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La vera storia dell’Isis

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Un comandante Isis racconta come lo Stato Islamico sia nato in una prigione irachena proprio sotto il naso dei secondini americani

Nell’estate del 2004 un giovane jihadista, incatenato e ammanettato, veniva lentamente scortato dai suoi carcerieri nella prigione statunitense di Camp Bucca, nell’Iraq meridionale. Il suo nervosismo era evidente mentre due soldati americani lo conducevano, attraverso tre edifici ben illuminati e un labirinto di corridoi di filo spinato, in un cortile esterno, dal quale uomini vestiti con tute carcerarie dai colori accesi lo fissavano, mantenendosi a debita distanza.

“Ne ho riconosciuti subito alcuni”, mi ha detto il mese scorso. “Per tutta la durata del volo ho avuto paura di Bucca. Ma quando sono arrivato, era molto meglio di quanto pensassi, sotto tutti i punti di vista.”

(Qui sotto: detenuti all’interno della prigione militare statunitense di Camp Cropper in Iraq, il 2 luglio 2008. Damir Sagolj).

Leggi: Che cos’è l’Isis, spiegato senza giri di parole 

Il jihadista, il cui nome di battaglia è Abu Ahmed, è giunto a Camp Bucca una decina di anni fa, quando era solo un ragazzo, ed è adesso un ufficiale di grado superiore dello Stato Islamico, essendosi distinto tra i ranghi dell’organizzazione come tanti altri suoi compagni di prigionia. Come lui, gli altri detenuti erano stati catturati da soldati statunitensi in villaggi e città irachene, e trasferiti in un luogo tristemente famoso: una minacciosa fortezza nel deserto, che avrebbe plasmato le sorti della presenza statunitense in Iraq.

Abu Ahmed racconta come, in poco tempo, gli altri prigionieri abbiano iniziato a mostrarsi amichevoli nei suoi confronti. Anche loro avevano avuto paura di Bucca, ma ben presto si erano resi conto del fatto che, lungi dall’essere il loro incubo peggiore, la prigione statunitense rappresentava invece un’opportunità straordinaria. “A Baghdad o altrove non ci saremmo mai potuti ritrovare tutti insieme in quel modo”, mi dice Abu Ahmed. “Sarebbe stato troppo pericoloso. Lì non soltanto ci sentivamo al sicuro, ma eravamo anche a poche centinaia di metri dal comando di Al Qaeda.”

Fu proprio a Camp Bucca che Abu Ahmed incontrò per la prima volta Abu Bakr al-Baghdadi, l’emiro dell’Isis oggi spesso descritto come il leader terrorista più pericoloso al mondo. Abu Ahmed ricorda che fin dall’inizio gli altri detenuti del campo mostravano ad al-Baghdadi particolare riverenza. “Già all’epoca, egli era Abu Bakr. Eppure, nessuno di noi avrebbe mai immaginato che sarebbe diventato leader.”

Abu Ahmed ha svolto un ruolo decisivo nei primi anni di formazione del gruppo terroristico.L’occupazione americana in Iraq, che secondo lui e molti altri mirava a cedere il potere del governo sunnita alla maggioranza sciita, lo aveva spronato alla militanza già in giovane età. Il ruolo allora ricoperto in quello che sarebbe poi diventato l’Isis lo ha portato a occupare oggi una posizione di grande importanza nella rinnovata insurrezione che, oltrepassando i confini iracheni, ha travolto anche la Siria. La maggior parte dei suoi compagni vede nello sgretolarsi dell’ordine preesistente nella regione la realizzazione delle proprie ambizioni in Iraq, questione rimasta irrisolta finché la guerra in Siria non gli ha offerto un nuovo campo di battaglia.

Abu Ahmed ha accettato di parlare pubblicamente dopo più di due anni di discussioni, durante i quali ha rivelato di essere stato uno dei militanti iracheni più rispettati e ben introdotti all’interno dell’organizzazione. Ha inoltre condiviso le sue crescenti preoccupazioni riguardo l’Isis e i suoi piani per la regione. Davanti a un Iraq e a una Siria in fiamme Abu Ahmed sta avendo dei ripensamenti. La brutalità dell’Isis stride sempre di più con i suoi ideali, che si sono mitigati con il passare degli anni fino a portarlo a credereche gli insegnamenti del Corano debbano essere interpretati, piuttosto che applicati alla lettera.

(Qui sotto: un membro delle forze di sicurezza statunitensi parla con i detenuti all’interno della prigione militare di Camp Cropper in iraq, il 2 luglio 2008. Damir Sagolj).

Le sue perplessità sull’evoluzione dello Stato Islamico lo hanno spinto a concedere un’ampia serie di interviste al Guardian, le quali forniscono un quadro senza eguali dell’enigmatico leader dell’Isis e dei primi passi del gruppo terroristico, dal 2004, quando Abu Ahmed incontrò Abu Bakr al-Baghdadi a Camp Bucca, fino al 2011, anno in cui l’insurrezione irachena si spinse oltre i confini siriani.

Leggi: Che cos’è l’Isis, spiegato senza giri di parole  

Tornando alla detenzione a Bucca, fin dall’inizio il prigioniero che sarebbe diventato l’uomo più ricercato del mondo si era già allontanato dagli altri detenuti, che lo reputavano distaccato e poco trasparente. I secondini americani, invece, ricorda Abu Ahmed, avevano un’idea molto diversa di Baghdadi: lo vedevano come una personalità conciliante e calma in un ambiente in cui le certezze erano ben poche, e si rivolgevano a lui per aiutarli a risolvere gli attriti tra idetenuti. “Faceva parte della sua messinscena”, mi dice Abu Ahmed. “Ho sempre avuto l’impressione che nascondesse qualcosa, un lato oscuro che non voleva mostrare a nessuno. Era l’opposto di altri principi con cui era molto più facile avere a che fare. Era distante, lontano da tutti noi.”

Baghdadi, il cui vero nome è Ibrahim ibn Awwad al-Badri al-Samarrai, è nato nella città irachena di Samarra nel 1971. Fu fatto prigioniero dalle forze statunitensi a Falluja, a ovest di Baghdad, nel febbraio del 2004, alcuni mesi dopo aver contribuito alla fondazione del gruppo militante Jeish Ahl al-Sunnah al-Jamaah, che si era affermato nelle irrequiete comunità sunnite vicine alla sua città d’origine.

(Qui sotto: detenuti iracheni all’interno della prigione militare statunitense di Camp Cropper in Iraq, il 2 luglio 2008. Damir Sagolj).

“Baghdadi fu catturato a casa dell’amico Nasif Jasim Nasif”, racconta il dottor Hishamal-Hashimi, un analista che ha lavorato per il governo iracheno come consulente sull’Isis. “Fu poi trasferito a Bucca. Gli americani non si resero mai conto di chi avessero tra le mani.” Così come non fu in grado di capirlo la maggior parte dei suoi compagni di carcere, circa 24mila uomini suddivisi in 24 campi. La prigione veniva gestita secondo linee gerarchiche assai rigorose, che prevedevano anche uno schema basato sul colore delle tute carcerarie, il quale permetteva sia alle guardie che ai detenuti di collocare ogni prigioniero all’interno della scala gerarchica. “Il colore delle tute indicava il nostro status”, dice Abu Ahmed. “Se ricordo bene, il rosso era il colore di chi aveva commesso qualche errore in prigione, il bianco era destinato ai capi, il verde a chi doveva scontare una lunga pena detentiva e il giallo e l’arancione ai detenuti normali.”

Quando Baghdadi, all’età di 33 anni, giunse a Bucca, la rivolta guidata dai sunniti contro gli Stati Uniti si stava diffondendo velocemente attraverso l’Iraq centrale e occidentale. L’invasione, che era stata venduta come una guerra di liberazione, si era rapidamente trasformata in un’occupazione vessatoria. I sunniti iracheni, privati dei loro diritti a causa del rovesciamento del loro protettore Saddam Hussein, stavano iniziando a combattere le forze statunitensi e a volgere le proprie armi contro la maggioranza sciita del Paese, che aveva tratto beneficio dalla deposizione di Hussein.

Dalla vasta insurrezione sunnita proliferarono decine di nuovi gruppi di militanti, tra cui il piccolo movimento guidato da Baghdadi. Molte di queste formazioni sarebbero poi confluite sotto la bandiera di Al Qaeda in Iraq, e poi nello Stato Islamico dell’Iraq. Questi erano i precursori della furia devastante oggi nota semplicemente come Stato Islamico, il quale, sotto il comando di Baghdadi, si è impadronito di vaste aree dell’ovest e del centro del Paese e della Siria orientale, attirando nuovamente i militari statunitensi in una regione profondamente destabilizzata, a meno di tre anni da quando l’avevano lasciata con la promessa di non tornarvi mai più.

(Qui sotto: un detenuto iracheno all’interno della prigione militare statunitense di Camp Cropper in Iraq, il 2 luglio 2008. Damir Sagolj).

Tuttavia, all’epoca del suo soggiorno a Bucca, il gruppo di Baghdadi era ancora poco conosciuto, e lui era una figura molto meno importante rispetto all’ideologo dell’insurrezione, lo spietato Abu Musab al-Zarqawi, che incarnava i timori di molti in Iraq, in Europa e negli Stati Uniti. Baghdadi, però, aveva un modo unico per distinguersi dagli altri aspiranti leader, dentro Bucca e fuori, per le violente strade irachene: un pedigree che gli permetteva di rivendicare una discendenza diretta dal profeta Maometto. Aveva inoltre conseguito un dottorato in Studi Islamici presso l’Università Islamica di Baghdad. Si sarebbe avvalso di questi due elementi per dare legittimità alla sua pretesa senza precedenti di autoproclamarsi califfo del mondo islamico nel luglio del 2014, impresa cui sembrava essere destinato già dieci anni prima, nel cortile del carcere di Bucca.

“Baghdadi era una persona pacata”, ricorda Abu Ahmed. “Aveva carisma. Si percepiva che fosse qualcuno di importante. Tuttavia, c’erano altri uomini più importanti di lui. A dire il vero non credevo che sarebbe arrivato così lontano.”

Sembrava anche che Baghdadi riuscisse a intendersi bene con i suoi carcerieri. Secondo Abu Ahmed e altri due uomini che furono incarcerati a Bucca nel 2004, gli americani lo vedevano come un mediatore capace di risolvere aspre liti tra fazioni rivali e di mantenere l’ordine nel campo.

“Con il passare del tempo, però, ogni volta che si presentava un problema nel campo, lui risultava coinvolto”, aggiunge Abu Ahmed. “Voleva essere il capo della prigione, e ripensandoci ora, mi rendo conto che stava adottando una politicadel divide et impera per ottenere ciò che voleva: il comando. E ha funzionato.” Nel dicembre del 2004 i secondini reputarono che Baghdadi non rappresentava più alcun pericolo, autorizzandone la scarcerazione.

“Era molto rispettato dall’esercito statunitense”, prosegue Abu Ahmed. “Se voleva visitare i detenuti in un altro campo gli veniva concesso, mentre a noi questo non era permesso. E nel frattempo, sotto gli occhi delle guardie, una nuova strategia, da lui guidata, stava prendendo forma: la costituzione dello Stato Islamico. Se in Iraq non ci fossero state prigioni americane, oggi l’Isis non esisterebbe. Bucca è stata una fabbrica. Ci ha formati. Ha costruito la nostra ideologia.”

Mentre infuriava in tutta la regione, l’Isis era guidato da uomini che erano stati prigionieri nei centri di detenzione statunitensi durante l’occupazione americana dell’Iraq. Oltre a Bucca, le forze armate americane gestivano anche le prigioni di Camp Cropper, vicino all’aeroporto di Baghdad e, per i primi rovinosi 18 mesi del conflitto, di Abu Ghraib, nella periferia occidentale della capitale. Molti degli uomini rilasciati da queste prigioni – e in realtà anche parecchi alti ufficiali americani che avevano guidato le operazioni di detenzione – hanno ammesso che queste carceri hanno avuto un effetto incendiario sull’insurrezione.

(Qui sotto: una mappa di The Economist mostra le aree geografiche sotto il controllo dell’Isis in Siria e Iraq)

“Ho assistito a molti incontri in cui degli uomini si facevano avanti, dicendoci quanto le cose andassero bene”, ricorda Ali Khedery, assistente speciale degli ambasciatori statunitensi che hanno prestato servizio in Iraq dal 2003 al 2011, e di tre comandanti militari americani. Alla fine persino gli alti ufficiali americani capirono che le carceri “erano diventate in realtà elementi di radicalizzazione. Per molti versi erano controproducenti. Erano state usate per pianificare e organizzare, nominare leader e lanciare operazioni.”

Abu Ahmed conferma.“In prigione, tutti gli emiri si incontravano regolarmente. Legammo molto con gli altri detenuti. Conoscevamo le loro capacità. Sapevamo ciò che avrebbero potuto e ciò che non avrebbero potuto fare, e come ce ne saremmo potuti servire per qualsiasi scopo. Le persone più importanti a Bucca erano quelle che erano state vicine a Zarqawi. Nel 2004, Zarqawi fu riconosciuto come leader della jihad. Avevamo tantissimo tempo per sederci e pianificare. Era l’ambiente ideale. Concordammo che, una volta usciti, ci saremmo ritrovati. Il modo per riprendere i contatti fu facile. Scrivemmo gli estremi di ognuno sull’elastico dei nostri boxer. Usciti di prigione ci chiamammo. I contatti delle persone per me più importanti erano annotati sull’elastico bianco. Avevo i loro numeri di telefono, conoscevo i villaggi in cui vivevano. Nel 2009, molti di noi erano tornati a fare ciò che facevano prima di essere catturati. Stavolta, però, lo stavamo facendo meglio.”

Secondo quanto riporta Hisham al-Hashimi, l’analista di base a Baghdad, il governo iracheno ha stimato che ben 17 dei 25 leader più influenti dello Stato Islamico a capo della guerra in Iraq e Siria sono stati detenuti nelle prigioni statunitensi tra il 2004 e il 2011. Alcuni uomini sono stati trasferiti dai centri americani alle carceri irachene, dove una serie di evasioni negli ultimi anni ha permesso a molti leader di fuggire per riunirsi alle file degli insorti.

Il carcere di Abu Ghraib è stato il teatro della più grande e rovinosa evasione, avvenuta nel 2013: almeno 500 detenuti, tra cui molti superiori jihadisti precedentemente consegnati dalle forze militari Usa in ritirata, fuggirono nel luglio di quell’anno, quando la prigione venne presa d’assalto dalle forze dello Stato Islamico che, simultaneamente e con eguale successo, attaccarono anche il vicino carcere di Taji.

Il governo iracheno ha chiuso Abu Ghraib nell’aprile del 2014. Il carcere, adesso vuoto, si trova a circa 20 chilometri dalla periferia occidentale di Baghdad, vicino alla prima linea tra l’Isis e le forze di sicurezza irachene, che sembrano perennemente impreparate mentre fissano la calda caligine tremolante sopra l’autostrada che conduce ai calanchi di Falluja e Ramadi.

Varie aree di queste due città sono diventate una terra di nessuno per le assediate truppe irachene, che sono state martoriate e umiliate dall’Isis, un gruppo di predoni senza eguali in Mesopotamia dai tempi dei Mongoli. Quando ho visitato la prigione abbandonata sul finire di quest’estate, un gruppo di soldati iracheni sedeva indifferente presso un posto di blocco sulla strada principale per Baghdad. Mangiavano angurie mentre i boati dei bombardamenti riecheggiavano in lontananza. Le mura imponenti di Abu Ghraib, con all’interno i loro nemici jihadisti, si ergevano dietro di loro, un po’ più lontano lungo la strada.

La rivelazione degli abusi commessi ad Abu Ghraib ebbe un effetto radicalizzante su molti iracheni, che avevano visto la presunta civiltà dell’occupazione americana come un piccolo miglioramento rispetto alla tirannia di Saddam. Nonostante a Bucca vennero registrati pochi casi di abusi prima della sua chiusura nel 2009, il campo venne comunque visto dagli iracheni come il simbolo potente di una politica ingiusta che, per mezzo di frequenti incursioni in varie zone, rastrellava mariti, padrie figli (alcuni dei quali non combattenti), per poi imprigionarli per mesi o anni.

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(Qui sotto: detenuti iracheni all’interno della prigione militare statunitense di Camp Cropper in Iraq, il 2 luglio 2008. Damir Sagolj).

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