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Chi cuce la tua maglietta?

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In Cambogia le operaie tessili lavorano 8 ore al giorno per 75 euro al mese. Alcune sono costrette a prostituirsi per sopravvivere

Champa e Nita hanno lavorato per diversi anni cucendo vestiti di marche come Levi’s, Adidas, H&M o Nike nelle fabbriche tessili di Phnom Penh, la capitale della Cambogia. Sono solo due lavoratrici tra i circa 500mila operai tessili cambogiani.

Champa ha abbandonato il lavoro di cucitrice nel 2000 perché 37 euro di salario mensile non erano sufficienti per soddisfare le necessità quotidiane. Oggi si prostituisce nella zona turistica della città.

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Nita invece continua a cucire le chiusure lampo dei pantaloni con una macchina da cucito di origine cinese. Soffre spesso di nausee quando torna a casa dal lavoro per colpa dei prodotti chimici che colorano i vestiti.

Guarda la fotogallery: il prezzo della moda nella fabbriche tessili in Cambogia 

Nita e Champa si trovano davanti a un crocevia, con poche vie di uscita. Entrambe provengono da famiglie povere e non hanno avuto l’opportunità di studiare. Hanno scelto percorsi differenti: una verso la periferia, per lavorare all’interno delle fabbriche tessili, e l’altra verso la confusione della città, per prostituirsi.

L’industria tessile rappresenta il 90 per cento delle esportazioni della Cambogia. Lo scorso marzo 2015 un rapporto di Human Rights Watch ha denunciato le condizioni di lavoro all’interno delle fabbriche tessili del Paese.

Nita tra le cuciture

Nita ha 22 anni. Alle 6:30 del mattino comincia la sua routine. Esce dalla sua stanza per andare a lavorare in fabbrica, cercando di schivare i fiumiciattoli d’acqua e di fango che si trovano fuori dalla sua camera. Ha lo sguardo puntato a terra e avanza un passo alla volta, con molta attenzione.

Nella mano destra tiene stretto il suo pranzo, che mangerà nell’ora di pausa, in fabbrica. Un contenitore con riso e verdure, che ha cucinato pochi minuti prima su un fornelletto sul pavimento della sua stanza, dove dorme con altre due lavoratrici tessili. Il tutto concentrato in pochi metri.

Ogni mattina Nita è una delle prime a uscire dalla casa dove vive con altre 60 persone. È un edificio di mattoncini coperto da un tetto di lamiera metallica, che si compone di una stanza centrale e di otto camere esterne situate intorno a un cortile, dove i giocattoli dei bambini si perdono tra i resti del cibo. Nita raggiunge ogni giorno in moto, insieme ad altri due compagni, la fabbrica Best Asia che si trova a tre chilometri di distanza da casa.

Tossisce spesso. Racconta di essersi trasferita in città dal suo paesino di origine situato nelle campagne della provincia di Prey Veng, a sudest di Phnom Penh. Il suo obiettivo principale è quello di fare soldi. Una storia molto comune tra gli operai tessili che lavorano nelle oltre 400 fabbriche della città. Quasi tutte donne, come lei.

Una tosse profonda e secca interrompe le sue parole. Non è mal di gola, ma gli effetti delle sostanze chimiche contenute nei tessuti e nei prodotti utilizzati per tingere i capi di abbigliamento. “Non posso proteggermi con la mascherina perché il caldo mi impedisce di respirare bene”, mi racconta Nita. L’unico sollievo è la Lizipaina, un antinfiammatorio che Nita compra nella farmacia all’angolo di casa, al rientro dopo aver fatto la spesa al mercato del quartiere.

Il clima tropicale che caratterizza Phnom Penh, secco durante l’inverno e umido in estate, rende ancora più duro il lavoro nelle fabbriche. All’interno dei capannoni, pieni di macchine da cucire in azione e ferri da stiro fumosi, non sono rari gli svenimenti causati dal calore.

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Solo i ventilatori riescono ad alleviare un po’ la fatica degli operai. Il calore è un elemento che, sommato all’eccesso di ore di lavoro e alla scarsa alimentazione, mette a dura prova le condizioni psicologiche degli impiegati. Un caso su tutti: nel 2012 almeno cento lavoratori svennero all’interno della fabbrica Sabrina di Phnom Penh, che produce articoli Nike.

Nelle fabbriche i lavoratori siedono uno di fronte all’altro in lunghe file, come passeggeri di un treno troppo pieno che non smette di correre per otto ore al giorno. Dalle sette del mattino fino alle quattro del pomeriggio, con un’ora di pausa per mangiare. Orari che in alcuni casi si dilatano almeno di due ore, pagate 50 centesimi di euro l’una.

Inoltre, i pasti non riescono a dare agli operai le forze di cui hanno bisogno per resistere tutto il giorno in queste condizioni. Con 70 centesimi di euro al giorno, comprano dai venditori ambulanti lumache per pranzo e per cena in cambio di un pugno di riel cambogiani, la moneta locale.

“A volte ci obbligano a lavorare tutta la notte, senza dormire, e la mattina dobbiamo continuare il nostro impiego in fabbrica, senza energie per lavorare”, racconta Chea Sovannary, operaia tessile di 26 anni divorziata, che deve mantenere da sola una figlia di otto anni.

“Dobbiamo fare 100 cuciture ogni ora e guadagniamo 75 euro al mese, senza contare le ore di straordinario. In famiglia non riusciamo a vivere con il mio stipendio, per questo ho contratto un debito di circa 700 euro con una ong e non so quando riuscirò a pagarlo”, racconta mentre sale le scale che portano alla sua stanza.

Dalla finestra si intravedono nell’oscurità una massa di tetti di case e lamiere di baracche, che si distribuiscono in piccole strade strette, come tante parti di un presepe scomposto. È il quartiere periferico di Chak Angre Krom, situato nel sudest di Phnom Penh. Oscuro e isolato, è raggiungibile solo percorrendo strade buie e non asfaltate.

Anche Om Sreymom, 23 anni, vive nel quartiere di Chak Angre Krom. Ha la febbre alta, ma non può permettersi di rimanere a casa. Se lo facesse, perderebbe il salario di una giornata e dovrebbe sopportare rimproveri e umiliazioni da parte dei suoi capi. Lavora in una fabbrica tessile da sei mesi e guadagna 75 euro al mese, con i quali non riesce a coprire le spese quotidiane e a mantenere sua madre di 70 anni.

Om Sreymom non ha un contratto perché è ancora in periodo di prova. Secondo il diritto del lavoro cambogiano, questo periodo dovrebbe durare solo due mesi prima di trasformarsi in un contratto a termine. Ma la realtà è differente. È molto comune che il periodo di prova degli operai si prolunghi per mesi, soprattutto nelle piccole fabbriche dove non sono rappresentati adeguatamente da sindacalisti.

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Le 94 federazioni sindacali cambogiane stanno lottando per aumentare il salario minimo nazionale, dopo aver raggiunto alla fine del 2014 la cifra di 121 euro mensili, che dovrebbe diventare effettivo nei primi mesi del 2015.

I manager delle fabbriche ammettono la mancanza di una struttura e di risorse adeguate all’interno delle proprie imprese. “Abbiamo i ventilatori, ma la temperatura è sempre molto alta. Se qualcuno sviene lo portiamo all’ospedale dove riceve cure gratuite. Le condizioni igieniche sono buone, ma potrebbero essere migliori”, racconta Ing Dara, manager cinese della fabbrica HongKong Yufeng Garment, che impiega 400 lavoratori.

Come lui, la maggior parte dei manager che lavora nel settore tessile in Cambogia proviene dalla Cina o dalla Corea del Sud. Quasi tutti non parlano la lingua khmer, e per questo hanno bisogno di traduttori per comunicare con i lavoratori. I brand occidentali che commissionano i vestiti e le nazioni orientali che rappresentano i quadri dirigenti delle fabbriche si dividono l’appetitosa torta dei guadagni del settore, lasciando poche briciole agli operai tessili.

Champa nelle strade 

Sono passati 14 anni da quando Champa ottenne un contratto per un periodo di prova in una fabbrica tessile. Nella Shylang Hour Company erano le sue mani a tagliare il tessuto delle magliette oggi esposte sui manichini di tutto il mondo. Guadagnava un salario insufficiente, 37 euro al mese, e il manager della fabbrica la discriminava perché transessuale. Anche per questo iniziò a prostituirsi nelle strade di Phnom Pehn.


Come lei, tante altre donne senza risorse e senza istruzione hanno abbandonato il lavoro tessile. Champa decise di lasciare la fabbrica perché aveva capito che questo non era il suo destino.

Scelse un’altra strada. Come ogni giorno, alle 6 del pomeriggio, Champa si siede su una panchina della passeggiata che costeggia il fiume Tonle Sap, nel Riverside, la zona turistica di Phnom Penh.

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La sua voce flebile si perde nel traffico congestionato, dove il rumore delle moto fumose si mescola con quello dei clacson che non smettono di suonare. Ha un foulard legato in testa, una camicia a maniche lunghe chiusa fino all’ultimo bottone e pantaloni larghi dai colori vistosi. Incrocia le gambe e aspetta silenziosa che appaia un cliente.

Non è una prostituta come quelle che conosciamo in occidente. Non indossa tacchi a spillo o minigonne. In Cambogia sono diffusi i club di ragazze accompagnatrici e la prostituzione non è proibita. Non ci sono leggi che castighino la violenza e gli attacchi ai diritti delle donne. Per questo sono molti i rischi che corrono le lavoratrici sessuali cambogiane.

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Ci sono clienti che le maltrattano e altri che non le pagano nemmeno dopo la prestazione sessuale. Ce ne sono altri che si rifiutano di usare il preservativo mettendole a rischio di contrarre malattie a trasmissione sessuale come l’HIV.

La sanità pubblica, in molti casi, rifiuta di curarle gratuitamente. L’HIV infetta lo 0,5 per cento della popolazione in Cambogia, il 67esimo Paese con maggior diffusione di questa malattia su un totale di 186 nazioni prese in esame dall’Organizzazione mondiale della sanità.

Ma questo non è l’unico pericolo. La polizia può indiscriminatamente arrestarle e violentarle. I malviventi che si dedicano a furti e raggiri spesso le ricattano, minacciando la loro incolumità in cambio di soldi. La polizia che ne è al corrente non fa niente per evitarlo.

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Champa non ha avuto vita facile nei suoi 39 anni. Iniziò a prostituirsi quando ne aveva 14 e fu violentata all’età di 12 anni da un soldato del regime di Pol Pot, la dittatura che si instaurò alla fine degli anni Settanta e sterminò un terzo della popolazione.

“Quando uscivo per andare a lavorare dicevo alla mia famiglia che andavo a suonare con il mio gruppo musicale”, racconta Champa. “Poi la mia famiglia scoprì che mi prostituivo, e fui cacciata di casa. Con il tempo, però, i miei famigliari sono riusciti ad accettarlo, visto che i soldi che guadagno sono quelli che danno loro la possibilità di mangiare”.

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La prostituzione in Cambogia viene troppo spesso stigmatizzata. Ci sono molte lavoratrici sessuali che – come Sroy Mao, 35 anni di cui gli ultimi quattro impiegata come prostituta – hanno una doppia vita. Il fidanzato di Sroy Mao e i suoi quattro figli credono che ogni notte lavori come cameriera in una bar.

Lei, pur nascondendo di essere una prostituta, racconta ai suoi figli storie sulle lavoratrici sessuali in modo che conoscano le difficoltà che vivono e i motivi per cui sono obbligate a fare questo lavoro. “È più importante riempire lo stomaco che rispettare le tradizioni”, racconta. Secondo Sroy Mao, spiegare la prostituzione ai figli è un modo per combattere la discriminazione contro le donne che vendono il loro corpo.

Non è così per Phanna, 45 anni, di cui più di tre dedicati al lavoro sessuale, la quale ha deciso di raccontare chiaramente al marito disoccupato che è costretta a prostituirsi per sopravvivere. Lui lo accetta perché con il salario di Phanna mangia l’intera famiglia.

Champa, Sroy Mao e Phanna lasciarono le fabbriche tessili per il lavoro nelle strade spinte da necessità economiche, come molte altre donne in Cambogia. Alcune lavorano in fabbrica di giorno e si prostituiscono di notte per racimolare un salario che permetta loro di tirare avanti. In una notte, una lavoratrice sessuale può guadagnare tra gli 11 e i 36 euro. Un’operaia tessile impiega 15 giorni di lavoro per guadagnare la stessa cifra.

Oggi Champa è impiegata nella ong Women’s Network for Unity, che ha l’obiettivo di riunire le lavoratrici sessuali per informarle sui loro diritti, creando una rete che possa fornirgli sostegno. Grazie al salario che guadagna con la ong, non deve più prostituirsi di frequente come prima e può aiutare altre donne che si trovano in condizioni difficili. Sogna di cambiare le cose.

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I racconti delle fate

In Cambogia si crede ancora ai racconti delle fate. Le fate sono inquiline presenti in ogni casa. Quando le persone si trasferiscono in un’abitazione, devono offrire una nuova dimora a queste piccole creature. Per questo è comune trovare piccole casette di legno all’entrata di appartamenti e negozi, come quella ritratta nell’immagine qui sopra. Contengono cibo, bevande e vestiti della taglia delle fate, e sono un invito affinché queste creature magiche possano continuare a distribuire sogni.

In modo simile, sia pure solo metaforico, i protagonisti delle storie che abbiamo raccontato continuano a sognare un mondo migliore senza perdere la speranza. I sindacalisti auspicano che i lavoratori possano ottenere presto il salario minimo di 121 euro al mese. Le prostitute vogliono che il loro lavoro non sia discriminato e che i poliziotti e i malviventi smettano di maltrattarle.

Gli operai tessili sperano in un futuro dignitoso. Ad alcuni basterebbe un salario mensile decente, anche di poco superiore a quello che percepiscono attualmente. E sognano di poter far studiare i loro figli, per dare loro un futuro migliore. Anche Nita e Champa continuano a sognare.

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