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Nessuno ferma Erdoğan

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È sempre la Turchia di Tayyip Erdoğan

Non l’hanno fermato le proteste del parco Gezi represse nel sangue né la Tangentopoli che ha travolto il suo governo e coinvolto la sua famiglia, non la scure sulla libertà di espressione con la censura pre-elettorale di Twitter e Youtube e neppure la clamorosa rottura con l’alleato storico Fethullah Gülen: il cammino del premier turco Tayyip Erdoğan supera l’ostacolo più grande dal golpe sfiorato nel 2007, quando i militari si opposero (invano) all’elezione di Abdullah Gül come primo Capo dello Stato con una moglie velata.

Il voto amministrativo che per lui rappresentava un test decisivo e tutta la Turchia ha seguito con il fiato sospeso come non avveniva da anni lo conferma saldamente al suo posto. Le tante questioni aperte sulla dolente democrazia turca restano fuori, nella notte in cui ai suoi sostenitori giunti nella capitale Ankara – riconquistata per la quinta volta di fila dal suo candidato Melih Gökçek – promette “una nuova Turchia” in cui “i traditori pagheranno”.

Sono le parole di un leader in guerra permanente con un’opposizione nei suoi confronti sempre più vasta eppure mai forte abbastanza. Si sono riuniti gli avversari storici, i laici del Chp, e quelli più recenti della comunità Hizmet di Gülen, con appelli al voto utile che non sono bastati a scardinare la poderosa muraglia elettorale dell’Akp di Erdoğan.

Che ha vinto tutte le principali sfide che doveva vincere, riconfermandosi nella metropoli Istanbul con l’uscente Kadir Topbaş, e raggiungendo una totale nazionale del 44 per cento, quasi cinque punti in più delle ultime amministrative e con una perdita contenuta rispetto al 50 sfiorato alle politiche del 2011 ((a mattino inoltrato, il totale dei voti scrutinati è comunque ancora fermo al 94 per cento). Mentre la sconfitta a Smirne, terza città del Paese e roccaforte laica rimasta saldamente nelle mani del Chp, era nelle previsioni.

Non è però un successo che pare in grado di scacciare i fantasmi che sempre più minacciosi si aggirano sulla Turchia. Se alla vigilia del voto i politologi si erano consumati nell’immaginare gli scenari più cupi, ipotizzando uno sfogo violento della frustrazione popolare in caso di una nuova vittoria di Erdoğan, erano gli stessi sostenitori del premier a festeggiare la nottata elettorale assediando la sede del quotidiano Zaman, di proprietà di Gülen, tratteggiando i contorni di una democrazia sempre più traballante.

Accanto alle minacciose promesse di Erdoğan, in un clima da elezioni permanenti in vista delle presidenziali fissate tra appena quattro mesi, pure l’ombra dei brogli rimane ad aleggiare forte sulla notte turca. Nonostante la mobilitazione straordinaria di decine di migliaia di rappresentanti di lista e un sistema elettronico di verifica, misteriosi black-out durante il conteggio dei voti si sono registrati in molti seggi, da Istanbul al sud-est curdo, dove il voto era già stato macchiato col sangue di otto morti e una trentina di feriti negli scontri tra clan rivali.

Così anche le notizie migliori per la democrazia turca, come l’elezione per la prima volta a sindaco di una città metropolitana di tre donne – il leader del Bdp Gültan Kışanak nella “capitale” curda Diyarbakır, l’ex ministro della Famiglia Fatma Şahin a Gaziantep e Özlem Çerçioğlu del Chp ad Aydın – rischiano di passare in secondo piano. O come la vittoria in un distretto di Konya della prima candidata velata, Fatma Toru. Ora, tutti si chiedono cosa accadrà ancora in questo clima da resa dei conti: quelli delle urne, sembra già che non bastino.

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