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Crimini contro la rivoluzione culturale

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Il trattamento riservato ai prigionieri politici in Tibet

Chi viene accusato di un crimine politico in Tibet non ha alcun diritto alla difesa di un avvocato. Ma anche se il sistema lo permettesse, nessuno si azzarderebbe mai a schierarsi dalla loro parte. Con gli assassini e gli stupratori, invece, gli avvocati non si fanno alcuno scrupolo”.

A parlare è Phuntsok Wangdu, quarantenne originario del Kham, la regione più a Est del Tibet. Phuntsok ha passato cinque anni della sua vita in carcere, durante i quali è stato ripetutamente umiliato, picchiato e torturato. Dopo esser stato rilasciato nel 2001, in condizioni di salute precarie, è fuggito in India attraverso il Nepal. Oggi lavora con un’organizzazione che supporta gli ex-prigionieri politici a Dharamsala, epicentro della diaspora tibetana.

Soepa – così si fa chiamare Phuntsok – è una persona sorridente e dai modi pacati, parecchio distante dallo stereotipo dell’ex-prigioniero politico. Quando veniva arrestato il 2 Maggio 1996 era un semplice monaco Buddhista, macchiatosi della “grave” colpa di aver scritto un volantino inneggiante all’undicesimo Panchen Lama; la seconda figura più importante nel Buddhismo tibetano, preso in custodia dalle autoritá cinesi quando aveva solo sei anni (per chi volesse saperne di più sul rapimento del Panchen Lama http://www.thepostinternazionale.it/blog/himalayan/prigioniero-politico-a-sei-anni).

Le percosse iniziarono subito, per invogliare Soepa e i suoi due amici a confessare. “Jamyang morì in prigione prima del processo, lo picchiarono violentemente al capo perchè non voleva accettare le accuse. Sonam Gonpo venne condannato a due anni [Jamyang e Sonam Gonpo erano i due “complici” di Soepa ndr]. Io di anni ne presi cinque, perchè la mia calligrafia era la più bella ed ero stato proprio io a scrivere i volantini” racconta Soepa.

La condanna ufficiale per “crimini contro la rivoluzione culturale” e l’arrivo in prigione non significò la fine degli interrogatori e delle torture, anzi. Ogni notte Soepa veniva portato via dalla sua cella e sottoposto a ore di torture. “Chi c’è dietro di voi? Chi vi ha convinto a fare tutto questo?” sono le domande che gli urlavano contro le guardie cinesi. L’ossessione di Pechino, infatti, è che sia il Dalai Lama in persona a incitare le proteste politiche contro l’occupazione.

“Mi ammanettavano i pollici e mi appendevano al soffitto, con le punte dei piedi che a malapena toccavano terra. Mi lasciavano così per ore. Altre volte invece mi spingevano chiodi sotto alle unghie, provavo un dolore enorme, pensavo che il cuore mi sarebbe saltato fuori dal petto” racconta Soepa. E poi ancora botte con manganelli elettrici e elettroshock in qualsiasi orifizio. Ma la punizione peggiore, secondo lui, era quando gli legavano corde strettissime attorno al corpo: “ti bruciano dappertutto, bloccano la circolazione e in quindici minuti potresti essere morto”.

Due anni più tardi Soepa venne trasferito a Drapchi, la prigione più temuta dai tibetani, che sorge nel cuore di Lhasa. Appena messo piede nel nuovo penitenziario, i cinesi gli prelevarono una copiosa quantità di sangue con la scusa di un’analisi medica. Soepa non ricevette mai i risultati, ma tramite un amico che lavorava nel partito comunista venne a sapere che il sangue veniva venduto o donato agli ospedali in Cina per il beneficio dei cinesi Han.

La praticare di prelevare il sangue ai prigionieri per rivenderlo ai cinesi viene confermata dal Venerabile Bagdro, figura di spicco nella comunità tibetana in esilio, anche lui residente a Dharamsala. Bagdro, infatti, è stato prigioniero politico nella prigione di Drapchi, dal 1988 al 1991. Ma Bagdro si spinge oltre con le sue accuse, lamentandosi di come ogni aspetto della vita quotidiana, anche fuori dal carcere, sia sottomesso agli interessi e alla volontà dei cinesi: “in pochi sono al corrente del fatto che anche soltanto per diventare un monaco Buddhista un tibetano abbia bisogno dell’autorizzazione del partito comunista”.

Da quando è arrivato in India, Bagdro si è dedicato alla difesa dei diritti dei tibetani dentro e fuori dal Tibet, pubblicando quest’anno il suo tredicesimo libro e prendendo parte al processo legale che ha visto la corte suprema spagnola accusare di genocidio alcuni dei più alti esponenti del partito comunista cinese. La battaglia per i diritti dei tibetani continua, quindi, anche in esilio. Da veri Buddhisti, nonostante gli anni di abusi subiti, sia Soepa che Bagdro rimangono ancorati ai principi della nonviolenza

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