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I tesori rubati di Cipro

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Quarant'anni dopo l'invasione turca e il saccheggio di chiese e monasteri, Cipro combatte per riprendersi i suoi capolavori artistici



Le forme più crudeli di oltraggio indirizzate a un popolo e al suo patrimonio artistico e culturale non hanno luogo solo in Cina, in Africa o nel centro America.

Anche in Europa si possono riscontrare casi di questo tipo, spesso ancora aperti e irrisolti.

Nello specifico, basta spostarci nella parte nord di Cipro, dal 1974 occupata dai soldati di Ankara, che si è unilateralmente proclamata Repubblica Turca di Cipro del Nord.

Questa regione dell’isola è stata la culla di gran parte del patrimonio storico-artistico cipriota, del periodo bizantino (dalla fine dell’Impero Romano al 1192), lusignano (dal 1192 al 1489) e veneziano (dal 1489 al 1570).

Fino a che, in meno di 30 anni, le chiese e i monasteri sono stati demoliti o adibiti a stalle, magazzini, pollai. Lo scempio non si ferma qui: le opere d’arte sono state trafugate e rivendute a mercanti e collezionisti senza scrupoli.

Uno dei mercanti turchi più noti e criticati è Aydin Dikmen, conosciuto per aver venduto, alla fine degli anni Ottanta, gli affreschi del XIII secolo della chiesa di Sant’Eufemiano a Lysi, ritrovati poi presso la Menil Foundation, una collezione privata in Texas, e i mosaici della chiesa della Vergine Kanakaria a Lythrangomi, del VI secolo.

Dikmen, insieme all’olandese Michel van Rijn e a Robert Fitzgerald, riuscì a vendere a Peg Goldberg questo patrimonio artistico per un milione di dollari.

La donna cercò di farli acquistare dal J.Paul Getty Museum in California, che però prese contatto con le autorità cipriote. Ciò portò l’Interpol sulle tracce del mercante turco e dei suoi appartamenti a Monaco di Baviera. 

Proprio nei lussuosi appartamenti di Dikmen, nel 1997, gli agenti trovarono, nascoste nelle intercapedini tra le pareti e il pavimento, 300 opere d’arte provenienti, secondo le autorità cipriote, da almeno 50 chiese situate nel nord dell’isola.

Tra le opere ritrovate, alcune erano le pitture a muro della chiesa della Vergine Pergaminiotissa, che risalivano al XII secolo d.C. Altre, come quelle provenienti dalla chiesa di Santa Solomone, erano datate IX secolo d.C. Il valore di altri capolavori sottratti, come icone, mosaici, pergamene, manoscritti, non è di certo degno di minore considerazione. 

All’epoca, Aydin Dikmen fu sottoposto alla custodia della polizia, in attesa che il processo avesse inizio. Tuttavia, il traffico di opere d’arte non è regolato adeguatamente dagli statuti e dagli accordi internazionali, e i vuoti legislativi nella disciplina di questo tema sono ancora numerosi.

Un altro, enorme ostacolo si è presentato con l’inizio del processo: la Germania aveva firmato la Convenzione contro il traffico illecito di beni culturali, senza però averla mai ratificata. 

Per tutte queste ragioni, le accuse contro Dikmen decaddero formalmente, e dopo circa un anno l’uomo venne rilasciato. La richiesta di estradizione del mercante da parte di Cipro rimase inascoltata.

Secondo lo storico bizantinista tedesco Johannes Deckers, la maggior parte dei reperti conservati negli appartamenti di Monaco, era di provenienza cipriota.

Tuttavia, la conferma dell’origine delle opere incontrò innumerevoli ostacoli e richiese molto tempo per venire alla luce. In base alla sentenza, arrivata solo nel marzo 2013, e di natura esclusivamente nazionale, solo 170 opere furono riconosciute di sicura provenienza cipriota.

La delibera dei giudici considerò illecita la proprietà di Dikmen e obbligò il collezionista a favorire il ritorno in patria delle opere, pena il pagamento di una somma fino a 7,3 milioni di euro. 

Eppure, come dimostrato nel processo, il suo modus operandi era molto preciso: il mercante registrava e catalogava tutto ciò di cui entrava in possesso, fotografando e disegnando le opere prima, durante e dopo il furto.

La sua attività non si fermava qui: l’uomo produceva falsi certificati e vendeva come originali le copie dei mosaici, servendo il mercato nero. Facile immaginare che non potesse agire da solo, ma attraverso una tela ben organizzata e intessuta nel mondo nascosto dei ricettatori e dei mercanti d’arte di tutto il mondo.

Infatti, non è un caso che l’olandese Van Rijn, pentito, fu minacciato di morte se avesse deciso di collaborare con la polizia. Ciò condizionò in modo significativo lo svolgimento del processo. Aydin Dikmen, oggi, è libero.

L’elemento più paradossale è che Dikmen si sia rivolto alla Corte d’Appello tedesca, affermando che le opere fossero il patrimonio della moglie, e ha chiesto un sostanzioso risarcimento alla chiesa cipriota.

Il 16 marzo scorso la Corte di Appello ha preso posizione sulla sorte delle ultime 83 opere d’arte trovate a Monaco: è stato ordinato il rimpatrio per 34 reperti, mentre, per gli ultimi 49 capolavori, Cipro non è riuscita a provare al di là del ragionevole dubbio che anche questi le appartenessero. 

Porfirio, il vescovo di Neapolis, ha definito questa battaglia artistica una “lotta continua”, suggellando il fatto che la Repubblica cipriota sia fermamente intenzionata a rientrare in possesso dei capolavori sottrattigli nel momento in cui le opere verranno messe all’asta dalla Corte Municipale di Monaco.

Tuttavia, la Repubblica cipriota non intende riacquistare le opere, sostenendo che il mancato pagamento nello svolgimento dell’asta compenserebbe i 500.000 euro con cui Dikman dovrebbe risarcire la Repubblica.

La situazione non può non incidere sulla fragilità politica del paese: sebbene siano passati 40 anni dall’invasione turca di Cipro, le speranze di rivedere la nazione unita si affievoliscono sempre di più. 

Ioannis Eliades, direttore del Museo Bizantino di Nicosia, che nel 1974 era appena un ragazzo, mi attende davanti al museo, contento di poter esporre al mondo la difficile questione cipriota.

Il curatore del museo mostra orgoglioso icone e dipinti splendidi, del IX, X e XI secolo, pur riservando per la fine del tour l’opera principale, quasi a volerne sottolineare, con l’attesa, l’importanza.

È l’affresco della cupola che sovrasta la chiesa di Sant’Eufemiano, quell’affresco venduto molti anni fa da Aydin Dikmen, scovato poi negli Stati Uniti e trasferito in patria dopo un lungo e delicato lavoro di restauro.

Eliades quasi si commuove, mentre illustra le peripezie di quello che adesso è il simbolo dell’identità nazionale del suo popolo. Le sue parole commosse danno voce al valore degli affreschi, delle icone, dei manoscritti e dei mosaici da cui si è circondati nel museo.

Queste opere d’arte, però, non godono dell’importanza che meriterebbero: esse sono ancora conservate nel cellophane e in capienti cartoni di polistirolo.

Sono centinaia, e sono tutte quelle meraviglie recuperate fino adesso dal traffico illegale, capolavori con cui i ciprioti recuperano la propria memoria, troppo a lungo dimenticata.

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