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Nella Cina del progresso si muore ancora di freddo

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In una via di Bijie cinque bambini muoiono di freddo nell'indifferenza generale. L'opinione pubblica insorge, ma la censura cerca di insabbiare tutto

Nella Cina del progresso si muore ancora di freddo

C’era un freddo tremendo da sentirsi accapponare la pelle, di quelli che fanno battere i denti e ti scorrono nelle ossa fino a farti impallidire, il 15 novembre scorso a Bijie. Piovigginava e una nebbia densa velava di buio la notte. La temperatura era scesa a picco fino a toccare i 6 gradi centigradi nella città-prefettura della provincia del Guizhou.

S&D

Zhonglin, Zhongjing, Bo, Chong e Zhonghong, cinque bambini tra i 9 e i 13 anni, avevano mendicato per tutto il giorno qualche soldo in un sottopassaggio all’ingresso dell’università, poi erano tornati nella grande strada periferica, la Huandong Lu, dove avevano messo su con teloni e stracci un riparo di fortuna per la notte.

C’è chi racconta di averli visti giocare col pallone con indosso giacchette leggere e maglie di cotone, prima che il freddo gli gelasse i piedi e chiazzasse le loro labbra di uno strano colore rosso-bluastro, prima che i cinque bambini scegliessero come nuova tana per la notte un cassonetto per l’immondizia, di due metri per uno. Ci si erano infilati dentro e lì avevano acceso un po’ di carbone. Solo un po’, per riuscire a sentire per l’ultima volta il torpore di casa. L’indomani i cinque ragazzini del Guizhou erano ancora rannicchiati lì dentro, stretti l’uno all’altro senza vita, soffocati dal monossido di carbonio, come ha precisato l’esame autoptico. Prima affamati, poi infreddoliti e infine morti, nella totale e cieca indifferenza di passanti, studenti, professori e perfino dei funzionari che lavorano nei palazzi amministrativi siti nella zona.

È questa la Nuova Cina dello sviluppo tanto celebrata dal Pcc? È possibile che ancora oggi nella seconda economia al mondo, motore della crescita regionale asiatica e globale, i bambini muoiano per il freddo? A chiederselo sono in tanti, le voci della società civile giungono dalla piattaforma dei microblog cinesi che si infiamma per lo sdegno, ma anche dal mondo del giornalismo locale. Li Yuanlong, giornalista del Bijie Daily, ha provato a fornire alcune risposte indagando sulla storia dei cinque bambini, avvicinando le loro famiglie e descrivendo il degrado delle loro misere vite. È riuscito perfino a fotografarne i corpicini e a diffonderne le immagini su internet, e per questo è stato censurato, arrestato e minacciato dalla polizia.

Dopo di lui, anche Bernard Zand di Der Spiegel ha cercato di definire i contorni della vicenda, si è recato sul posto per parlare con Li e documentare le condizioni di vita della periferia di Bijie. Li gli ha raccontato che vicino al luogo in cui i bambini sono morti “Ci sono una stazione di polizia e un edificio del distretto amministrativo. I funzionari quando arrivavano in ufficio vedevano i bambini ogni mattina, per tre settimane, ma nessuno prestava attenzione a loro”. Qualcuno poi è entrato nella camera d’albergo del cronista tedesco e ha danneggiato la sua macchina fotografica, il suo cellulare e l’iPad.

Era necessario cancellare quel fattaccio dalla memoria del Paese, perché di quella storia dentro i confini nazionali nessuno doveva parlarne. Le autorità avevano il dovere di proteggere i cittadini dallo shock di quella verità scomoda, che descrive la condizione di disparità tra le province interne e quelle costiere, i limiti dello sviluppo, la povertà dei villaggi rurali. Quello di cui non si parla non esiste. Perché parlare di una Cina povera non aiuta la crescita, non incentiva il mercato interno, spaventa gli investitori stranieri e stride con la credibilità dell’immagine del Paese ‘prospero e in ascesa’ costruita faticosamente nell’ultimo ventennio. Ecco che la povertà diventa una vergogna. Un tabù.

La Cina è il terzo mercato più grande al mondo di beni di lusso con un volume di commercio di circa 18 miliardi di euro e la crescita nel settore è assicurata per i prossimi anni. Ma del lusso assoluto, delle luci psichedeliche nei mastodontici shopping-center e dello sfoggio di magnificenza delle megalopoli, nella periferia della poverissima Guizhou non resta che un fioco barlume riflesso su qualche copertina patinata di un giornale nazionale.

A Bijie, su circa 6,5 milioni di abitanti, ben 2 milioni sono migranti rurali e hanno lasciato la provincia per raggiungere le fiorenti città costiere. Anche se il tasso di crescita nel secondo trimestre del 2012 è stato stabile al 7,7 per cento, in Cina solo 250 milioni di fortunati, la nuova borghesia, godono del benessere economico. Per ora, il livello di diseguaglianza, stimato allo 0,5 per cento (secondo il coefficiente di Gini) solca un vuoto difficile da colmare. Le autorità di Pechino però rassicurano: nel 2020 altre 330 città raggiungeranno il reddito disponibile di Shanghai, e tutti saranno più ricchi.

La morte dei bambini a Bijie mette in luce le contraddizioni di una società sospesa tra tradizione e modernizzazione, arretratezza e progresso, sottosviluppo e sviluppo. Quella morte racconta i costi sociali della crescita in termini di disuguaglianza, sradicamento, disoccupazione e abbandono. Pechino non fa autocritica, anzi rammenta che ‘la critica è un male per gli investimenti’, ha chiuso gli occhi per negare l’esistenza dei limiti di un Paese che corre a due diverse velocità. E i cinque bambini del Guizhou, chi si ricorderà più di loro?

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