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Il Tibet è in fiamme

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Da febbraio 2009 sono 90 i tibetani che si sono immolati invocando la libertà per il proprio popolo. Ma per la Cina il 'problema Tibet' non esiste

Il Tibet è in fiamme

“Padre, essere tibetana è così difficile. Noi non possiamo neanche pregare davanti al ritratto del Dalai Lama. Non abbiamo alcuna libertà”. Tamdin Tso aveva solo 23 anni e l’inverno negli occhi, scuri e malinconici come la grande steppa ghiacciata al crepuscolo. Era una giovane donna tibetana, una nomade delle praterie occidentali della prefettura di Huangnan nel Qinghai, madre di un bambino di cinque anni e figlia di una terra senza pace. Lo scorso 7 novembre, alla vigilia del XVIII Congresso del Pcc a Pechino, Tamdin ha vuotato il gasolio dal serbatoio di una moto, lo ha cosparso sul proprio corpo e si è data fuoco. Il bagliore di un lampo ha rischiarato i pascoli di famiglia nel villaggio Dorongpo vicino alla città monastero di Rebkong: Tamdin Tso era diventata ormai una torcia umana. Probabilmente, anche lei è morta pronunciando con insistenza le parole ‘Bod Gyalo’, il Tibet vincerà, come a voler trattenere la vita tra le labbra.

Tamdin è il numero 67 nel doloroso conteggio delle autoimmolazioni iniziato a partire dal febbraio 2009. A oggi, secondo i dati forniti dall’Amministrazione Centrale Tibetana degli esuli di Dharamsala, sono 90 i tibetani che si sono immolati invocando la libertà per il proprio popolo, la parità di cittadinanza e il ritorno del Dalai Lama in Tibet. Dal 1998, quando per la prima volta un uomo, Thubten Ngodup, si diede fuoco a Nuova Delhi, le autoimmolazioni sono incrementate vertiginosamente. Nel solo 2012 sono morte 76 persone, monaci e laici, donne e studenti. All’inizio di novembre migliaia di studenti solidali alla causa tibetana hanno occupato le strade e le piazze di Rebkong, costringendo le scuole a chiudere e bloccando i convogli militari all’ingresso della città. Solo negli ultimi 30 giorni si sono dati fuoco 27 tibetani, quasi un’immolazione al giorno. Le ragioni di questa recrudescenza secondo i vertici di Dharamsala sono evidenti e si possono riscontrare nelle ‘hard policy’ implementate a danno dei tibetani, nelle pratiche repressive, nell’emarginazione economica e nei programmi ideologici, come l’assimilazionismo culturale forzoso esemplificato nella ‘campagna di educazione patriottica’. Politiche controproducenti che limitano alcune libertà fondamentali: dalla libertà di culto alla libertà di espressione, dalla libertà di riunione al diritto di associazione. Nel 2009 la spesa annuale procapite per la sicurezza pubblica nelle aree tibetane ha superato di ben cinque volte il budget speso per le altre province. Il controllo di Pechino è totale.

“I leader cinesi nominati durante il XVIII Congresso del Partito Comunista Cinese (Pcc) devono riconoscere che le politiche intransigenti della Cina in Tibet hanno completamente fallito e solo attraverso il dialogo è possibile trovare una soluzione pacifica e duratura”. Così, ha dichiarato il Sikyong Lobsang Sangay, il successore politico del Dalai Lama, eletto leader del popolo tibetano democraticamente, “siamo fermamente convinti che con la fine della repressione terminerà effettivamente il ciclo delle autoimmolazioni”. Anche il direttore di Human Rights Watch per l’Asia, Brad Adams, denuncia il fallimento del governo centrale nel disciplinare l’emergenza tibetana e la sua incapacità nel rispondere alle rivendicazioni dei manifestanti. “L’autoimmolazione è un atto di disperazione per richiamare l’attenzione sulla difficile situazione dei tibetani”. Secondo l’organizzazione umanitaria, Pechino avrebbe bisogno di adottare nuove politiche, invece di portare la gente a credere che non esista alcuna speranza di cambiamento. Tuttavia, dalla fine di ottobre, in concomitanza con i preparativi per il Congresso del Pcc, i funzionari locali hanno fatto mostra del loro pugno di ferro nei confronti di coloro che “conseguono l’obiettivo separatista di indipendenza del Tibet e sono usati dal gruppo del Dalai Lama per incoraggiare le rivolte nel tentativo di dividere la nazione”.

Nel Qinghai e nella Regione Autonoma del Tibet sarebbero state adottate forme di punizione collettiva per inibire la volontà suicidaria. Il rischio è di innescare un circolo vizioso, altalenante tra punizione e immolazione. Sotto il torchio sono finite le famiglie ‘allargate’ degli immolati e quelle dei manifestanti. Contro i monaci o i laici che le hanno supportate sono state avviate indagini penali. Le forze di polizia della prefettura di Gannan, nel Gansu, hanno emesso una ricompensa fino a 50 mila yuan per ottenere informazioni su “intrighi, pianificazione e istigazione” alle immolazioni. E i funzionari della prefettura di Huangnan hanno ordinato la cancellazione di tutti “i progetti in corso con fondi statali nei villaggi degli autoimmolati e i benefici ricavati dalle famiglie degli autoimmolati nel quadro delle politiche di pubblica utilità”. Emergenza in Tibet? Ufficialmente, per i dirigenti locali il ‘problema Tibet’ non esiste. Ad assicurarlo è il presidente del gruppo regionale del Tibet, Qiangba Puncog: “Il cosiddetto problema delle autoimmolazioni tibetane è stato gonfiato negli altri Paesi. Loro dicono che il Tibet è in fiamme, il Tibet non è in fiamme”. Il Tibet è in fiamme, il corpo di Tamdin brucia ancora.

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