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La Generazione Vendita

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Quali sono le differenze tra la corrente giovanile moderna, la cultura hipster, e i movimenti che l'hanno preceduta?

Da quando mi sono trasferito a Portland, la culla di tutto ciò che è hipster, tre anni fa, ho cercato di entrare in contatto con questa cultura giovanile. Lo stile è abbastanza facile da descrivere: pantaloni stretti, cappelli retrò, tatuaggi sparsi su tutto il corpo.

S&D

Ma parlare solo di stile sarebbe superficiale. La vera domanda è: cosa c’è sotto? Che idea di vita? Che modo di approcciare il mondo?

Le culture giovanili precedenti – beat generation, hippie, punk, slacker – erano caratterizzate da due cose legate tra di loro: il messaggio che portavano e la forma sociale ideale che immaginavano.

Per gli hippie, l’emozione era l’amore: l’amore libero, l’estate dell’amore, All you need is love. La forma sociale era l’utopia, concepita in termini collettivisti: le comuni, i festival musicali, il movimento di liberazione.

La beat generation usava l’ecstasy, facendo della trascendenza individuale la sua forma sociale. La loro era una cultura fatta di jazz, con la spontaneità che lo contraddistingueva; di cercare costantemente il piacere; e della ricerca del momento perfetto.

I punk invece erano animati dalla rabbia, il loro programma sociale era volto all’anarchia di stampo nichilista. “Arrabbiatevi”, cantava Johnny Rotten. “Distruggete”. L’hip hop, il fratello minore del punk, parlava delle stesse cose, fino a che non ha iniziato ad occuparsi dell’esaltazione del singolo individuo.

Gli slacker dei tardi anni Ottanta e dei primi Novanta (la Generazione X, il grunge, i libri di David Foster Wallace) portavano con loro un messaggio che parlava di angoscia, apatia e inutilità. Non avevano visioni sociali precise: manifestavano un nichilismo volto all’indifferenza, ritenendo ogni tipo di impegno subdolo.

Cosa vogliono invece trasmettere le culture giovanili al giorno d’oggi? Non solo gli hipster, ma tutta la generazione del nuovo millennio, intesa come quella nata tra i tardi anni Settanta e metà anni Novanta – di cui gli hipster sono molto più rappresentativi di quanto loro stessi non vogliano ammettere.

La cosa che mi colpisce di più di loro è di come siano persone piacevoli: gentili, educate, moderate, amichevoli. I rocker di una volta erano ribelli minacciosi. Ora invece il profilo di questa nuova cultura è più basso, auto-ironico, amichevole, eco-friendly. Quando i Vampire Weekend sono stati intervistati a “The Colbert Report” per la presentazione dell’album “Contra”, gli è stato chiesto, a proposito del titolo, a cosa si opponesse il gruppo. “Alla chiusura mentale“, risposero.

Secondo un mio studente di Yale, dove ho insegnato inglese negli ultimi dieci anni, un mio collega avrebbe detto ai suoi alunni che appartenevano alla generazione “post-emozionale”. Niente rabbia, niente estremismi, niente ego.

Cosa significa questo? Un rifiuto della guerra culturale? Un desiderio di vivere la vita in maniera più leggera? Un problema di come la generazione è cresciuta? Tutti siamo speciali e per questo dovremmo ascoltare il punto di vista di tutti?

Forse la verità si trova un po’ in ognuna delle risposte, ma penso ci sia anche qualcos’altro.

Le persone più influenti del nuovo millennio sono i venditori. Detto ciò, consideriamo l’altra parte dell’equazione, la caratteristica sociale. Ecco quello che vedo davanti a me, nella città e nella cultura: carretti di cibo, ventenni che vendono portafogli fatti di materiali riciclati, boutique che vendono sottaceti, start up tecnologiche, Kickstarter, negozi di agricoltura urbana e bottiglie d’acqua che vogliono salvare il pianeta.

L’idea sociale dei nostri giorni non è la comune o il movimento sociale e nemmeno la creazione individuale: è il piccolo business. Ogni aspirazione morale o artistica che uno ha – musica, cibo, quello che si ha – la esprime in questi termini.

Chiamatela Generazione Vendita.

Le band musicali sono pur sempre band, ma ora si sono trasformate in piccoli gruppi di imprenditori: auto-producono, auto-pubblicano, auto-gestiscono. Quando sento persone giovani dire che vogliono uscire dalla routine di una carriera noiosa, e fare qualcosa di significativo parlano, molto spesso, di aprire un ristorante.

Le associazioni no profit sono sempre di tendenza, ma gli studenti non sognano più di prenderne parte, ma di fondarne una. In ogni caso, quello che è veramente di moda è l‘imprenditorialità sociale – le compagnie che cercano di fare soldi responsabilmente, per poi darli via tutti.

È sorprendente. Quarant’anni fa, anche venti, il primo pensiero di una persona giovane, e anche il secondo-terzo, non era certo fare business. Anzi, ‘vendersi’ era considerato una cosa negativa.

Da dove viene questo cambiamento? Meno Reagan, come uno studente mi ha suggerito, che Clinton. L’avanzare dell’era dot com nelle ultime generazioni. Aggiungete la tendenza degli ultimi dieci anni, ovvero la sfiducia nelle grandi organizzazioni, inclusi i governi, e arriverete alla conclusione che ogni uomo fa per sé.

Il piccolo business è la forma sociale ideale sostenuta ai giorni nostri. Il nostro eroe non è più un artista o un riformista, bensì un imprenditore (basti pensare a Steve Jobs). Autonomia, avventura, immaginazione: l’imprenditoria comprende tutte queste cose. La forma d’arte del nuovo millennio potrebbe essere il business plan.

E penso che questo sia il nuovo punto fisso del millennio – e, come l’idea imprenditoriale, essenzialmente colpisce tutti. Oggi essere gentili, avere una personalità piacevole è tutto: è una personalità commerciale. È il sorriso del commesso e la stretta di mano decisa, perché il cliente ha sempre ragione ed è compito di chi lo serve soddisfarlo sempre. Se vuoi andare avanti, disse Benjamin Franklin, il primo guru del business, fai in modo di piacere agli altri.

Sono stato recentemente contattato da un ragazzo che pianificava di mettere on-line un sito web dove voleva promuovere ai suoi coetanei la necessità di leggere e pensare. Non solo promuovere, ovviamente, ma farci dei soldi. Quando mi ha chiesto un consiglio gli ho suggerito come prima cosa di portare alla luce la frivolezza di molti social media. Bene, ha premesso, concordo con il tuo punto di vista, ma non voglio essere visto come una persona negativa, fa allontanare le persone, se pensano che le stai criticando non vorranno comprare quello che vendi.

Quel tipo di ragionamento è proprio quello di cui sto parlando, il pensiero che giace dietro al sorriso calmo e inoffensivo di una personalità solare – il restare positivo, il sarò tutto quello che tu vuoi che io sia- che tutti hanno. Si, siamo cattivi, anonimi nei commenti online. Ma quando parliamo a nome nostro su Facebook siamo decisamente più allegri, conciliatori, curati, attenti.

Dicono che le persone di Hollywood sono sempre gentili con chiunque incontrino, in quel modo di fare falso classico di Hollywood. Questo perché non sono mai certi di chi hanno di fronte -potrebbe essere qualcuno di più importante di quello che credono, o comunque qualcuno che potrebbe diventarlo più avanti.

Bene, siamo tutti nello showbiz ora, camminiamo sulle uova, inesorabilmente diretti verso i nostri clienti. Stiamo tutti vendendo qualcosa, perché anche se non letteralmente, stiamo comunque vendendo noi stessi. Usiamo i social media per creare un prodotto – un brand – e il prodotto siamo noi. Ci trattiamo come piccoli business, come qualcosa da gestire e promuovere.

L’io d’oggi è un io imprenditore, un io che deve essere preparato ad essere venduto.

In “Bobos in Paradise”, David Brooks ha descritto il fenomeno della borghesia bohemienne (‘bobo’), una classe che unisce la ricchezza ad atteggiamenti controcorrente.

Dove, ho immaginato recentemente, i veri bohemienne -o meglio gli hipster- si inseriscono in questo schema? Alcuni sono futuri Bobo; altri sono destinati a rimanere bohemienne per tutta la vita. Ma qualunque sia il loro percorso individuale gli hipster hanno comunque un buon modo di relazionarsi con la società, diversamente dai movimenti antenati, e devono ringraziare i bobos per questo. O meglio, devono ringraziarli per la loro esistenza.

La crescita dei bobos negli anni Novanta (quando la creatività diventò fonte di guadagno e avere soldi alla moda) mise un nuovo tipo di pressione ai bohemienne. Non erano più contro la cultura mainstream, ora erano parte di essa. Et voilà, gli hipster. Invece di un nuovo taglio di capelli, di un nuovo guardaroba e di una nuova compagnia di amici, avevano solo bisogno di continuare a fare quello che avevano sempre fatto. Gli hipster si sono così fusi impercettibilmente con la borghesia.

Gli hipster e i bobos sono simbiotici. Dovrei saperlo, sono un bobo racchiuso in un vicinato hipster-bobo, che era grosso modo quello che volevo quando mi sono trasferito a Portland per la prima volta. Siamo tutti presi da cibo biologico e politica progressista, abbiamo solo diverso modo di relazionarci verso queste cose. Gli hipsters creano la cultura bobo. Loro fanno, vendono o servono quello che un bobo compra. Provate a dipingere Allen Ginsberg che chiacchiera dell’ultimo video di Lady Gaga con Don Draper attraverso il bancone di un caffè, e capirete fino a che punto siamo arrivati.

Tutto questo perché, diversamente dai movimenti precedenti, l’ethos degli hipster non contiene elementi di ribellione, riluttanza o dissenso – aspetto degno di nota, visto che l’opposizione culturale sembra essere un must per l’idea di cultura giovanile. Questo potrebbe spiegare perché gli hipster stanno durando così a lungo. L’apice degli hippie è durato due anni. I punk e gli slacker sono durati per poco più cinque anni ciascuno.

I punk hanno rifiutato il mainstream, ma hanno respinto anche il rifiuto precedente, ovvero la cultura hippie, che ai loro tempi era qualcosa da ‘vecchi’. Gli hipster invece, che abbiamo attorno da circa quindici anni, sembrano essersi integrati ed essere una parte portante della nostra cultura.

O forse no. Questi movimenti hanno infatti quasi sempre un sub-strato economico.

I beatniks e gli hippie – amore, ecstasy, trascendenza, utopia – erano il prodotto del boom del dopo guerra. I punk, gli slacker e i devoti dell’hip hop – rabbia, nichilismo – sorsero durante la stagnazione culturale dei primi Settanta fino ai primi Novanta. Gli hipster sono nati nel boom dei dot com e fioriti nella bolla immobiliare, niente a che vedere con le cose descritte in precedenza.

L’affabilità è senza dubbio una dote commerciale, ma è propria soprattutto di persone che sentono di vivere in una società tutto sommato accettabile. I fondamenti per la creazione di un nuovo movimento giovanile potrebbe essere già in piedi.

Articolo del New York Times per The Post Internazionale
Traduzione di Samuele Maffizzoli

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