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Home » Esteri

Cosa c’è in ballo in un possibile intervento militare in Libia

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Una situazione caotica nel paese, i flussi migratori e le importanti concessioni petrolifere sono alcuni dei punti chiave di un possibile intervento occidentale in Libia

Il 13 marzo il consiglio di presidenza di Tobruk, sede del governo internazionalmente riconosciuto, ha approvato la proposta dell’Onu di un governo di unità nazionale per la Libia.

S&D

In attesa che il parlamento locale approvi definitivamente questa proposta, i ministri degli Esteri di Italia, Francia, Germania, Regno Unito, Unione europea e Stati Uniti hanno annunciato il proprio sostegno al nuovo esecutivo libico di unità nazionale.

Ma cosa cambierebbe con la creazione di un governo di unità nazionale in Libia? Sicuramente sarebbe un passo molto importante per rimettere in ordine la situazione nel paese che, da quando nel 2011 è iniziata la guerra civile che ha portato al rovesciamento del dittatore Gheddafi, è estremamente caotica.

Il primo ministro italiano Matteo Renzi ha sempre sostenuto che la Francia abbia dato indirettamente inizio alla guerra, nel 2011, ponendosi come uno obiettivo il rovesciamento del dittatore senza pensare minimamente a quali ripercussioni questo avrebbe avuto sul paese, precipitato infatti nel caos più totale.

Proprio per questa ragione, la nascita di un governo riconosciuto e largamente condiviso in Libia, se da un lato contribuisce a riappacificare il clima nel paese, da un altro punto di vista rappresenta un passo verso un possibile intervento da parte delle potenze occidentali.

Negli ultimi anni, infatti, perché un paese occidentale intervenisse militarmente all’interno di un conflitto civile, la condizione è spesso stata la richiesta da parte di un governo riconosciuto. Questo è successo con la Francia per il suo intervento del 2013 in Mali e con gli Stati Uniti per l’inizio dei raid aerei contro l’Isis in Iraq nel 2014.

La ragione per cui dall’inizio del 2016 si fanno sempre più insistenti le pressioni per un intervento militare in Libia è, appunto, la situazione caotica nel paese. Soprattutto, la presenza dell’Isis, che minaccia le risorse energetiche presenti nel paese, sfruttate largamente da compagnie occidentali, ed estende il suo controllo sui flussi migratori verso l’Europa.

L’Isis in Libia controlla parte del territorio dall’ottobre del 2014, quando è riuscito a catturare la città di Derna, nell’est del paese. Oggi controlla la città di Sirte e la zona limitrofa, ma gruppi legati al sedicente Stato islamico sono presenti un po’ in tutto il paese.

Tuttavia, un’invasione della Libia da parte di eserciti occidentali non significherebbe, neanche di fronte a un governo di unità nazionale tra i due parlamenti di Tobruk e Tripoli, combattere esclusivamente contro i miliziani dell’Isis.

Il conflitto iniziato in Libia con la caduta di Gheddafi ha infatti scatenato le tensioni a livello tribale in uno stato che non aveva una reale identità nazionale al di fuori di quella creata dall’ex dittatore. Un intervento in Libia, quindi, implicherebbe anche scontri con le decine di milizie che compongono il complesso e variegato quadro del conflitto.

Ciononostante, lo scenario di un governo di unità nazionale apre le porte all’invio di un contingente di forze occidentali che supporti le truppe governative, proprio come succede nei casi già citati di interventi in Iraq e Mali. E che protegga anche i giacimenti di petrolio controllati dalle compagnie occidentali, troppo vasti per essere protetti semplicemente da piccoli gruppi di forze speciali.

Proprio intorno al petrolio libico e al suo sfruttamento, infatti, si gioca una larga parte delle possibilità di un intervento militare nel paese.

La Libia produce il 38 per cento del petrolio dell’intero continente africano. L’Eni, in questo momento, dispone del totale controllo dei giacimenti in Tripolitania, la regione situata sulla costa ovest della Libia. E ancora oggi l’Eni dispone di 9mila chilometri quadrati di concessioni non sfruttate.

Ma nonostante il ruolo importante dell’azienda italiana, il nostro paese – che con Gheddafi al potere era il principale partner commerciale della Libia – ha bruciato la maggior parte del giro d’affari che aveva in questa terra.

Non solo grandi compagnie di petrolio, ma anche investimenti di altro genere, dalle infrastrutture ai ristoranti, sono stati spazzati via dal conflitto.

Questo discorso non vale solo per l’Italia, ma anche per Francia e Regno Unito, che tramite le loro compagnie petrolifere, come la Total, la Shell e la British Petroleum hanno forti interessi nel paese, soprattutto in Cirenaica.

Un paese, quindi, che oggi varrebbe per l’Europa un giro d’affari da 130 miliardi di euro e che, qualora si riuscisse a ricostruire uno stato libico, magari amico dei governi occidentali, potrebbe valere molto di più.

Il piano di cui si è parlato (ma che è anche stato da più parti negato) è volto a creare tre zone d’occupazione militare sotto il comando strategico degli Stati Uniti, qualora non dovesse reggere il governo d’unità nazionale libico: l’Italia occuperebbe la Tripolitania, geograficamente a noi più vicina, strategica per le partenze dei migranti e sede dei principali giacimenti dell’Eni; il Regno Unito la Cirenaica, al confine con l’ex colonia britannica dell’Egitto; e infine la Francia controllerebbe il Fezzan, al confine con i paesi del Sahel nei confronti dei quali già esercita una certa influenza.

Ma se gli Stati Uniti hanno interesse a porre fine al caos libico, e le potenze dell’Unione europea sono pronte a ristabilire i propri rapporti di forza nel paese, non sono gli unici paesi intenzionati a mettere bocca su cosa sta succedendo in Libia.

C’è ad esempio la Russia, contraria ai bombardamenti del 2011 e quindi rimasta ai margini, ma oggi molto vicina all’Egitto e al suo presidente Abdel Fattah al-Sisi, che a sua volta mira a rafforzare la propria influenza nella confinante provincia libica della Cirenaica.

Nel frattempo, anche se nessun paese occidentale ha formalmente dato inizio a un intervento in Libia, sono in corso diverse operazioni che coinvolgono forze di difesa di paesi della Nato.

Nonostante le numerose smentite, all’inizio del 2016 è stato reso noto che corpi speciali di Regno Unito, Francia e Stati Uniti sarebbero attivi in territorio libico.

Il 10 febbraio del 2016, il governo italiano ha emanato un decreto per cui l’Aise – il servizio segreto italiano che si occupa della sicurezza all’estero – ha il compito di dirigere le operazioni speciali italiane in Libia.

Secondo quanto rivelato dai media italiani, tra i militari che l’Italia sarebbe pronta a inviare in Libia ci sarebbero gli incursori del Col Moschin, che già tra il 2011 e il 2012 erano presenti nel paese per un’operazione speciale con circa 40 uomini.

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