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Il potere della letteratura

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Alla Frankfurter Buchmesse il discorso d’apertura dello scrittore brasiliano Luiz Ruffato è accolto da un’ovazione

Si è conclusa domenica, a Francoforte, la 65esima edizione della più importante fiera internazionale del libro che quest’anno ha scelto di omaggiare il Brasile e la sua cultura meticcia. Oltre 7100 autori, provenienti da tutto il mondo, hanno partecipato all’evento letterario, durante il quale la delegazione di scrittori brasiliana, invitata in qualità di ospite d’onore, ha approfittato della posizione di spicco di cui godeva per fare un’analisi critica della storia brasiliana e per manifestare apertamente il suo sostegno ai professori in sciopero a Rio de Janeiro che lamentano la precarietà dell’istruzione in Brasile.

La presenza brasiliana si è subito imposta al pubblico grazie al discorso carico di significato dello scrittore Luiz Ruffato che ha rotto il silenzio della platea gremita, spiegando che cosa significa essere uno scrittore della periferia del mondo e scrivere in portoghese per lettori quasi inesistenti in un paese che registra ancora oggi alti tassi di analfabetismo. Il profilo sociale della storia brasiliana delineato da Ruffato è manifesto del “ruolo trasformatore della letteratura” in una società che ancora oggi compromette la sua immagine di economia in ascesa con la presenza di una classe politica corrotta, gravi diseguaglianze sociali, violenza urbana, schiavitù e continue violazioni dei diritti umani. L’autore brasiliano è stato per questo a lungo applaudito e in seguito elogiato da Guido Westerwelle, ministro degli affari esteri tedesco, che per l’occasione ha voluto pubblicamente appoggiare la pretesa del Brasile di sedere al Consiglio permanente dell’Onu.

Di seguito, parte del testo del discorso d’apertura di Luiz Ruffato.

“Che cosa significa essere scrittore in un paese alla periferia del mondo, un luogo dove il “capitalismo selvaggio” non è solo una metafora? Per me, scrivere è un impegno. Oggi, si parla spesso di globalizzazione, ma le frontiere della diversità sono cadute più per la mercanzia che per le persone. Proclamare la nostra individualità è una forma di resistenza al tentativo di appianare le differenze. La dicotomia io-l’Altro è il più grande dilemma di tutti i tempi dell’essere umano. Poichè, nonostante l’affermazione della nostra soggettività avvenga attraverso il riconoscimento dell’Altro, (è la stessa Alterità che ci conferisce il senso dell’esistenza) l’Altro è allo stesso tempo ciò che ci può annichilire.

E, se l’umanità si riconosce in questo movimento oscillatorio tra l’aggregazione e la dispersione, la storia del Brasile affonda le sue radici quasi esclusivamente nella negazione esplicita dell’Altro, attraverso la violenza e l’indifferenza. Il popolo brasiliano è nato sotto l’egida del genocidio. Dei 4 milioni di indios che esistevano nel 1500 ne rimangono oggi circa 900 mila. Parte di loro vive in condizioni miserabili in improvvisati insediamenti urbani o nelle baraccopoli delle grandi città. Invochiamo sempre, come simbolo di tolleranza nazionale, la così detta “democrazia razziale brasiliana”, mito corrente che nega la decimazione degli indigeni, avallando l’assimilazione degli autoctoni nel tessuto sociale. Quest’eufemismo serve unicamente a nascondere un fatto indiscutibile: se il nostro popolo è meticcio, la ragione è da cercare nell’incrocio degli uomini europei con le donne indigene, ovvero, più esplicitamente, l’assimilazione si è data attraverso lo “stupro” delle native nere da parte dei colonizzatori bianchi.

Fino alla metà del diciannovesimo secolo, 5 milioni di africani neri furono imprigionati e portati a forza in Brasile. Quando, nel 1888, fu abolita la schiavitù, non venne fatto alcuno sforzo per restituire la dignità agli ex prigionieri. Così, fino ad oggi, 125 anni dopo, la grande maggioranza degli “afrodiscendenti” resta confinata alla base della piramide sociale. Raramente hanno accesso alle professioni di medico, ingegnere, avvocato o giornalista, che richiedono personale altamente qualificato. Invisibili, messi con le spalle al muro da bassi salari e privi delle prerogative primarie previste dal diritto di cittadinanza (abitazione, trasporto, tempo libero e un sistema di educazione e di sanità che sia di qualità), la maggior parte dei brasiliani rappresenta da sempre un pezzo da scartare negli ingranaggi che muovono l’economia: il 75 per cento della ricchezza totale è concentrato nelle mani del 10 per cento della popolazione bianca e appena 45 mila persone possiedono la metà dei terreni del paese.

Storicamente abituati a obbedire ai doveri senza invocare diritti, ora soccombiamo sotto il peso di una strana sensazione di non appartenenza: in Brasile, quel che è di tutti non è di nessuno. La convivenza a così stretto contatto con una terribile sensazione di impunità ha alimentato un forte sentimento di intolleranza. Chi, abbandonato a una vita ai margini, non gode dello status di essere umano riconosciuto dalla propria società, reagisce in relazione all’Altro rifiutando di riconoscergli il medesimo status. Non riconoscendo l’Altro, l’Altro non ci vede. E così, accumuliamo odio e il nostro simile diventa un nemico.

Il tasso di omicidi in Brasile registra 20 omicidi ogni 100 mila abitanti, che equivale a 37 mila persone morte ogni anno, il triplo della media mondiale. E chi è maggiormente esposto alla violenza non sono i benestanti che abitano al sicuro nei loro appartamenti, in condomini controllati da portieri presenti giorno e notte e protetti da sistemi di vigilanza elettronica, bensì le fasce più basse della popolazione, confinate alla periferia della società, alla mercè dei trafficanti e della polizia corrotta. […] Il sistema di educazione è stato a lungo uno degli strumenti più efficaci per sedimentare le differenze tra ricchi e poveri. Siamo tra gli stati che meno si impegnano per l’educazione nel mondo: circa il 9 per cento della popolazione è analfabeta .La perpetuazione dell’ignoranza come strumento di dominazione può essere misurata. Il mercato editoriale brasiliano muove circa 2,2 miliardi di dollari all’anno, il 35 per cento del totale rappresentato da acquisti del governo federale destinati a rifornire biblioteche pubbliche e scolastiche.

Nonostante ciò, il Brasile non è un popolo di lettori. Leggiamo in media meno di 4 libri all’anno e nel paese intero c’è solamente una libreria ogni 63 mila abitanti, normalmente concentrate nelle capitali e nelle grandi città. La più grande conquista della mia generazione fu ristabilire la democrazia, la sovranità del popolo che quest’anno compie 28 anni, ininterrotti, poco in verità, ma si tratta del periodo più esteso di vigenza dello stato di diritto nella storia del Brasile. Con l’arrivo della stabilità politica ed economica, aumentano le conquiste sociali dai tempi della dittatura militare, di cui la più significativa, senza dubbio, fu la consistente diminuzione della miseria. 42 milioni di persone hanno conosciuto una sensibile ascesa sociale negli ultimi 10 anni. Innegabile l’importanza dell’implementazione di politiche pubbliche fiscali o di inclusione sociale. Sfortunatamente, malgrado tutti gli sforzi, continuiamo ad essere un paese dove le abitazioni, l’educazione, la salute, la cultura e il tempo libero non sono un diritto di cui tutti godono, ma rimangono privilegio di pochi […].

Siamo una nazione paradossale. Il Brasile è un paese esotico dalle spiagge paradisiache, foreste edeniche, patria del carnevale, della capoeira e del calcio. Allo stesso tempo è un luogo esecrabile dove ancora imperano illegalità e gravi sprechi di risorse naturali. Siamo il paese candidato al ruolo di protagonista economico sulla scena mondiale, ricco di risorse, terreni, industrie diversificate e che possiede un enorme potenziale di produzione, consumo e dunque crescita. Allo stesso tempo rivestiamo sempre un ruolo accessorio, siamo fornitori di materie prime e prodotti fabbricati con manodopera a basso prezzo, troppo spesso incapaci di gestire la nostra ricchezza. Oggi siamo la settima economia del pianeta e allo stesso tempo godiamo di un primato infelice: siamo il terzo paese al mondo per diseguaglianze sociali.

Torno, quindi, alla domanda iniziale: che cosa significa abitare in un paese alla periferia del mondo e scrivere in portoghese per lettori quasi inesistenti? Credo, forse ingenuamente, nel ruolo trasformatore della letteratura. Figlio di una lavandaia analfabeta e di un venditore di pop-corn semianalfabeta, il mio destino è cambiato nell’incontro con i libri. E se la lettura di un libro può cambiare la vita di una persona, essendo la società partecipata da più persone, la letteratura può cambiare la società. In questi tempi, esacerbati dall’estremo culto dell’individualismo, ciò che è estraneo dovrebbe risvegliare la nostra curiosità e appetenza, più che il timore che possa invece costituire una minaccia. Voltiamo le spalle all’Altro, sia esso immigrato, povero, nero, indigeno, donna o omossessuale, nel tentativo di preservarci. Soccombiamo alla solitudine e all’egoismo e ci neghiamo a noi stessi. Io scrivo per oppormi a questo. Voglio influenzare il lettore e attraverso di lui trasformare il mondo. So bene che si tratta di un’utopia ma io mi alimento di utopie. Penso che il destino ultimo del genere umano sia quello di raggiungere la piena felicità terrena. Qui e ora.”

Traduzione di Elena Prodi

 

 

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