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Kennedy, due fratelli, un destino

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La storia della rivalità tra Joseph Jr. e John, una sfida mortale che ha consegnato JFK alla leggenda

Alle origini del mito c’è un dramma.

Subito prima del decollo un ufficiale americano esperto di elettronica avvertì Joe che la missione era molto pericolosa perché il sistema di armamento telecomandato era difettoso e una quantità di fattori poteva innescare l’esplosione. “Joe, non lo fare”, furono le sue parole.

Joe doveva pilotare un bombardiere con diecimila chili di tritolo a bordo fino alla costa belga e paracadutarsi in tempo ma non prima di aver attivato il dispositivo che trasformava l’aereo in una bomba radiocomandata da un secondo bombardiere.

Le rassicurazioni del quartier generale e la voglia di superare John, detto Jack, il fratello minore cresciuto nella sua ombra e diventato improvvisamente eroe di guerra, gli fecero ignorare l’avvertimento. La bomba esplose anzitempo mentre stava sorvolando la Manica. Era il 12 agosto 1944.

Joe era il figlio primogenito, aveva solo ventinove anni e un futuro pianificato a tavolino dal padre Joseph fin dalla sua nascita. Un futuro che poi sarebbe toccato scrivere a qualcun altro sui libri di storia.

Si chiamavano Kennedy e per loro contava soltanto vincere, negli studi come in famiglia e poi in guerra. Tutto era occasione di sfida per dimostrare una superiorità perfino interna, fra di loro; il mondo che li circondava, nella loro concezione delle cose, lo avevano già battuto.

Questa competizione continua gliel’aveva insegnata fin da piccoli il padre che ripeteva sempre: “Dovete essere il migliore tra i migliori”. Joseph Patrick Kennedy, discusso signore del dollaro dalle origini modeste, per di più cattolico e irlandese, nato a Boston, nipote di emigrati in America sull’onda del grande sogno, immaginava per i figli il riscatto sociale. Era una nuova generazione pronta a sfidare il mondo.

Sul maggiore dei nove fratelli, Joseph Patrick Jr. – detto Joe – come il padre, erano risposte le maggiori ambizioni e aspettative del clan. John ricorderà molti anni più tardi che la sua infanzia privilegiata era stata turbata solo dalle continue lotte con quel fratello tanto da spaventare le sorelle, nonostante il loro rapporto fosse caratterizzato da un forte attaccamento reciproco.

Più robusto e più forte, Joe aveva quasi sempre la meglio su Jack, come una volta a Hyannis Port, la residenza estiva della famiglia, dove una sfida in bicicletta si concluse con uno scontro frontale che lasciò incolume il primo e contò ventotto punti di sutura sul mento all’altro.

Quando Joe partì per studiare in Connecticut, l’andamento scolastico di Jack ne risentì, così per imitare il fratello, a cui guardava come un semidio, l’anno successivo chiese anche lui di seguirlo in collegio. Si chiamava Choate ed era una leggendaria istituzione del New England. Ovviamente fu ben felice di accogliere due membri di una delle famiglie più ricche e in vista d’America, ma mentre la stella di Joe brillava, secondo il preside era diventato uno dei “big boys” della scuola, quella di Jack lottava per non spegnersi.

In quegli anni iniziarono i suoi problemi di salute, che sarebbero continuati per tutta la vita, costringendolo a ripetuti ricoveri in ospedale. John si vergognava delle sue malattie, di questa debolezza che non si poteva permettere, e si impegnava al massimo per batterla.

L’arroganza e l’autorità usate dal padre Kennedy non scoraggiavano i figli ad assumere posizioni contrastanti con la sua. Era felice che i ragazzi sviluppassero uno spirito indipendente. Così Joe andò a Harvard e Jack stanco di vivere nell’ombra del fratello maggiore scelse Princeton, ma dopo un anno, anche questa volta, lo raggiunse.

Come alla Choate il primogenito continuava a brillare nei risultati scolastici, nello sport e in politica, ma c’era un campo sul quale Jack non aveva rivali, quello sentimentale. Sorriso, senso dell’umorismo e spirito ribelle incantavano le ragazze e rapidamente si fece la fama del playboy. Ne andava molto fiero e amava ripetere compiaciuto: “Non può essere la mia bellezza, perché non sono più bello di chiunque altro. Dev’essere la mia personalità”. Le conquiste facili non fecero altro che rafforzare la convinzione di Jack che nulla potesse essergli negato in quanto membro di una classe altamente privilegiata.

Se nell’età adulta prese il sopravvento la voglia di migliorare il mondo, durante la gioventù dominò la voglia di goderselo. Quando un giornalista chiese a John, candidato alla presidenza degli Stati Uniti nel 1960, cosa ricordasse della Grande Depressione lui rispose: “Non ho nessuna esperienza di prima mano della Depressione. La mia famiglia possedeva una delle più grandi fortune del mondo che, a quell’epoca, valeva ancora di più. L’unico episodio di cui sono stato direttamente testimone è stato quando mio padre ha assunto altri giardinieri, in modo da dare loro un lavoro perché potessero mangiare”.

Ma un’esistenza priva di ambizioni non rientrava nella filosofia di vita della famiglia Kennedy, dunque John accanto a un’intensa attività mondana, srotolata tra le due sponde dell’Atlantico sviluppò, durante i corsi di studio, l’interesse per la leadership politica e in particolare per gli affari esteri.

La Grande Guerra era ormai alle porte e Jack voleva lasciare un segno incisivo nel mondo così, con l’aiuto del padre riuscì a ottenere un certificato di buona salute e si arruolò nell’esercito. Coraggioso e profondamente convinto del valore della libertà per cui l’America si batteva, chiese di essere trasferito in prima linea. Arrivò alle isole Salomone e diciassette mesi dopo tornò a casa con i titoli dei giornali che parlavano di lui e una medaglia della Marina sul petto.

Un affronto troppo grande per il fratello Joe che chiedeva nelle lettere come fosse riuscito, proprio lui, a guadagnarsela. “Semplice, mi sono fatto affondare”, era l’ironica risposta di Jack per tutti.

Avevano sfidato il fuoco e il fuoco, alla fine, vinse.

Secondo John la morte eroica di Joe aveva impresso per sempre la superiorità di suo fratello nel cuore del padre: “Sto boxando contro un’ombra in un match in cui l’ombra vince sempre”, disse.

La differenza tra i due stava nel tentativo della famiglia e, in particolare, di Joseph di guidare il futuro dei figli, nonostante il destino per loro fosse già scritto. Il nonno materno, John Fitzgerald ex sindaco di Boston, presentando il primo nipote, Joseph Jr., alla stampa gli aveva predetto un futuro straordinario: “Diventerà presidente degli Stati Uniti. Suo padre e sua madre hanno già deciso che andrà a Harvard, dove giocherà nelle squadre di baseball e football e, per inciso, otterrà tutti i massimi riconoscimenti accademici. Poi sarà un capitano d’industria finché non arriverà il momento di fare il Presidente per due o tre mandati…”. Non è andata proprio così. Il destino ha scelto John come presidente e la morte entrambi.

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