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Un’opera incompiuta

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Papa Francesco a Lampedusa ci fa riflettere sulla società europea. Lo straniero è «colui senza il quale vivere non è più vivere».

La “Porta di Lampedusa, Porta d’Europa” si apre su un mare dove si stima che negli ultimi vent’anni siano perite quasi ventimila persone tentando una difficile attraversata. È in un certo senso un’opera incompiuta. Può restare segno di pietà e luogo di raccoglimento, intristirsi in un freddo monumento funebre oppure diventare il simbolo di un’Europa che si apre verso l’Africa, verso l’accoglienza e una solidarietà nuova.

Starà a noi, negli anni a venire, costruire il suo significato.

Guardando questa porta capiamo che la globalizzazione non è solo merci a basso prezzo che invadono il nostro mercato, e non sarà neppure una nostra nuova modalità per dominare il mondo. La forza della globalizzazione sono le persone che finalmente accedono alla consapevolezza di essere parte di un unico mondo, che vogliono essere responsabili della loro vita, e per questo sono disposti a venire in Europa a fare i lavori più umili: accudire i nostri ammalati, cucinare il nostro cibo e pulire le nostre città.

Il nostro mondo europeo è ormai piccolo e c’è al di là di questa porta un mondo più grande che ci chiede di partecipare e di condividere. L’Europa può essere anche un mondo piccino non solo in senso geografico, ma perché chiuso e meschino. Un piccolo mondo che si pensa al centro dell’universo; che non capisce che al di là dei nostri confini – i quali perdono sempre più significato – c’è un nuovo grande mondo ribollente di vita.

Chiudere questa porta vorrebbe dire chiudersi alla storia e al futuro. L’Europa ha incominciato a capire che il diritto internazionale costruito negli ultimi secoli, il quale nega la possibilità di interferire con gli affari interni di un paese – anche se è in atto una persecuzione o un genocidio – andava forse bene prima della globalizzazione. Adesso è superato. Ma è già anche superato il diritto di intervento umanitario: di fronte ai drammi crescenti della fame e del disastro ecologico, l’Europa viene presa dal panico e risponde alla crescente richiesta di solidarietà con promesse che non mantiene mai (come vediamo regolarmente durante gli incontri del G8) rinchiudendosi negli interessi nazionali e alzando barriere sempre più alte.

In questo momento – e speriamo che sia breve – l’Europa crede a chi percepisce e rappresenta lo straniero come una minaccia, come colui che vuole derubarci della «nostra roba» e della «nostra identità». Invece lo straniero è «colui senza il quale vivere non è più vivere».

Accettando l’altro non gli facciamo un favore: aiutiamo noi stessi; evitiamo di diventare maschere e di immedesimarci sempre più in un’identità immaginata che dovrebbe proteggerci dalle nostre insicurezze interiori, un’identità statica e sterile che ci impedisce di crescere come persone umane e come società. È una tentazione che coinvolge tutti, anche una Chiesa che talvolta sembra preferire il porto sicuro delle antiche abitudini piuttosto che l’avventura del mare aperto.

I poveri però si rifiutano di vivere in una miseria indegna della persona umana, vittime di uno sfruttamento interno ed esterno, di guerre che non capiscono e non vogliono; vengono a cercare da noi il sogno di quell’European way of life che abbiamo alimentato con la nostra propaganda, stupidamente sicuri che il nostro modello di sviluppo fosse l’unico possibile.

C’è chi in Europa crede di poter fermare con le leggi questa ondata di vita che viene ad abbracciarci. Fortunatamente per tutti noi, sono degli illusi. La legge non cambia la storia; anzi, quasi sempre la legge è costretta a seguirla, soprattutto quando si tratta di eventi epocali come le migrazioni oggi in atto. Così chi in Europa tiene gli occhi aperti incomincia a capire che la solidarietà o diventa globale o non ha più senso. Gli egoismi di classe e di nazione sono il linguaggio del passato. Oggi i nostri ragazzi si sentono sempre di più cittadini di un unico mondo e capiscono istintivamente – a meno che siano succubi di martellanti propagande – che la convivenza civile può essere fondata solo su una solidarietà globale, altrimenti è un egoismo mascherato. Fra pochi anni i politici che hanno inventato i muri che dividono le nazioni come fra Messico e Stati Uniti o fra Israele e Palestina, i centri di identificazione ed espulsione e i respingimenti saranno consegnati alla storia come sopravvissuti di un’era in cui nessuno più si riconoscerà.

Sono fiero della mia cultura e della mia tradizione, nelle quali è centrale riconoscere in ogni persona prima di tutto la comune umanità, fonte di dignità e diritti. Solo successivamente si vedono le differenze, le quali ci completano, anzi, mi creano e mi danno vita, perché senza queste differenze non potrei essere me stesso.

Mi sento in comunione con Francesco, il papa-pastore che abbraccia i fratelli sofferenti, non per calcoli diplomatici o equilibri geopolitici, ma “solo” perché essi “sono la carne di Cristo”.

Riguardando questa porta non la vedo più come un monumento ai morti ma come un grande segno di speranza per i vivi. Non facciamo semplicemente memoria di quei poveri corpi in fondo al mare: li riconosciamo come persone che venivano a noi desiderose di condividere la nostra comune umanità. Riconosciamo che loro, che hanno già attraversato un’altra porta – quella che si apre sull’incontro con l’Infinito, con colui che è davvero e definitivamente l’Altro – avevano capito ciò che noi fatichiamo a intravedere: che la fraternità è il nostro orizzonte.

 

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