tumore mi ha tolto la possibilità di vedere come voi. I miei colori sono più netti, così i miei chiaroscuri, e le mie prospettive più piatte.

Ma la fotografia mi ha dimostrato che per vedere, vedere davvero, non servono gli occhi.

Ora vivo a Londra, e continuo a scattare. Ho intenzione di avviare qui un’associazione che riunisca gli artisti che vogliono lottare insieme a me per trovare fondi attraverso le loro opere volti alla ricerca contro il cancro.

In Italia mi hanno detto che questo è impossibile. Ma non lo è anche una semi-cieca che fa foto?

di Ilaria Facci*

* Ilaria Facci è nata a Roma nel 1982. A due anni e mezzo si è ammalata di tumore, Retinoblastoma all’occhio sinistro. Nel 1992 si è trasferita con la madre e la sorella a Buenos Aires, in Argentina. Nel 2000 è tornata a Roma, dove si iscrive alla facoltà di Lettere, presso La Sapienza; dopo circa un anno ha abbandonato Lettere per iscriversi all’Accademia di Costume e Moda.

Ha poi continuato gli studi con un Master in Comunicazione, e ha studiato cinema, fotografia e musica presso il DAMS, a Roma. Nel 2009 ha viaggiato spesso a Barcellona. Nel 2010 si è trasferita a Milano per intraprendere la carriera di Stylist e di costumista.

Durante questo periodo ha collaborato con nomi importanti, quali il fotografo Mustafa Sabbagh, redazioni quali Cosmopolitan, e marchi internazionali, come L’Oreal e Nikon. Nel 2012 ha viaggiato in Armenia. Nel 2013 ha abbandonato la carriera di stylist e si è trasferita a Londra.

Dal 2014 ha pubblicato in magazine d’arte e di fotografia per i suoi Autoscatti sbagliati, tra cui Kritikaonline, Vogue.it, Inside Art, Untitled Magazine. Attualmente vive a Londra. 

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